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OPERE
DI
VINCENZO MONTI
Tomo IV.
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ILIADE
DI
OMERO
TRADUZIONE
D I
VINCENZO MONTI
MILANO
PRESSO GIOVANNI RESNATl
E GIUS. BERNARDONt DI GIO.
MDCCCXL
A SUA ALTEZZA IMPERIALE
EUGENIO NAPOLEONE
DI FRANCU
VICERÉ d’ ITRLIA
AUICAHGEUIUE DI (TATO DELI.* IMFEIO rlAMCEtE, rRUICIFB DI TEESZIA, IC.
Altbeza Imperiale *
La Diade fu sempre il poema de’ valorosi. Sono ancor
celebri le generose lagrime d’Alessandro sulla tomba di
Achille; ed è pure Ira gli uomini divulgato che quel
grande conquistatore solca chiamare l’ Iliade il viatico
delle sue spedizioni.
A voi dunque, magnanimo principe, giustamente se
ne intitola la traduzione nella lingua del bel paese , di
cui siete l’amore , a voi figlio ed alunno del maggior de’
guerrieri, e guerriero egregio voi stesso, coronato l’ an-
cor giovine fronte di quel medesimo alloro che cinse
un dì sulla Raab, ma non così bello, le tempie canute
del Montecuccoli.
* Questa lettera dedicatoria precedeva le prime due edìxioni della
Iliade fatte dal Monti.
6
Se il cielo, invidiandoTÌ ai nostri giorni, vi avesse con-
cesso agli eroici, Omero vi avrebbe collocato vicino ad
Achille fra Patroclo e Diomede. Noi, testimoni delle al-
tre vostre virtù, vi collochiamo in un grado più d’ assai
eminente : tra Minerva ed Astrea vicino al massimo vo-
stro padre.
Milano , 6 marzo 1 8 1 o.
Dell' Altezza Vostra Imperiale
UmilìiHino, D«ToUuimo, UUiidiealisumo Scrrtlor^
VINCENZO MONTI
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AL LETTORE
«VVE«Tm»lITO ruEMESSO DAlt'illITOIIE All* (Er.ONDA lOIZIONE
Molti e di non lirve importanza sono i cangiamenti co’
quali in questa seconda edizione* mi sono adoperato di
migliorare la mia versione. Altri risguardano la rigorosa
fedeltà de’ concetti , altri la più lodevole interpretazione del
testo , altri finalmente lo stile. L’ illustre signor cavaliere
Luigi Lamberti, le cui peregrine osservazioni sopra l’Iliade
vedranno in breve la luce , e I’ esimio corcirese signor Mu-
stoxidi , e più altri , mi sono stati in ciò liberali di utili
scbiarimenti. Ma sopra tutti mi ha soccorso il maggior lu-
minare dell’ italiana dottrina, il signor cavaliere Ennio Qui-
rino Visconti, nomo di quel sovrano sapere che a tutti è
palese nella cognizione de’ classici antichi. Le severe e co-
piose sue annotazioni cortesemente a mia richiesta invia-
temi da Parigi, son quelle che mi hanno messo in istato
di dare al mio lavoro una quasi novella vita.
Per ciò che appartiene allo stile , ho seguito principal-
mente la propria mia coscienza.
Parrà forse a taluno che per soverchio desiderio del
meglio , mi sia talvolta accaduto di andar nel peggio : e ,
per vero, la lima, se troppo si calca, morde spesso sul
vivo, e con la parte viziosa si porta via pure la sana. Tal
• Milano, dalla stamperia reale, iSia, tol. q in 8% od in i8“.
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8
altro per lo contrario stimerà che per variare le cadenze
del verso , o per dargli un andamento libero , disinvolto ,
c tale che per nulla si risenta dei vincoli che di continuo
inceppano il traduttore, stimerà, dico , eh’ io tolga non rade
volte nobiltà e decoro alla dizione, lasciandola andare
troppoVmplice e disadorna. Alla quale accusa io nuli’ altro
opporrò che l’ esempio d’ Annibai Caro , col seguente pre>
cetlo lasciatone * da uno de’ più rigidi legislatori dell’ i-
dioma italiano:
Gli ornamenti nella favella non istanno bene ad
ogni ora; e talvolta il mostrar negligenza in alcuna
lederà cosa, e il non dir sempre nel miglior modo
tutto ciò che nel miglior modo forse sempre dir si po-
trebbe , per rendere il parlar vario, o per altro cotal
riguardo, spesse fiale merita commendazione.
* Lionanlo Salviati» ÀTTertimenli della lìngua sopra il Decarac*
rone, lih. II, cap. 9.
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AVVERTIMENTO
bell' editore cloyjxyi resi/^ti.
Questa mia ristampa è condotta su quella del iSi5 pei
torchi delia milanese Società tipografica de’ Classici Italiani,
che fra le rivedute dall autore , è la quarta ed ultima , e
va corredata di un copioso Indice delle cose più notabili che
si contengono nelt Iliade. Per cura di quella medesima So-
cietà era uscita nel 1820 per la ter^a volta la versione del
Monti da lui ricorretta j e qui mi giova ripetere alcuni
brani coi quali dagli editori rcndevasi conto della loro pub-
blicazione.
n Nel riprodurre co' nostri torchi (dicevano essi) questa
classica traduzione che, ora sono dieci anni(i), riempì un
vóto che rimaneva nelt italiana letteratura , abbiamo la com-
piacenza di darla con varie correzioni dell autore , le quali
rendono la nostra edizione più perfetta delle antecedenti , e
sempre maggiormente preziosa la fatica del signor cavaliere
Monti ».
E toccato di quello che il Monti dice sugli schiarimenti
avuti dal f'isconti e dal Mustoxidi, soggiungevano; -Ora
le osservazioni del Fìsconti furono date in luce nel giornale
letterario che puhblicavasi tra noi col titolo di Ape. italiana;
quelle del signor Mustoxidi compariranno in breve tra’ suoi
Opuscoli (2)». Conchiudevano finalmente:
(i) La prima a<iiiioafl fa fatta io BrcKÌa dal Bettoni nel i8l0-
(s) Forooo pobUicalì in fatto qiiciti Opuacoli od l8ai col titolo diProaa varit dèi
eopalUrt Àndrm Mustoxidi corcirtst , con aggiunte cfi alcuni versi. Milano , in»8^.
La maggior parte però delle ouemstoni dei due cetefari dlmùti rimase tultaria ine»
dita; gìaccbò tanto di quelle dei Vùcooti nell'vdpe , quanto di qudle dd Maitoxidi
negli Opuacoli , neo venne pohUiralo ebe uo maggio.
IO
K Per quanto fu da noi , nuda trascurammo perchè nitida
ed accurata riuscisse la stampa di una versione che dal Ri-
sconti fu giustamente paragonata a quella delt Eneide per
Annibai Caro s alla quale è però nella fedeltà superiore ,
come [agguaglia nella maestria dello stile, e che il Mu-
stoxidi riguarda qual prctioso anello che unisce la lellera-
tura italiana alia greca. Per comodo poi dei leggitori aggiu-
gnemmo a ciascun libro gli argomenti scritti espressamente
da un nostro concittadino ».
Altrettanto si è ora fatto da me: ed il compilatore degli
argomenti si è compiaciuto di correggere in questa ristampa
un abbaglio nel quale si avvide di essere incorso nel i8ao
scrivendo, in fronte al Libro XXI J, che Achille strascinasse
il cadavere di Ettore intorno alle mura di Troia; circostanxa
quest" ultima che in Omero non trovasi , e che nelle prece-
denti edizioni passò inosservata.
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ILIADE
LIBRO PRIMO
ARGOMENTO
Cm0 sacerdote d’ApoUo , emndo Tenute alle ostì da' Cruci per riscaiure Crùeide soa fi
glia t fa viOanameote discacciato da Agamennone. Nel ritemare a Crùa^ ^li supplica Apodo
di Tendicarlo del rìceruto oltraggio. 11 Dio manda la peste nd campo dei Gtitì. Achille
chiama i dud a parlaanente ; e Calcante indovino» raasicnrate da Ini, palesa la cagione dell’ira
del Nome, coi dice non potersi placare, che col restituire Crisetde. Risentimento d' Aga-
mennone, a cni fa acerbamente risposte da Achille. Agameooone rnonta nelle farie, e minar -
ria di rapite ad Achille Briseide in compenso della schiara , eh* egli acccmcnte di rendere al
padre. Achille adirate protesta , che più non combatterfa pei Greci. Il parlamento fa disciolte.
Briseide fa consegnata agli araldi d'AganieiiooQe. Lamenti d’Achille. Tctide sua madre lo
consola. Crùeide fa resUtnita al padre, e la peste eesta dal lare strage de* Greci. Tetide,
■alila al cielo , prega Gsora di coooedera Tittoria ai Trojani finché i Greci non abbiano rio-
taralo 1’ onore del suo figlio. Giore accooieote col cenno del capo. Gionone Tiene per que-
ste a contesa con lui; ma Vulcano eoo accorte parole compone l' ire de’ coniugi ; e TÒtando
da bere io giro agli Dei, ne cnscsta U riso. Al fine deUa gio|;Data tutti gli Dei ritirann ne*
loro palagi a prender riposo.
Cantaoii, o Diva, del Pclide Achille
L' ira funesta , che infiniti addasse
Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
Generose travolse alme d’eroi,
E di cani e d’augelli orrido pasto
Lor salme abbandonò (co.sì di Giove
L’alto consiglio s’adempia), da quando
Primamente disgiunse aspra contesa
Il re de’ prodi , Atride , e il divo Achille.
E qual de’ numi inimicolli ? Il figlio
Di Latona e di Giove. Irato al Sire
Destò quel Dio nel campo un feral morbo,
E la gente pena: colpa d’ Atride,
Che fece a Crise sacerdote oltraggio.
Degli Achivi era Crise alle veloci
Prore venuto a riscattar la figlia
Con molto prezzo. In man le bende avea,
E l’aureo scettro dell’ arciere Apollo;
E agli Achei tutti supplicando, e in prima
Ai due supremi condottieri Atridi:
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ILIADE
ai-6(j
O Àtridi , ei disse , o coturnati Achei ,
Gl' inunortali del ciclo abitatori
Goncedanvi espugnar la Priameja
Cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.
Deh! mi sciogliete la diletta figlia j
Ricevetene il prezzo , c il saettante
Figlio di Giove rispettate. — Al prego
Tutti acclamar : doversi il sacerdote
Riverire, e accettar le ricche offerte.
Ma la proposta al cor d' Agamennone
Non talentando, in guise aspre il superbo
Accommiatollo , e minaccioso aggiunse:
Vecchio, non far, che presso a queste navi
Ned or, nè poscia più ti colga io mai;
Chè forse nulla ti varrà lo scettro.
Nè l’infula del Dio. Franca non fia
Costei , se lungi dalla patria , in Argo ,
Nella nostra magion pria non la sfiori
Vecchiezza, all’opra delle spole intenta,
E a parte assunta del rcgal mio letto.
Or va, nè m’irritar, se salvo ir brami.
Impaurissi il vecchio, ed al comando
Obbedì. Taciturno incamminossi
Del risonante mar lungo la riva;
E in disparte venuto , al santo Apollo ,
Di Latona figliuol , fc questo prego :
Dio dall’ arco d’ argento , o tu che Crisa
Proteggi e l’alma Cilla, c sei di Ténedo
Possente imperador, Smintéo, deh! m’odi :
Se di serti devoti unqua il leggiadro
Tuo delubro adomai, se di giovenchi
E di caprette io t’arsi i fianchi opimi,
Questo voto m’ adempì : il pianto mio
Paghino i Greci per le tue saette.
Si disse, orando. L’udi Febo, e scese
Dalle cime d’Olimpo in gran disdegno
Coll’ arco su le spalle , e la faretra
Tutta chiusa. Mettcan le frecce orrendo
Su gli òmeri all’ irato un tintinnio
Al mutar de’ gran passi; ed ci, simile
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t\ 6i*ioo
LIBRO I
3
A fosca notte , giù venia. Piantossi
Delle navi al cospetto^ indi uno strale
Libero dalla corda, ed un ronzio
Terribile mandò 1’ arco d’ argento.
Prima i giumenti e i presti veltri assalse^
Poi le schiere a ferir prese , vibrando
Le mortifere punte : onde per tutto
Degli esanimi corpi ardean le pire.
Nove giorni volàr pel campo acheo
Le divine quadrella. A parlamento
Nel decimo chiamò le turbe Achille ;
Chè gli pose nel cor questo consiglio
Giuno, la diva dalle bianche braccia,
De’ moribondi Achei fatta pietosa.
Come fiir giunti e in un raccolti, in mezzo
Levossi Achille piè-veloce , e disse:
Atride , or sì , cred’ io , volta daremo
Nuovamente errabondi al patrio lido,
Se pur morte fuggir ne fia concesso^
Chè guerra e peste ad un medesmo tempo
Ne struggono. Ma via; qualche indovino
Interroghiamo , o sacerdote, o pure
Interprete di sogni (chè da Giove
Anche il sogno procede ) , onde ne dica
Perchè tanta con noi d’ Apollo è l’ira:
Se di preci o di vittime neglette
Il Dio n’incolpa; e se, d’agnelli e scelte
Capre accettando 1’ odoroso fumo,
Il crudel morbo allontanar gli piaccia.
Cosi detto, s’ assise. In piedi allora
Di Testore il fìgliuol , Calcante , alzossi ,
De’ veggenti il più saggio, a cui ie cose
Eran conte, che ftir, sono e saranno;
E per quella , che dono era d’ Apollo ,
Profetica virtù, de’ Greci a Troja
Avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo
Pien di senno parlò queste parole:
Amor di Giove, generoso Achille,
Vuoi tu , che dell’ arder sovrano Apollo
Ti riveli lo sdegno? Io t’obbedisco.
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>4
ILIADR
101-140
Ma (lui braccio l'aita e della voce
À me tu pria, signor, prometti e giura 4
Perchè tal , che qui grande ha su gli Argivi
Tutti possanza, e a cui l'Àcheo s’inchina,
N’andrà, per mio pensar, molto sdegnoso.
Quando il potente col minor s’adira.
Reprime ei , si , del suo rancor la vampa
Per alcun tempo , ma nel cor la cova ,
Finché prorompa alla vendetta. Or dinne ,
Se salvo mi farai. — Parla securo ,
Rispose Achille, e del tuo cor l’arcano,
Qual ch’ei si sia, di’ franco. Per Apollo,
Che pregato da te ti sipiarcia il velo
De’ fati , e aperto tu li mostri a noi ,
Per questo Apollo, a Giove caro, io giuro:
Nessun, finch’ io m’avrò spirto e pupilla.
Con empia mano innanzi a queste navi
Oserà violar la tua persona.
Nessuno degli Achei 4 no, s’anco parli
D’Agamcnnòn , che sé medesmo or vanta
Dell’ esercito tutto il più possente.
Allor fe core il buon profeta, e disse:
Nè d’obbhati sacriCci il Dio,
Nè di voti si duol, ma dell’oltraggio.
Che al sacerdote fe poc’anzi Atride,
Che fimicargli la figlia, ed accettarne
11 riscatto negò. La colpa è (piesta.
Onde cotante ne dié strette , ed altre
L’ arcier divino ne darà4 nè pria
Ritrarrà dal castigo la man grave.
Che si rimandi la fatai donzella
Non redenta nè compra al padre amato,
E si spedisca un’ecatombe a Crisa.
Così forse avverrà, che il Dio si plachi.
Tac(pie, e $’ assise. Allor l’ Atride eroe ,
U re supremo Agamenn(5n, levossi
Corniccioso. Ofiiiscavagli la grande
Ira il cor gonfio, c come bragia rossi
Fiammeggiavano gli occhi. E tale ei prima
Squadrò torvo Calcante 4 indi proruppe:
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LIBRO I
I 5
Profeta di sciagure, unqua un acrentn
Non uscì di tua bocca a me gradito.
Ai maligno tuo cor sempre fu dolce
Predir disastri , e d’ onor vote e nude
Son l’opre tue del par che le parole.
E fra gli Argivi profetando or cianci ,
Che delle frecce sue Febo gl’ impiaga.
Sol perch’io ricusai della fanciulla
Criseidc il riscatto. Ed io bramava
Certo tenerla in signoria, tal sendu.
Che a Clitennestra pur, da me condutta
Vergine sposa , io la prepongo , a cui
Di persona costei punto non cede.
Nè di care sembianze , né d’ ingegno
Ne’ bei lavori di Minerva istrutto.
Ma libera sia pnr, se questo è il meglio;
Chè la salvezza io cerco, e non la morte
Del popol mio. Ma voi mi preparate
Tosto il compenso; chè de’ Greci io solo
Restarmi senza guiderdon non deggio;
Ed ingiusto ciò fora, or che una tanta
Preda, il vedete, dalle man mi fugge.
O d’ avarizia, al par che di grandezza,
Famoso Atride, gli rispose Achille,
Qual premio ti daranno , e per che modo
1 magnanimi Achei? Che molta in serbo
Vi sia ricchezza non partita, ignoro:
Delle vinte città tutte divise
Ne fur le spoglie, nè diritto or toma
A nuove parti congregarle in una.
Ma tu la prigioniera al Dio rimanda;
Chè più larga n’avrai tre volte e quattro
Ricompensa da noi, se Giove un giorno
L’ eccelsa Troja saccheggiar ne dia.
E a lui l’ Atride: Non tentar, quantunque
Nc’ detti accorto, d’ ingannarmi: in questo
Nè gabbo tu mi fai , divino Achille ,
Nè persuaso al tuo voler mi rechi.
Dunque terrai tu la tua preda , ed io
Della mia privo rimarrommi l E imponi
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6
TLUDE
*•. i8i*aao
Che costei sia renduta? Il sia. Ma giusti
Conccdanmi gli Àchivi altra captiva,
Clic questa adegui, e al mio desir risponda.
Se non daranla , rapiroUa io stesso ,
Sia d’Ajacc la schiava, o sia d'Ulisse,
O ben anco la tua: e quegli indarno
Fremerà d'ira, alle cui tende io vegna.
Ma di ciò poscia parlerem. D' esperti
Rematori fornita or si sospinga
Nel pelago una nave , e vi s' imbarchi
Coll' ecatombe la rosata guancia
Della figlia di Crise^ e ne sia duce
Alcun de' primi, o Ajace , o Idomenéo,
O il divo Ulisse , 0 tu medesmo pure.
Tremendissimo Achille^ onde di tanto
Sacrificante il grato ministero
Il Dio ne plachi, che da lunge impiaga.
Lo guatò bieco Achille, e gli rispose:
Anima invereconda , anima avara ,
Chi fia tra i figli degli Achei sì vile.
Che obbedisca al tuo cenno , o trar la spada
In agguati convegna, o in ria battaglia?
Per odio de' Trojani io qua non venni
A portar l'armi, io, no; chè meco ci sono
D'ogni colpa innocenti. Essi nè mandrc ,
Nè destrier mi rapirò ; essi le biade
Della feconda popolosa Ftia
Non saccheggiar; chè molti gioghi ombrosi
Ne son frapposti e il pelago sonoro.
Ma sol per tuo profitto , o svergognato ,
E per l' onor di Menelao , pel tuo ,
Pel tuo medesmo, o brutal ceflb, a Troja
Ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi
Tu ne disprezzi ingrato, e ne calpesti,
E a me medesmo di rapir minacci
De' miei sudori bellicosi il frutto ,
L'unico premio, che l'Acheo mi diede.
Nè pari al tuo d’ averlo io già mi spero
Quel di, che i Greci l'opulenta Troja
Conquistcran; chè mio dell' aspra guerra
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aai>26o
LIBRO
7
Certo i il carco maggior^ jiia quando in mezzo
SI dividon le spoglie, è tua la prima,
Ed ultima la mia, di cui ri’ è forza
Tornar contento alla mia nave, e stanco
Di battaglia e di sangue. Or dunque a Ftia ,
A Ftia si rieda^ che d’ assai fia meglio
Al paterno terrcn volger la prora.
Che vilipeso adunator qui starmi
Di ricchezze e d’onori a chi m’offende.
Fuggi dunque, riprese Agamennónc^
Fuggi pur, se t’ aggrada. Io non ti prego
Di rimanerti. Al fianco mio si stanno
Ben altri croi, che a mia rcgal persona
Gnor daranno, e il giuste Giove in prima.
Di quanti ei nudre regnatori , abborro
Te più ch’altri^ si, te, eie le contese
Sempre agogni e le zuffe : le battaglie.
Se fortissimo sei, d’un E io fu dono
La tua fortezza. Or va, sciogli le navi^
Fa co’ tuoi prodi al patrio suol ritorno^
Ai Mirmidoni impera ^ io non ti curo ,
E l'ire tue derido. Anzi m’ascolta:
Poiché Apollo Criséide mi toglie ,
Parta: d’un mio naviglio, c da’ mici fidi
Io la rimando accompagnata, c cedo.
Ma nel tuo padiglione ad involarti
Verrò la figlia di Briséo, la bella
Tua prigioniera, io stesso; onde t’avvegga
Quant’ io t’avanzo di possanza, e quindi
Altri meco uguagliarsi e cozzar tema.
Di furore infiammar 1’ alma d’Achille
Queste parole. Due pcnsier gli fòro
Terribile tenzon nell’ irto petto:
Se dal fianco tirando il ferro acuto ,
La via s’aprisse tra la calca, e in seno
L’ immergesse all’Atridc , o se domasse
L’ira, c chetasse il tempestoso core.
Fra lo sdegno ondeggiando e la ragione
L’agitato pensicr, corse la mano
Sovra la spada, c dalla gran vagina
Mosti. Ilinde. 2
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ii.iAui:
atìi-loo
Traemlo la venia: quando veloce
Dal cicl Minerva accorse , a lui spedita
Dalla diva Giunon, che d’ambo i duci
tigual cura cd amor uudria nel petto.
Gli venne a tcrgoii e per la bionda chionia
Prese il fiero Pelide, a tutti occulta,
A lui sol manifesta. Stupefatto
Si scosse Achille, si rivolse, e tosto
Riconobbe la Diva , a cui dagli occhi
Usci’an due fiamme di terribil luce;
E la chiamò per nome, e in ratti accenti:
Figlia, disse, di Giove, a che ne vieni?
Forse d'Atride a veder P onte? Aperto
Io tei protesto , e avran miei detti effetto :
F,i col suo superbir cerca la morte ,
E la morte si avrà. — Frena lo sdegno,
La Dea rispose dalle luci azzuiTe:
Io qui dal cicl discesi ad acchetarti ,
Se obbedirmi vorrai. Giuno spedimmi,
Giuno, ch’entrambi vi difende cd ama.
Or via, ti calma, nè trar brando, c solo
Di parole contendi. Io tei predico,
E andrà pieno il mio detto: verrà tempo.
Che tre volte maggior, per doni eletti ,
Avrai riparo dell’ ingiusta offesa.
Tu reprimi la furia, cd obbedisci.
E Achille a lei; Seguir m’è forza, o Diva,
Benché d’ira il cor arda, il tuo consiglio.
Questo fia lo miglior. Ai numi è caro
Chi de’ numi al voler piega la fronte.
Disse^ e rattenne su l’argenteo pomo
La poderosa mano, e il grande acciaro
Nel fodero re.spinse, alle parole
Docile di .Minerva. Ed ella intanto
All’ auree sedi dell’ Egioco padri;
Sul cielo risalì fra gli altri Eterni.
Achille allora , con acerbi detti
Rinfrescando la lite, assalse Atride:
Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core!
Tu non osi giammai nelle battaglie
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LIBRO I
9
. 301*340
Dar dentro colla turba, o negli agguati
Perigliarti co’ primi infra gli Achei ;
Che ogni rischio t’è morte. Assai per certo
Meglio ti torna di ciascun , che franca
Nella grand’ oste achea contro ti dica ,
Gli avuti doni in securtà rapire.
Ma se questa non fosse, a cui comandi.
Spregiata gente e vii, tu non saresti
Del popol tuo divorator tiranno,
E l’ultimo de’ torti avresti or fatto.
Ma ben t’ annunzio, ed altamente il giuro
Per questo scettro (che diviso un giorno
Dal montano suo tronco unqua nò ramo
Nè fronda metterà , nè mai virgulto
Germoglierà, poiché gli tolse il ferro
Con la scorza le chiome, ed ora in pugno
Sei portano gli Achei, che posti sono
Del giusto a guardia e delle sante leggi
Ricevute dal ciel)^ per questo io giuro,
E inviolato sacramento il tieni :
Stagion verrà , che negli Achei si svegli
Desiderio d’Achille; e tu salvarli ,
Misero! non potrai, quando la spada
Dell’ omicida Ettór farà vermigli
Di larga strage i campi; e allor di rabbia
Il cor ti roderai; chè si villana
Al più forte de’ Greci onta facesti.
Disse; e gittò lo scettro a terra, adorno
D’ aurei cbiovi, c s’ assise. Ardea l’Atride
Di novello furor; quando nel mezzo
Sorse de’ Pilj l’ orator , Nestorrc ,
Facondo si, che di sua bocca usciéiio
Più che mel dolci d’eloquenza i rivi.
Di parlanti con lui nati c cresciuti
Nell’ alma Pilo ei già trascorse avea
Due vite, e nella terza allor regnava.
Con prudenti parole il santo veglio
Cosi loro a dir prese : Eterni Dei !
Quanto lutto alla Grecia, e quanta a Priamo
Gioja s’appresta ed a’ suoi figli e a tutta
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ILIAOK
34i-38«
2U
La dardania città , quando fra loro
Di voi s' intenda la fatai contesa ,
Di voi, che tutti di valor vincete
E di senno gli Achei! Deh! m'ascoltate :
Che minor d’anni di me siete entrambi^
Ed io pur con eroi son visso un tempo
Di voi più prodi , c non fui loro a vile :
Ned altri tali io vidi unqua, nè spero
Di riveder più mai , quale un Dri'ante,
Moderator di genti, e Piritóo,
Ccneo ed Essadio c Polifcmo , uom divo ,
E 1’ Egide Teseo , pari ad un nume.
Alme più forti non nudi'ia la terra ^
E forti essendo , coinbattcan co’ forti ,
Co’ montani Centauri, e strage orrenda
Ne fean. Con questi , a lor preghiera , io spesso ,
Partendomi da Pilo e dal lontano
Ap io confine , a conversar venia ;
E, secondo mie forze, anch’io pugnava.
Ma di quanti mortali or crea la terra,
Niun potria pareggiarli. E nondimeno
Da quei prestanti orecchio il mio consiglio
Ed il mio detto obbedienza ottenne.
E voi pur anco m’ obbedite adunque^
Chè l’obbedirmi or giova. Inclito Atride,
Deh! non voler, sebben si gi'ande, a questi
Tor la fanciulla^ ma eh’ ci s’abbia in pace
Da’ Greci il dato guiderdon consenti.
Nè tu cozzar con inimico petto
Contra il rege , o Pelide. Un re supremo ,
Cui d’ alta maestà Giove circonda ,
Uguaglianza d’ onore iniqua non solfre.
Se generato d’una diva madre
Tu lui vinci di forza , ei vince , o figlio ,
Te di poter, perchè a più genti impera.
Deh! pon giù l’ira, .Atride, e placherassi
Pure Achille al mio prego, ei, che de’ Greci
In sì ria guerra è principal sostegno.
Tu rcttissimo parli, o saggio antico.
Pronto riprese il regnatore Atride;
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LIBRO I
J8i*4ao
Ma costui tutti soverchiar presume,
Tutti a schiavi tener, dar legge a tutti,
Tutti gravar del suo comando. Ed io
Potrei patirlo? Io, no. Se il fi^ro i numi
Un invitto gucrrier, forse pur anco
Di tanto insolentir gli dicco il dritto?
Tagliò quel dire Achille, e gli rispose:
Un pauroso , un vii certo sarei ,
Se d’ ogni cenno tuo ligio foss’ io.
Altrui comanda, a me non già^ ch’io teco
Sciolto di tutta obbedienza or sono.
Questo solo vo’ dirti , c tu nel mezzo
Lo rinserra del cor: per la fanciulla
Un dì donata, ingiustamente or tolta.
Nò con te, nè con altri il brando mio
Combatterà. Ma di quant’ altre spoglie
Nella nave mi serbo, nè pur una,
S’io la niego, t’avrai. Vien, se noi credi,
Vieni alla prova •, e il sangue tuo , scorrente
Dalla mia lancia, farà saggio altrui.
Con questa di parole aspra tenzone
Levarsi^ e sciolto fu 1’ acheo consesso.
Con Patroclo il Pclidc, c co’ suol prodi
Riede a sue navi nelle tende ^ e Àtride
Varar fa tosto a venti remi eletti
Una celere prora colla sacra
Ecatombe. Di Crisc egli medesmo
Vi guida e posa l’ avvenente figlia ^
Duee v’ascende il saggio Ulisse, e tutti
Già montati corrcan l’ umide vie.
Ciò fatto, indisse al campo Agamennone
Una sacra lavanda : e ognun devoto
Purificarsi, c via gittar nell’ onde
Le sozzure, e del mar lungo la riva
Ofirir di capri e di torelli intere
Ecatombi ad Apollo. Al ciel salia
Volubile col fumo il pingue odore.
Seguian nel campo questi riti. E fermo
Nel suo dispetto e nella dianzi fatta
Ria minaccia ad Achille, intanto Atridc,
a I
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ILIADE
t'.
Euribate e Taltibio a sè chiamando ,
Fidi araldi e sergenti: Ite, lor disse,
Del Pelidc alla tenda, c m’adducete
La bella figlia di Briséo. Se il nicga,
lo ne verrò con molta mano, io stesso
A gliela tórre: c ciò gli fia più duro.
Disse ^ e, il cenno aggravando, in via li pose.
Del mar lunghesso l’ infecondo lido
Givan quelli a mal cuore; e pervenuti
De’ Mirmidòni alla campai marina,
Trovar l’ eroe seduto appo le navi
Davanti al padiglion : nè del vederli
Certo Achille fu lieto. Ambo al cospetto
Regai fermarsi trepidanti e chini.
Nè far motto fur osi nè dimando;
Ma tutto ei vide in .suo pensiero, c disse:
Messaggieri di Giove c delle genti ,
Salvete, araldi, e v’ appressate. In voi
Ninna è colpa con meco. Il solo Atride,
Ei solo è reo, che voi per la fanciulla
Brisèide qui manda. Or va, fuor mena.
Generoso Patroclo, la donzella,
E in man di questi guidator l’affida.
Ma voi medesmi innanzi ai santi numi.
Ed innanzi ai mortali e al re crudele
Siatemi testimon, quando il dì splenda,
Che a scampar gli altri di rovina il mio
Braccio abbisogni; perocché delira
In suo danno costui, ned il présente
Vede, nè il poi, nè il come a sua difesa
Salvi alle navi pugneran gli Achei.
Disse; e Patroclo del diletto amico
Al comando obbedì. Fuor della teiida
Brisèide menò, guancia gentile.
Ed agli araldi condotticr la cesse.
Mentre ci fanno alle navi aehee ritorno,
E ritrosa con lor pai-tia la donna,
Proruppe Achille in un subito pianto;
E da’ suoi scompagnato, in su la riva
Del grigio mar s’ assise, c il mar guardando ,
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LIBRO
Le man stese, c dolente alla diletta
Madre pregando: Oh madre! è questo, disse,
Questo è l’onor, che darmi il gran Tonante
A conforto dovea del viver hreve,
A cui mi partoristi? Ecco, ei mi lascia
Spregiato in tutto : il re superbo Atride
Agamennòn mi disonora^ il meglio
De’ miei preinj rapisce, e sei possiede.
Si, piangendo, dieea. La veneranda
Genitrice l’udi, che ne’ profondi
Gorghi del mare si sedea dappresso
Al vecchio padre^ udillo, e tosto emerse.
Come nebbia, dall’onda: accanto al figlio,
Che lagi'ime spargea, dolce s’ assise,
E colla mano accarczzollo , e disse :
Figlio, a che piangi? e qual t’ opprime aflanno?
Di’, non celarlo in cor: meco il dividi.
Madre, tu il sai, rispose, alto gemendo,
11 piè-veloce eroe. Ridir che giova
Tutto il già conto? Nella sacra sede
D’Eézi'on ne gimmo ^ la cittade
Ponemmo a sacco, e tutta a questo campo
Fu condotta la preda. In giuste parti
La diviscr gli Achivi, c la leggiadra
Criscide fu scelta al primo Atride.
Crise, d’ Apollo sacerdote, allora
Con r infoia del nume e 1’ aureo scettro
Venne alle navi a riscattar la Gglia.
Molti doni offerì , molte agli Achivi
Porse preghiere, ed agli Atridi in prima.
Invan^ chè preghi e doni c sacerdote
E degli Achei l’assenso ebbe in dispregio
Agamennòn, che minaccioso e duro
Quel misero cacciò dal suo cospetto.
Parti sdegnato il veglio; e Apollo, a cui
Diletto capo egli era , il suo lamento
Esaudì dall’Olimpo, e contea i Greci
Pestiferi vibrò dai'di mortali.
Pena la gente a torme, e d’ogni parte
Sibilanti del Dio pel rampo tutto
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ILIADE
V. 5oi*5^o
Volavano gli strali. Alfine un saggio
Indovin ne fe chiaro in assemblea
L’oracolo d’ Apollo. Io tosto il primo
Esortai di placar l’ire divine.
Sdegnossene l’Atride^ e, in piè levato,
Una minaccia mi fe tal, che pieno
Compimento sorti. Gli Achivi a Crisa
Sovr’agil nave già la schiava adducono
Non senza doni a Febo; e dalla tenda
A me pur dianzi tolsero gli araldi,
E menàr seco di "Briséo la figlia,
La fanciulla da’ Greci a me donata.
Ma tu, che il puoi, tu al figlio tuo soccorri;
Vanne all’Olimpo, e porgi preghi a Giove.
S’ un(jua Giove per te fu nel bisogno
O d’opera aitato o di parole.
Nel patrio tetto, io ben lo mi ricordo.
Spesso t’intesi gloriarti, e dire.
Che sola fra gli Dei da ria sciagura
Giove campasti adunator di nembi
11 giorno che tentar Giuno e Ncttunno
E Palladc Minerva, in un con gli altri
Congiurati del ciel , porlo in catene ;
Ma tu nell’uopo sopraggiunta, o Dea,
L’involasti al periglio, all’alto Olimpo
Prestamente chiamando il gran Ccntimano,
Che dagli Dei nomato è Briaréo,
Da’ mortali Egedne, e di fortezza
Lo stesso genitor vincca d’assai.
Fiero di tanto onore, alto ei .s’ assise
Di Giove al fianco, c n’cbbcr tema i numi.
Che poscr di legarlo ogni pensiero.
Or tu questo rammentagli, e al suo lato
Siedi, c gli abbraccia le ginocchia, e il prega
Di dar soccorso ai Teucri, c far, che tutte
Fino alle navi le falangi achee
Sien spinte c rotte e trucidate. Ognuno
Lo si goda così questo tiranno;
Senta egli stesso il gran regnante Atridc
Qual commise follia, quando superbo
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i-58o
LIBRO I
2!)
Fc de’ Greci al più forte un tanto oltragj^io.
E, lagrimando, a lui Teti rispose:
Ah figlio mio! se con sì reo destino
Ti pai'torìi, perchè allevarti, ahi lassa?
Oh potessi OZIOSO a questa riva
Senza pianto restarti e senza offese,
Ingannando la Parca, che t’incalza,
Ed ornai t’ha raggiunto! Ora i tuoi giorni
Brevi sono ad un tempo ed infelici;
Chè iniqua stella il dì, ch’io ti produssi,
I talami paterni illuminava.
E nondimcn d’Olimpo alle nevose
Vette n’andrò; ragionerò con Giove,
Del fulmine signore, e al tuo desire
Piegarlo tenterò. Tu statti intanto
Alle navi; e nell’ozio del tuo brando
Senta l’Achivo de’ tuoi sdegni il peso;
Perocché jeri in grembo all’Oceano
Fra gl’innocenti Etiopi discese
Giove a convito, e il seguir tutti i numi.
Dopo la luec dodicesma al eielo
Tornerà. Rccherommi allor di Giove
Agli eterni palagi; al suo ginocchio
Mi gitterò , supplicherò : nè vana
D’ espugnarne il voler speranza io porto.
Partì, ciò detto; e lui quivi di bile
Macerato lasciò per la fanciulla.
Suo mal grado rapita. Intanto a Crisa
Colla sacra ecatombe Ulisse approda.
Nel seno entrati del profondo porto.
Le vele ammainar, le collocaro
Dentro il bruno naviglio, e prestamente
Dechinàr colle gomone l’antenna,
E l’ adagiar nella corsia. Co’ remi
II naviglio accostar quindi alla riva;
E l’ àncore gittate, e della poppa
Annodati i ritegni, ecco sul lido
Tutta smontar la gente; ecco schierarsi
L’ecatombe d’ Apollo, e dalla nave,
Dell’ onde vìatricc , ultima uscire
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,jg ILIADE W
Criseidc. All’ aitar l’ accompagnava
L’ accorto Ulisse , ed alla man del caro
Genitor la ponca con questi accenti :
Crise, il re sommo Agaraennón mi manda
A ti render la figlia, c offrir solenne
Un’ecatombe a Febo, onde gli sdegni
Placar del nume, che gli Achei percosse
D’acerbissima piaga. — In questo dire
L’amata figlia in man gli cesse; e il vccehio
La si raceolse, giubilando , al petto.
Tosto d’ intorno al ben costrutto altare
In ordinanza statuir la bella
Ecatombe del Dio ; lavar le palme ,
Presero il sacro fan-o; e Crise, alzando
Colla voce la man, fe questo prego:
Dio , che godi trattar 1’ arco d’ argento ,
Tu, che Crisa proteggi e la divina
Cilla, signor di Ténedo possente.
M’odi: se dianzi a mia preghiera il campo
Acheo gravasti di gran danno, c onore
Mi désti, or fammi di quest’ altro voto
Contento appieno : la terribil lue.
Che i Danai strugge, allontanar ti piaccia.
SI disse, orando; ed csaudillo il nume.
Quindi fin posto alle preghiere, e sparso
Il salso farro, alzar fér suso in prima
Alle vittime il collo, e le sgozzavo.
Tratto il cuojo, fasciar le incise cosce
Di doppio omento, c le coprir di crudi
Brani. Il buon vecchio su l’accese schegge
Le abbrustolava, e di purpureo vino
Spruzzando le venia. Scelti garzoni
Al suo fianco tcncan gli spiedi in pugno
Di cinque punte armati: e come furo
Rosolate le coste, e fatto il saggio
Delle viscere sacre, il resto in pezzi
Negli schidoni infissero ; con molto
Avvedimento l’ arrostivo , c poscia ^
Tolscr tutto alle fiamme. Al fin dell opra
Poste le mense, a banchettar si diero.
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LiBBO I
1-j
E del cibo egualmente ripartito
Sbramàrsi tutti. Del cibarsi estinto
E del bere il desio, d’almo h'eo
Coronando il cratere, a tutti in giro
Ne porsero i donr.elH, c fe ciascuno
Libagion colle tazze. E così, tutto
Cantando il di, la gioventude argiva,
E un allegro peana alto intonando.
Laudi a Febo dicean, che ncll’udirli-
Sentiasi tocco di dolcezza il core.
Fugato il sole dalla notte, ci diersi
Presso i poppesi della nave al sonno.
Poi come il cielo colle rosee dita
La bella 6glia del mattino aperse.
Conversero la prora al campo argivo,
E mandò loro in poppa il vento Apollo.
Rizzar l’antenna, e delle bianche vele
Il seno dispiegar. L’aura seconda
Le gonhava per mezzo, c strepitoso.
Nel passar della nave, il flutto azzurro
Mormorava d’intorno alla carena.
Giunti agli argivi accampamenti , in secco
Trasser la nave su la colma arena.
E lunghe vi spiegar travi di sotto
Acconciamente. Per le tende poi
Si dispersero tutti e pe’navili.
Appo i suoi legni intanto il generoso
Pelide Achille nel segreto petto
Di sdegno si pascea; nè al parlamento,
Scuola illustre d’eroi, nè alle battaglie
Più comparia ^ ma il cor struggea di doglia
Lungi dall’ armi, e sol dell’ armi il snono.
E delle pugne il grido egli sospira.
Rifulse alfin la dodicesma aurora ^
E tutti di conserva al ciel gli Eterni
Fean ritorno, cd avanti iva il re Giove.
Memore allor del figlio e del suo prego,
Teti emerse dal mare, e mattutina
In cielo al sommo dell’Olimpo alzossi.
Sul più sublime de’ suoi molti giughi
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ILIADE
In disparte trovò sedato e solo
L’onniveggente Giove. Innanzi a lui
La Dea g’ assise; colla manca strinse
Le divine ginocchia; c, colla destra
Molccndo il mento, c supplicando, disse;
Giove padre, se d’opre e di parole
Giovevole fra’ numi unqua ti fui,
Un mio voto adempisci. Il figlio mio,
Cui volge il fato la più corta vita.
Deh ! m’ onora il mio figlio a torto ofleso
Dal re supremo Agamennón, che a forza
Gli rapì la sua donna , c la si tiene.
Onoralo, ti prego, olimpio Giove,
Sapientissimo Iddio; fa, che vittrici
Sien le spade trojane, infin che tutto,
R doppio ancora dagli Achei pentiti
Al mio figlio si renda il tolto onore.
Disse ; c nessuna le facea risposta
Il procelloso Iddio; ma lunga pezza
Muto stette, e sedea. Teti il ginocchio
Teneagli stretto tuttavolta, c i preghi
Iterando venia ; Deh ! parla alfine ;
Dimmi aperto se nieghi, o se concedi :
Nulla hai tu che temer; fa, ch’io mi sappia ,
Se fra le Dee son io la più spregiata.
Profondamente allora sospirando,
L’adunator de’ nembi le rispose;
Opra chiedi odiosa, che nemico
Farammi a Giuno, c degli ontosi suoi
Motti bersaglio. Ardita ella mal sempre
Pur dinanzi agli Dei vien meco a lite,
E de’ Trojani ajutator m’accusa.
Ma tu sgombra di qua; chò non ti vegga
La sospettosa. Mio pcnsier fia poscia,
Che il desir tuo si compia: c a tuo conforto
Abbine il cenno del mio capo in pegno.
Questo fra’ numi è il massimo mio giuro;
Nè revocarsi, nè fallir, nè vana
Esser può cosa, che il mio capo accenna.
Disse; c il gran figlio di Saturno i neri
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7oi-74'> libro ( a()
Sopraccigli inchinò. Su l’ immortale
Capo «lei Sire le divine chiome
Oiideggiaro, e tremonne il vasto Olimpo.
Così fermo l’aiTar, si dipartirò.
Tcti dai ciel spiccò nel mare un salto ^
Giove alla reggia s’avviò. Rizzàrsi
Tutti ad un tempo da’ lor troni i numi
Verso il gran padre^ nè veruno ardissi
.\spettame il venir fermo al suo seggio,
Ma mosser tutti ad incontrarlo. Ei grave
Si compose sul trono. E già sapea
Giano il fatto del Dio; eh’ ella veduto
In segreti consigli avea con esso
La figlia di ^^créo, Teti, la diva
Dal bianco piede. Con parole acerbe
Così dunque l’assalsei E qual de’ numi
Tenne or teco consulta, o ingannatore ?
Sempre t’è caro da me scevro ordire
Tenebrosi disegni , nè ti piacque
Mai farmi manifesto un tuo pensiero.
E degli uomini il padre e degli Dei
Le rispose: Giunon, tutto, che penso,
Non sperar di saperlo. Ardua ten fora
L’intelligenza, benché moglie a Giove.
Ben qualunque dir cosa si convegna.
Nullo, prima di te, mortale o Dio,
La si saprà. Ma quel, che lungi io voglio
Dai Celesti ordinar nel mio segreto,
Non dimandarlo, nè scrutarlo^ e cessa.
Acerbissimo Giove, c che dicesti?
Riprese allor la maestosa il guardo
Veneranda Giunon; gran tempo è pure,
Che da te nulla cerco, c nulla chieggo,
E tu tranquillo adempi ogni tuo senno.
Or grave un dubbio mi molesta il core ,
Che Teti, del marin vecchio la figlia,
Non ti seduca^ ch’io la vidi , io stessa,
Sul mattino arrivar , sederli accanto ,
Abbracciarti i ginocchi : c certo a lei
Di molti Achivi tu giurasti il danno
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ILIAUL
7ì‘-;Ro
;<()
Appo le navi, per onov d’Achille.
F. a rincontro il signor delle tempeste:
Sempre sospètti, nè celarmi io posso.
Spirto maligno, agli occhi tuoi. Ma indarno
La tua cura uscirà; eh’ anzi più sempre
Tu mi costringi a disamarti; e questo
A peggio ti verrà. S’al ver t’apponi,
Che al ver t’apponga ho earo. Or siedi, e taci,
E m’obbedisci; che giovai-ti invano
Potrian quanti in Olimpo a tua difesa
Accorrcsser Celesti, allor che poste
Le invitte mani nelle chiome io t'abbia.
Disse; e chinò la veneranda Giulio
I suoi grand’ occhi paurosa e muta;
E, in cor premendo il suo livor, s’ assise.
Di Giove in tutta la magion le fronti
Si contristar de’numi; c in mezzo a loro,
Gratificando alla diletta madre,
Vulcan, l’inclito fabbro, a dir sì prese:
Una malvagia intolleranda cosa
Questa al certo sarà, se voi cotanto,
De’ mortali a cagiou , piato movete,
E suscitate fra gli Dei tumulto.
De’ banchetti la gioja ecco sbandita ,
.Se la vince il peggior. Madre, t’esorto,
Benché saggia per te: vinci di Giove,
Vinci del padre coll’ossequio l’ira;
Onde a lite non torni , c del convito
Ne contm-bi il piacer; ch’egli ne puote,
Del fulmine signore e dell’Olimpo,
Dai nostri seggi rovesciar, se il voglia;
Perocché sua possanza a tutte é sopra.
Or tu con care parolette il moiri,
E tosto il placherai. — Sursc, ciò detto.
Ed all’amata genitrice un tondo
Gemino nappo fra le mani ci pose ,
Bisbigliando all' orecchio: O madre mia,
Benché mesta a ragion, sopporta in pace;
Onde te con quest’occhi io qui non vegga,
le, che cara mi .sei, forte battuta:
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Si-Bi.l
LIBRO I
3
Ckè ailur nessuna con dolor mio sommo
Darti aita io potrei. Duro egli è troppo
Cozzar con Giove. Altra fiata, il sai,
Volli in tuo scampo venturarmi; il crudo
AfTcrrommi d’un piede, c mi scagliò
Dalle soglie celesti. Un giorno intero
Rovinai per l’immenso, e rifinito
In Lenno caddi col cader del sole.
Dalli Sinzj raccolto a me pietosi.
Disse ^ c la Diva dalle bianche braccia
Risc^ e, in quel riso, dalla man del figlio
Prese il nappo. Ed ci poscia agli altri Eterni,
Incominciando a destra , c dal cratere
Il nettare attignendo , a tutti in giro
Lo mcscea. Suscitossi infra’ Beati
Immenso riso nel veder Vulcano
Per la sala aggirarsi affaccendato
In quell’opra. Cosi, fino al tramonto.
Tutto il di convitossi, ed egualmente
Del banchetto ogni Dio partecipava.
Nè l’aurata mancò lira d’ Apollo,
Nè il dolce delle muse alterno canto.
Ratto, poi che del Sol la luminosa
Lampa si spense, a’ suoi riposi ognuno
Ne’ palagi n’andò, che fabbricati
A ciascheduno avea con ammirando
Artifizio Vulcan, l’inclito zoppo.
E a’ suoi talami anch’esso, ove qual volta
Soave l’ assalta fona di sonno,
Corcar solea le membra, il fulminante
Olimpio s’avvio. Quivi salito,
Addormcntossi il nume^ ed al suo fianco
Giacipie l’alma Giunon , che d’ oro ha il trono.
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FJBRO SECONDO
ARGOMENTO
Giove, |>eiuaiKloi durante L notte, rame compiere U promeua vendetta d’Acbille, invw
ad Agaawnnooe un fogno nuleReo, per meoo del quale grim|>oue di coodorre a battaglia Ir
squadre de’Greri} aoauociaodogli eiaere dagli Dei roneordrtneale deliberata la roviaa di
Troja. Agameimooe cbiuna i duci a parlamento nella Icttda di Nestore, e consulta con esso
il inodu di porre in armi i Greci} ma dubitando dei sentimenti del {nspnlo, Tuole spiarli csmi
una fintìone. Il consesso è raduoato. Agamennone procione la fuga. I>a moltitudine, male in*
teqiretaodo le inteniiuni del rapilanu, si dispone precipitosamente alla parlenta. Ulisse, esor>
lato da Minerva, trattiene i fuggitivi; persuadendo con blande pan>te i dvici, e r«ml>rottajido il
volgo do’guerricri. L’assemblea è raccolta di nuovo. Tersile, avendo osato di alzar la voce con-
tro Agamennone , è da Ulisse boUuto cullo scettro c ndulto al siltruzìo. Ulivse e Nestore
esortano i Greci a proseguire la guerra. Agamennone , do{» di avere disposti gL animi alla
Itattaglia, sagrifica a Giove, e convita i principali dell' esercito. Rassegna dei Greci e catalogo
delle navi. Iride scende nel come sio de'Trojani ad annunciare l'avvuinarsi degli inimici. Et-
tore per consiglio della Dea mette le sue schiere in ordinanza Ro-i'SCgna de* Trejani e de'loru
atiitlian.
Tutti ancora dormi'an per 1’ alta notte
I guerrieri e gli Dcij ma il dolce sonno
Già le pupille abbandonato avea
Di Giove, che pensoso in suo segreto
Divisando venia come d’Achille,
Con molta strage delle vite argive,
Illustrar la vendetta. Alla divina
Mente alfin parve lo miglior consiglio
Inviar all’Atride Agamennone
II malefico Sogno. A sè lo chiama,
E con presto parlar : Scendi , gli dice :
Scendi, Sogno fallace, alle veloci
Prore de’ Greci 5 c, nella tenda cnti-ato
D’Agamennón, quant’ io t’impongo esponi
Esatto ambasciato!-. Digli, che tutte
In armi ei ponga degli Achei le sfjuailic;
Che dell' iliaco muro oggi è decreta
Su nel ciel la caduta; che discordi
Degli eterni d’ Olimpo abitatori
PIÙ non sono le menti: che di Giuno
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ai-6o
ILIADE, LIBRO II ^{3
Cessero tutti al supplicar^ clic, in somma,'
L’estremo giorno de'Trojani è giunto.
Disse ^ ed il Sogno, il divin cenno udito,
Avv'iossi , e calossi in un baleno
Su l’ argoliche navi. Entra d’Atridc
Nel queto padiglione, e immerso il trova
Nella dolcezza di nettareo sonno.
Di Nestore Nelide il volto assume.
Di Nestore, cui sovra ogni altro duce
Agamenndne riveriva; e in queste
Forme sul capo del gran re sospesa ,
Così la diva vis'ion gli disse:
Tu dormi, o figlio del guerriero Atréo ?
Tutta dormir la notte ad uom sconvieiisi
Di supremo consiglio, a cui son tante
Genti commesse e tante cure. Attento
Dunque m’ ascolta. A te vengh’ io celeste
Nunzio di Giove , che lontano ancora
Su te veglia pietoso. Egli precetto
Ti fa di porre tutti quanti in arme
Prontamente gli Achei. Tempo è venuto,
Che l’ampia Troja in tua man cada; i numi
Scesero tutti, intercedente Giulio,
In un solo volere , e alla trojana
Gente sovrasta l’ infortunio estremo
Preparato da Giove. Or tu ben figgi
Questo avviso nell’ alma; c fa , che seco
Non lo si porti, col partirsi, il sonno.
Sparve, ciò detto; e delle udite cose,
Di che contrario uscir dovea 1’ effetto ,
Pensoso lo lasciò. Prender di Troja
Quel dì stesso le mura egli sperossi;
Nè di Giove sapea, stolto! i disegni.
Nè qual aspro pugnar, nè quanta il Dio
Di lagrime cagione e di sospiri
Ai Trojani e agli Achivi apparecchiava.
Si riscuote dal sonno, e la divina
Voce d’ intorno gli susurra ancora.
Sorge; e del letto sulla sponda assiso,
Una molle s’ avvolge alla persona
Mosti. Iliade. 5
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34
ILUDE
f. 6i-ioo
Tunica intatta, immacolata^ gittasi
Il regai manto indosso^ il piè costringe
Ne’ bei calzari; il brando, aspro c lucente
D’argentee borchie, all’ òmero sospende;
L’ inviolato avito scettro impugna ,
Cd alle navi degli Achei cammina.
Già sul balzo d’ Olimpo alta ascendea
Di Titon la consorte, annunziatrice
Dell’ alma luce a Giove e agli altri Eterni ;
Quando con chiara voce i banditori
Per comando d’Alride a parlamento
Convocaro gli Achei, che frettolosi
Accorsero e frequenti. Ma raccolse
De’ magnanimi duci Agamennone
Prima il senato alla nestorea nave ;
C raccolti che furo , in questi accenti
Il suo prudente consultar propose:
M’udite, amici. Nella queta notte
Una divina vision m’apparve,
Che te, Nestore padre, alla statura.
Agli atti, al volto somigliava In tutto.
Sul mio capo librossi , e cosi disse :
Figlio d'Atreo, tu dormi? A sommo duce.
Cui di tanti guerrieri e tante cure
Commesso è il pondo, non s’addice il sonno.
M’ odi adunque : mandato a te son io
Da Giove, che dal ciel di te pensiero
Prende e pictade. Ei tutte ti comanda
Armar le truppe de’ chiomati Achei ;
Chè di Troja il conquisto oggi è maturo;
Poiché di Giuno il supplicar compose
La discordia de’ numi, e grave ai Teucri
Danno sovrasta per voler di Giove.
Tu di Giove il comando in cor riponi.
Sparve, ciò detto ; e quel mio dolce sonno
M’ abbandonò. La guisa or noi di porre
Gli Achivi In arme esaminiam. Ma pria
Giovi con finto favellar tentarne ,
Fin dove lice, i sentimenti. Io dunque
Comanderò , che su le navi ognuno
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LIBRO 11
35
. lOY-
Si disponga alla fugai e, sparsi ad arie,
Voi l' impedite con opposti accenti.
Cosi detto, s' assise. In piè rizzossi
Dell’ arenosa Pilo il regnatore
Mestoli; e, saggio ragionando, disse:
O amici, o degli Achei principi c duci,
S’ altro qualunque Àrgivo un colai sogno
Detto n’avesse, un menzogner l’avremmo,
E spregeremmo j ma lo vide il sommo
Capo del campo. À risvegliar si corra
Dunque 1’ acheo valore. — E, sì dicendo.
Usciva il vecchio dal consiglio ^ c tulli
Surti in piò lo seguian gli altri scettrati ,
Del re supi^mo ossequiosi. Intanto
11 popolo accorrea. Quale dai fori
Di cava pietra numeroso sbuca
Lo sciame delle pecchie, e succedendo
Sempre alle prime le seconde , volano
Sui fior di aprile a gara , c vi fan grappolo
Altre di qua affollate, altre di là^
Così fuor delle navi e delle tende
Correan per 1’ ampio lido a parlamento
Affollate le turbe , e le spronava
L’ignea Fama, di Giove ambasciatrice.
Si congregare alfin. Tumultuoso
Brulicava il consesso ^ ed al sedersi
Di tante genti, il suol gemea di sotto.
Ben nove araldi d’ acchetar fean prova
Quell’ immenso frastuono , alto gridando :
Date fine ai clamori , udite i regi ^
Udite, Achivi, del gran Dio gli alunni.
Sostarsi alfine ^ ne’ suoi seggi ognuno
Si compose, e cessò 1’ alto fragore.
Allor rizzossi Agamennòn, stringendo
Lo scettro, esimia di Vulcan fatica.
Diè pria Vulcano quello scettro a Giove ,
E Giove all’ uccisor d’Argo Mercurio \
Questi a Pelopc auriga ^ esso ad Atreo ^
Atreo, morendo, al possessor di pingui
Greggi , Ticste j e da Ticste alfine
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36
ILIADE
I*. i4i*iSo
Nella destra passò d'Agameiinòne,
Che poi sovr'Argo lo distese, e sopra
Isole molte. A questo il grande Atridr
Appoggiato, si disse: Amici eroi,
Danai, di Marte bellicosi Ggli,
In una dura e perigliosa impresa
Giove m’avvolse, Iddio crudel, che prima
Mi promise e giurò delle superbe
Iliache mora la conquista, e in Argo
Glorioso il ritorno. Or mi delude
Indegnamente, c dopo tante in guerra
Vite perdute , di tornar m’ impone
Inonorato alle paterne rive.
Del prepotente Iddio questo è il talento.
Di lui, che nell' immensa sua possanza
Già di molte città 1’ eccelse ròcche
Distrusse, c molte struggeranne ancora.
Ma qual onta per noi appo i futuri.
Che contra minor oste un tale e tanto
Esercito di forti una sì lunga
Guerra gueireggi , e non la compia ancora ì
Certo se tutti convocati insieme '
Salda pace a giurar Teucri ed Achivi ,
E di questi e di quei levato il conto.
Ad ogni dieci Achivi un Teucro solo
Mescer dovesse di lieo la spuma.
Molte decurie si vedrian chiedenti
Con labbro asciutto il mescitor: cotanto
Maggior de’ teucri cittadini estimo
H numero de’ nostri. Ma li molti
Da diverse città raccolti c scesi
In lor sussidio bellicosi amici
Duro intoppo mi fanno, c a mio dispetto
Mi vietano espugnar d’ilio le mura.
Già del gran Giove il nono anno si volge
Da che giungemmo , e già marciti i fianchi
Son delle navi , e logore le sarte ^
E le nostre consorti e i cari figli
Desiando ne stanno c richiamando
Nelle vedove case. E noi l’ impresa.
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•*. i8i-230 libro II 3^
Che a queste sponde ne condusse, ancora
Consumar non sapemmo. Ài vento adunque,
Diamo al vento le vele, io vel consiglio;
Alla dolce fuggiam terra natia
Di concorde voler; cliè disperata
Delle mura ti'ojané è la conquista.
Mosse quel dire delle turbe i petti;
E fremca l'adunanza a quella guisa
Che dell' icario mare i vasti flutti
Si confondono allor che Noto ed Euro,
Della nube di Giove il fianco aprendo,
A sollevar li vanno impetuosi.
E come quando di Favonio il soffio
Denso campo di biade urta, e, passando,
11 capo inchina delle bionde spiche ;
Tal si commosse il parlamento, e tutti
Alle navi correan precipitosi
Con fremito guerrier. Sotto i lor piedi
S' alza la polve , e al ciel si volve oscura.
1 navigli allestir, lanciarli in mare,
Espurgarne le fosse, ed i puntelli
Sottrarre alle carene, era di tutti
La faccenda e la gara. Ài-de ogni petto
Del sacro amore delle patrie mura,
E tutto di clamori il cielo eccheggia.
E degli Achei quel di sana seguito.
Contro il voler de'fati, il dipartire,
Se con questo parlar non si volgea
Giuno a Minerva: O dell' Egioco Padre
Invincibile figlia, cosi dunque,
Q mar coprendo di fuggenti vele.
Al patrio lido rediran gli Àchivi ?
Ed a Priamo 1' onore, ai Teucri il vanto
Lasceran tutto dell' argiva Eléna
Dopo tante per lei, lungi dal caro
Nido natio, qui spente anime greche 1
Deh! scendi al campo acheo; scendi ed adopra
Lusinghiero parlar; moki i soldati ;
Frena la fuga; nè patir, che un solo
De’ remiganti pini in mar sia tratto.
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ILIADE
Obbediente la cerulea Diva
Dalle cime d’ Olimpo dispiccossi
Velocissima; e tosto fu sul lido.
Ivi Ulisse trovò, senno di Giove,
Occupato non già del suo naviglio.
Ma del dolor che il preme, c immoto in piedi.
Gli si fece davanti la divina
Glaucopide, dicendo: O di Laerte
Generoso figliuol, prudente Ulisse,
Gosì dunque n' andrete ? E al patrio suolo
Navigherete, e lasccrctc a Priamo
Di vostra fuga il vanto, ed ai Trojaiii
D’Argo la donna, e invendicato' il sangue
Di tanti, che per lei qui lo versare.
Bellicosi compagni ? A che ti stai ?
T” appresenta agli Achei; rompi gl’indugi;
Dolci adopra parole , e li trattieni ;
Nè consentir, che antenna in mar si spinga.
Cosi disse la Dea. Ne riconobbe
L’ eroe la voce ; e , via gittate il manto ,
Che dopo lui raccobe il banditore
Euribate itacense, a correr diessi;
E , incontrato l’Atride Agamennone ,
Ratto ne prende il regai scettro, e vola
Con questo in pugno tra le navi achee;
E quanti ei trova, o duci o re, li ferma
Con parlar lusinghiero, e: Che fai, dice,
Valoroso campione ? A te de’ vili
Disconvicn la paura. Or via, ti resta.
Pregoti, e gli altri fa restar. La mente
Ben palese non t’è d’Agamcnnonc :
Egli tenta gli Achei, pronto a punirli.
Non tutti han chiaro ciò, che dianzi in chiuso
Consesso ei disse. Deh ! badiam , che irato
Non ne percuota d’improvvisa offesa.
Di re supremo acerba è 1’ ira; c Giove,
Che al trono 1’ educò, l’onora ed ama.
S’ uom poi vedea del vulgo , e In cogliea
Vociferante, collo scettro il dosso
Battcagli, e: Taci, gli garria severo;
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LIBRO II
^9
, 36i*3oo
Taci tu, tristo^ e i più prestanti ascolta,
Tu, codardo, tu, imbelle, e nei consigli
Nullo e ^ell' armi. La vogliam noi forse
Far qui tutti da re? Pano fu sempre
De' molti il regno. Un sol comandi^ e quegli,
Cui scettro e leggi affida il Dio, quei solo
Ne sia di tutti correttor supremo.
Cosi l’impero adoperando Ulisse,
Frena le turbe ^ c queste a parlamento
Dalle navi di nuovo e dalle tende
Con fragore accorrean, pari a marina
Onda che mugge e sferza il lido, ed allo
Ne rimbomba 1’ Egèo. Queto s’ asside
Ciascheduno al suo posto ^ il sol Tersile
Di gracchiar non si resta, e fa tumulto,
Parlator petulante. Avea costui
Di scurrili indigeste dicerie
Pieno il cerébro , e fuor di tempo , e senza
O ritegno o pudor le vomitava
Contro i re tutti ^ e quanto a destar riso
Infra gli Achivi gli venia sul labbro,
Tanto il protervo beffalor dieea.
Non venne a Troja di costui più brutto
Ceffo', era guercio e zoppo, e di contratta
Gran gobba al petto ^ aguzzo il capo, e sparso
Di raro pelo. Capital nemico
Del Pelide e d’ Ulisse , ei li solea
Morder rabbioso^ e, schiamazzando allora.
Colla stridula voce lacerava
Anche il duce supremo Agamennònc
SI, che tutti di sdegno e di corruccio
Fremcan; ma il tristo ognor più forti alzava
Le rampogne , e gridava : E di che dunque
Ti lagni, Atride ? che ti manca? Hai pieni
Di bronzo i padiglioni e di donzelle.
Delle vinte città spoglie prescelte,
E da noi date a te primiero. O forse
Pur d'anro hai fame, e qualche Teucro aspetti,
Che d’ilio uscito lo ti rechi al piede.
Prezzo del figlia da me preso in guerra.
ILIADK
**. 1*340
Da ine mcdcsmo, o da qiialch' altro Aclieo?
O cerchi schiava giovinetta, a cui
Mescolarti in amore alla spartita ?
Eh via ! chè a sommo imperador non lice
Scandalo farsi de’ minori. Oh vili,
Oh infami, oh Acliive , non Achei ! Facciamo
Vela una volta ^ e qui costui si lasci.
Qui lui solo a smaltir la sua ricchezza,
Onde a prova conosca se 1’ aita
Gli è buona o no delle nostr’armi. E dianzi
Noi vedemmo pur noi questo superbo
Ad Achille, a un guerricr, che .si l’avanza
Di fortezza, far onta? E dell' offeso
Non si ticn egli la rapita schiava ?
Ma se d’Achille il cor di generosa
Bile avvampasse, e un indolente vile
Non si fosse egli pur, questo saria
Stato 1’ estremo de’ tuoi torti , Atride.
Cosi contra il supremo Agamennone
Impazzava Tersite. Gli fu sopra
Repente il figlio di Lacrte^ e, torvo
Guatandolo, gi'idò: Fine alle tue
Faconde ingiurie, ciarlator Tersite^
E tu sendo il peggior di quanti a Troja
Con gli Atridi passar, tu audace e solo
Non dar di cozzo ai re, nè rimcnarli
Su quella lingua con villane aringhe ,
Nè del ritorno t’impacciar^ chè il fine
Di queste cose al nostro sguardo è oscuro ,
Nè sappiam se felice o sventurato
Questo ritorno riuscir ne debba.
Ma di tue contumelie al sommo Atride
So ben io lo perchè : donato il vedi
Di molti doni dagli achivi croi ^
Per ciò ti sbracci a maledirlo. Or io
Cosa dirotti, che vedrai compiuta:
Se com’ oggi insanir più ti ritrovo.
Caschimi il capo dalle spalle, c detto
Di Telemaco il padre io più non sia,
Mai più, se non t’ afferro , c delle vesti
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LIBRO II
4>
IN
Tutto nudo, da questo almo consesso
Non ti caccio malconcio c piangoloso.
Si dicendo , le terga gli percuote
Con lo scettro e le spalle. Si. contorce
E làgrima dirotto il manigoldo
Dell’ aureo scettro al tempestar, che tutta
Gli fa la schiena rubiconda ^ ond’ egli
Di dolor -macerato e di paura
S’ assise , e ohhliquo riguardando intorno ,
Col dosso della man si terse il pianto.
Rallegrò quella vista i mesti Àchivi,
E surse in mezzo alla tristezza il riso ^
E fu chi vólto al suo vicin dicea:
Molte In vero d’ Ulisse opre vedemmo
Eccellenti e di guerra e di consiglio^
Ma questa volta fra gli Achei, per dio!
Fe la più bella delle belle imprese.
Frenando 1’ abbajar di questo cane
Dileggiator. Che si , che all’ arrogante
Passò la frega di dar morso ai regi ?
Mentre questo dicean, levossi in piedi,
E collo scettro di parlar fe cenno
L’ espugnatore di cittadi , Ulisse.
In sembianza d’ araldo accanto a lui
La fiera Diva dalle luci azzurre
Silenzio a tutti impose^ onde gli estremi,
Del par che i primi, udirne le parole
Potessero, ed in cor pesame il senno.
Allora il saggio diè principio : Atride,
Questi Achivi di te Tonno far oggi
Il più infamato de’ mortali. Han posto
Le promesse in obblio fatte al partirsi
D’Argo alla volta d’ Il'ion , giurando
Di non tornarsi, che Il'ion caduto.
Guardali : a guisa di fanciulli , a guisa
Di vedovelle sospirar li senti,
E a vicenda plorar per lo desio
Di riveder le patrie mura. E in vero
Tal qui si paté traversia, che scusa
Il desiderio de’ paterni tetti.
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ILIADE
¥. 38i*420
Se a navigante da vernai procella
Impedito e sbattuto iq mar che freme,
Pur di un mese è crudel la lontananza
Dalla consorte, che pensar di noi,
Che già vedemmo del nono anno il giro
Su questo lido ? Compatir m’ è forza
Dunque agli Àchivi, se a mal cor qui stanno.
Ma dopo tanta dimoranza, è turpe
Vóti di gloria ritornar. Deh ! voi ,
Deh ! ancor per poco tollerate, amici ^
Tanto indugiate almen, che si conosca
Se vero o falso profetò Calcante.
In cuor riposte ne tcniam noi tutti
Le divine parole: e voi nc foste
Testimoni, voi, sì, quanti la Parca
Non aveste crudel. Parmi ancor jeri, ‘
Quando le navi achee, di lutto a Troja
Apportatrici, in Àulide raccolte.
Noi ci stavamo in cerchio ad una fonte,
Sagrificando sui devoti altari
Vittime elette ai Sempiterni , all’ ombra
D’un platano, al cui piè nascea di pure
Linfe il zampillo. Un gran prodigio apparve
Subitamente : un drago di sanguigne
Macchie spruzzato le cerulee terga.
Orribile a vedersi, c dallo stesso
Re d’ Olimpo spedito , ecco repente
Sbucar dall’ imo altare , e tortuoso
Ài platano avvinghiarsi. Avean lor nido
III cima a quello i nati tencrelli
Di passera feconda, latitanti
Sotto le foglie : otto eran dii, e nona
La madre. Colassù 1’ angue salito ,
Gl’implumi divorò, miseramente
Pigolanti. Plorava i dolci figli
La madre intanto, e svolazzava intorno
Pietosamente^ finché, ratto il serpe
Vibrandosi,' afferrò la meschinclla
All’ estremo dell’ ala , e lei , che 1’ aure ,
Empiea di stridi, nella strozza ascose.
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LIBRO tl
43
(•.' 4si-46o
Divorata co’ figli anco la madre ,
Del vorator fe il Dio, che lo mandava,
Nuovo prodigio ^ e lo converse in sasso.
Stupidi e muti ne laseiò del latto
La merajriglia^ e a noi, che dell’orrendo
Portento fra gH altari intervenuto
Incerti ci stavamo e paventosi.
Calcante profetò : Chiomati Àchivi,
Perchè muti cosi ? Giove ne manda
Nel veduto prodigio un tardo segno
Di tardo evento , ma d’ eterno onore.
Nove augelli ingojò 1’ angue divino ,
Nov’ anni a 'Troja ingojerà la guerra ,
E la città nel decimo cadrà.
’ Cosi disse il profeta; ed ecco ornai
Tutto adempirsi il vaticinio. Or dunque
Perseverate, generosi Achei ^
Restatevi di Troja al giorno estremo.
Levossi a questo dire un alto grido,
A cui le navi con orribil eco
Rispondean, grido lodator del saggio
Parlamento d’ Ulisse. Ed incalzando
Quei detti il vecchio cavalier Nestorre:
Oh vergogna! dicea; sul vostro labbro
Parole intesi di fanciulli, a cui
Nulla cal della guerra. Ove n’andranno
I giuramenti, le promesse e i tanti
Consigli de’ più saggi e i tanti affanni ,
Le libagioni degli Dei, la fede
Delle congiunte destra? Dissipati
N* andran col fumo dell’ altare ? Achei,
Noi contendiamo di parole indarno,
E in vane induge il tempo si consuma,
Che dar si debbe a salutar riparo.
Ticn fermo, Atride, il tuo coraggio, e fermo
Su gli Achei nelle pugne alza lo scettro ^
Ed in proposte, che d’ effetto vote
Cadran mai sempre, marcir lascia i pochi,
Che in disparte consultano , se in Argo
Redir si debba, pria che falsa o vera
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44 ILIADE k. ^6i-5do
Si conosca di Giove la promessa.
10 ti fo certo, che il saturnio figlio.
11 giorno che di Troja alla mina
Sciolser gli Achivi le veloci antenne ,
Non dubbio cenno di favor ne fece,
Balenando a diritta. Alcun non sia
Dunque che parli del tornarsi in Argo.
Se prima in braccio di trojana sposa
Non vendica d' Elcna il ratto e i pianti.
Se taluno pur v'ha, che voglia a forza
Di qua partirsi, di toccar si provi
Il suo naviglio, e troverà primiero
La meritata morte. Tu frattanto
Pria ti consiglia con te stesso, o sire;
Indi cogli altri , nè sprezzar 1' avviso ,
Ch’ io ti porgo. Dividi i tuoi guerrieri
Per curie e per tribù sì , che a vicenda
Si porga aita una tribù con l'altra,
L' una con 1' altra curia. A questa guisa,
Obbedendo gli Achei , ti fia palese
De' capitani a un tempo e de' soldati
Qual siasi il prode e quale il vii ; chè ognuno
Con emula virtù pel suo fratello
Combatterà. Conoscerai pur anco.
Se nume avverso, o codardia de' tuoi,
O poca d’armi maestria ti tolga
Delle dardanic mura la conquista.
Saggio vegliardo , gli rispose Atride ,
In tutti della guerra i parlamenti
Nanzi a tutti tu vai. Piacesse a Giove,
A Minerva piacesse e al santo Apollo,
Gh’ altri dieci io m' avessi infra gli Achei
A te pari in consiglio^ ed atterrata
Cadrìa ben tosto la città trojana.
Ma me r Egioco Giove in alti affanni
Sommerse, e incauto mi sospinse in vane
Gare e contese. Di parole avemmo
Gran lite Achille ed io d’ una fanciulla^
Ed io fui primo all’ ira. Ma se fia ,
Che in amistà si torni, un sol momento
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LIBRO il
45
5oi«54o
Non tarderà di Trojà il danno estremo.
Or via, di cibo a ristorar le forze
Itene tutti per la pugna. Ognuno
L’ asta raffili ; ognun lo scudo assetti ;
Di copioso alimento ognun govèrni
I corridor veloci, e diligente
Visiti il cocchio, e mediti il conflitto;
Onde quésto sia giorno di battaglia
Tutto e di sangue, e senza posa alcuna,
Finché la notte non estingua l'ire
De' combattenti. Di guerrier sudore
Bagnerassi la soga dello scudo
Sui caldi petti, verrà manco il puguo
Sovra il calce dell'asta, e destrier molti
Trarranno il cocchio con infranta lena.
Qualunque io poscia scorgerò, che lungi
Dalla pugna si resti appo le navi
Neghittoso, non ila chi salvo il mandi
Dalla fame de’ cani e degli augelli.
Cosi disse; e., al finir di sue parole,
Mandar gli Àchivi un altissimo grido.
Somigliante al muggir d' onda spezzata
All' alto lido, ove il soffiar la caccia
Di furioso Noto incontro ai fianchi
Di prominente scoglio, flagellato
Da tutti i venti e da perpetue spume.
Si levàr frettolosi, si dispersero
Per le navi, destar per tutto il lido
Globi di fumo, ed imbandir le mense.
Chi a questo dio sacrifica, chi a quello;
Al suo ciascun si raccomanda, e il prega
Di camparlo da morte nella pugna.
Ma il re de’ prodi Agamennone un pingue
Toro quinquenne al più possente nume
Sagrifica, e convita i più prestanti:
Nestore primamente e Idomenéo ;
Quindi entrambi gli Ajaci, e di Tidéo
L’inclito figlio, e sesto il divo Ulisse.
Spontaneo venne Menelao , cui noto
Era il travaglio del fratello. E questi
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46
ILIADE
%'. 5)i*58o
Fér di sè stessi una corona intorno
Alla vittima^ e, preso il salso farro,
Nel mezzo Agamenndne, orando, disse:
Glorioso de' nembi adunatore.
Massimo Giove, abitator dell’etra.
Pria che il sole tramonti e l’aria imbruni.
Fa, che fumanti al suol di Priamo io getti
Gli alti palagi , e d’ ostil fiamma avvampi
Le regie porta ^ fa, che la mia lancia
Squarci l’ usbergo dell’ ettoreo petto ,
E che d’intorno a lui molti suoi fidi
Boccon distesi mordano la polve.
Disse ^ ed il nume l’olocausto accolse.
Ma non il voto: e a lui più lutto ancora
Preparando venia. Finito il prego,
E sparso il farro, ed incurvato all’ara
Della vittima il collo , la scaunaro ,
La discuo)aro, ne squartar le cospe.
Le rivestir di doppio zirbo, e sopra
Poservi i crudi brani. Indi, la fiamma
D’aride schegge alimentando, a quella
Cocean gli entragni nello spiedo infissi.
Adusti i fianchi, e (atto delle sacre
Viscere il saggio, lo restante in pezzi
Negli schidon confissero, ed acconcia —
— mente arrostito nc levaro il tutto.
Finita l’opra, apparecchiàr le mense,
E a suo talento vivandò ciascuno.
Di cibo sazi c di bevanda, prese
A così dire il cavalier Nestorre:
Re delle genti, glorioso Atride
Agamennòn, si tolga ogni dimora
All’ impresa , che in pugno il Dio ne pone.
Degli araldi la voce alla rassegna
Chiami sul lido i loricati Achei,
E noi scorriamo le raccolte squadre ,
E di Marte destiam 1’ ira e il desio.
Assentì pronto il sire^ ed al suo cenno
L’ acuto grido degli araldi diede
Della pugna agli Achivi il fiero invito.
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/>8i*630
LIBRO 11
Corsero quelli frettolosi ^ e i regi
Di Giove alunni, ohe segnian FAtride,
Li ponean ratti in ordinanza. Errava
Minerva in mezzo, e le splendea sul petto
Incorrotta, immortai la preziosa
Egida, da cui cento eran sospese
Frange, conteste di finissim'oro;
E valea cento tauri ogni gherone.
In quest' arme la Diva folgorando ,
Concitava gli Achivi, ed accendea
L' ardir ne' petti , e li facea gagliardi
A pugnar fieramente e senza posa.
* Allor la guerra si fe dolce al core
Più che il volger le vele al patrio nido.
Siccome quando la vorace vampa
Sulla montagna una gran selva incende,
Sorge splendor, che lungi si propaga^
Cosi al marciar delle falangi achive
Mandan l'armi un chiaror, che tutto intorno
Di tremuli baleni il cielo infiamma.
E qual d’ oche o di gru volanti eserciti ,
Ovver di cigni, che, snodati il tenue
Collo, van d'Asio ne' bei verdi a pascere
Lungo il Caistro, e vagolando esultano
Su le larghe ale , e nel calar s' incalzano
Con tale un rombo, che ne suona il prato^
Cosi le genti achee da navi e tende
Si diifondono in frotte alla pianura
Del divino Scamandro, e il suol rimbomba
Sotto il piè de' guerrieri e de' cavalli
Terribilmente. Nelle verdi lande
Del fiume s' arrestar gremiti e spessi
Come le foglie e i fior di primavera.
Conti lo sciame dell’ impronte mosche ,
Che ronzano in aprii nella capanna.
Quando di latte sgorgano le secchie ,
Chi contar degli Achei desia le torme.
Anelanti de' Teucri alla rovina.
Ma quale è de' caprai la maestria
Nel divider le greggie, allor che il pasco
48
ILIADE
V. 631*660
Le confonde e le mesce ^ a questa guisa
In ordinate squadre i capitani
Schieravano gli Àchivi alla battaglia.
Agamennón , qual tauro , era nel mezzo ,
Che nobile e sovrana alza la fronte
Sovra tutto l’armento e lo conduce^
E tal fra tanti eroi Giove gl’ infonde
E garbo e maestà, che Marte al cinto,
Nettuno al petto, e il Folgorante istesso
Negli Sguardi somiglia e nella testa.
Muse, dell’ alto Olimpo abitatrici ,
Or voi ne dite (chè voi tutte, o Dive,
Riguardate le cose c le sapete:
A noi nessuna è conta, c ne susurra
Di fuggitiva fama un’aura appena);
Dite voi degli Achivi i condottieri.
Della turba infinita io nè parole
Farò, nè nome; chè bastanti a questo
Non dieci lingue mi sarian, nè dicci
Bocche, nè voce pur di feireo petto.
Di tutta 1’ oste ad Ilio navigata
Divisar la memoria altri non puotc ,
Che 1’ alme figlie dell’ Egioco Giove.
Sol dunque i duci, e sol le navi io canlo-
Erano de' Beozi i capitani
Arcesilao , Leito e Peneléo
E Protenore e Glonio , c traean seco
D’Iria i coloni e d’ Aulide petrosa ,
Con quei di Scheno e Scolo, c quei dell’erta
Eteono e di Tespia , e quei, clic manda
La spaziosa Micalesso e Crea;
E quei, che d’Anna la contrada cdiica,
Ed llesio ed Erìtre ed Eleone
E Peteone ed Ha ed Ocaléa.
Seguono i prodi della ben costrutta
Medeone e di Cope, c gli abitanti
D’ Eutresi e Tisbe di colombe altrice.
Di Coronéa vien dopo c dell’ erbosa
Aliarto e di Glissa c di Platèa
E d’ipotcbc dalle salde mura
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LIBRO II
11)
r. 60*1-700
Una gran torma. Ed altri abbandoiiaro
Le sacrate a Nettuno inclite selve
D’Onchesto, c d’Arue i pampinosi colli;
Altri il pian di Midéa^ altri di Nisa
Gli almi boschetti , e gli ultimi confini
D’ Antédonc. Di questi eran cinquanta
Le navi; e ognuna cento prodi e venti,
Fior di bcozia gioventù, portava.
Dell’ Orcoméno Miniéo gli eletti,
Misti a quei d’Aspledóne, hanno a lor duci
Ascalafo e lalmcno , ambo di Marte
Egregia prole. Ne’ secreti alberghi
D’Attore Aride partorilli Astiochc .
Vereconda fanciulla, alle superne
Stanze salita, e al forte iddio commista
In amplesso furtivo. Eran di questi
Trenta le navi, che schierarsi al lido.
Regge la squadra de’ Forensi il cenno
Di Schedio e d’Epistrófo, incliti figli
Del generoso Naubolide Ifito.
Invia questi gucrrier la discoscesa
Balza di Pito, e Ciparisso c Crissa,
Gentil paese , e Daulide e Panopc.
D’Anemoria e di Jampoli van seco
Gli abitatori, e quei, che del Cefiso
Bcon Tonde sacre, e quei, che di Lilt'a
Domano i gioghi alle cefisic fonti.
Son quaranta le prore al mar fidate
Da questi prodi , e tutte in ordinanza
De’Beozi disposte al manco lato.
Di Locride guidava i valorosi
Ajace d’ O'iléo, veloce al corso.
Di tutta la persona egli è minore
Del Telamonio, nè minor di poco;
Ma picciolo quantunque, e non coperto
Che di lino torace, ei tutti avanza
E Greci e Aehivi nel vibrar dell’asta.
Di Gino, di Calliaro e d'Opunte
Lo seguono i deletti, c quei di Bessa ,
E quei , che i colti dell’ amena Augci’
Mosti. Iliade. ;
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(»
ILIADE
•’ 70i-7'|0
K di Scarfe lasciar, misti di Tai-fa
Ai duri agresti, e quei di Tronio, a cui
11 Boagrio turrente i campi allaga.
Venti c venti il seguian preste carene
Della locrese gioventù venuta
Di là dai fini della sacra Eubea.
Ma gl' incoli d’Eubéa, gli arditi Abanti ,
Eretricnsi, Calcidcnsi, e quelli
Dell’aprica vitifera Istiea,
E di Ccrinto in una i marinari.
E i montanari dell’ alpestre Dio,
E quei di Stira e di Caristo han duce
11 bellicoso Elefenór , figliuolo
Di C.ilcodontc, e sir de’ prodi Abanti.
Snellissimi di pii portan costoro
Fiocchi di chiome su la nuca, egregi
Combattitori , a maraviglia sperti
Nell’ abbassar la lancia, e sul nemico
Petto smagliati fraca.ssar gli usberghi:
E quaranta di questi eran le vele.
Della splendida 'Atene ceco gli eroi,
Popolo del magnanimo Erettco
Cui l’alma tciTa partorì. Nudrillo,
Ed in Atene il collocò Minerva
Alla sant’ombra de’ suoi pingui altari,
Ove 1’ attica gente a statuito .
Giro di soli con agnelli e tauri
Placa la Diva. Guidator di questi
Era il Putide Mencstéo. Non vede
Pari il mondo a costui nella scienza
Di squadronar cavalli e fanti. 11 solo
Nestor l’eguaglia, perchè d’anni il vince.
Cinquanta navi ha seco. Unirsi a queste
Sei altre e sei di Salamina uscite,
Al Telamonio Ajace obbedienti.
Seguia l’eletta de’guerrier, cui d’Argo
Mandava la pianura e la superba
D’ardue mura Tirinlo e le di cupo
Golfo custodi ErnVionc ed Asine.
Con essi di Trezene c della lieta
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LIBRO II
7'ti-7lk)
Di pampini Epidauro c d’Eionc
Venia la squadra^ e dopo questa un Gero
Di giovani drappello , ebe d’ Egina
Laseiò gli seogli e di Masete. A questi
Tre sono i duei, il marzio D'iomede,
Sténelo, dell’altero Capando
Diletta prole, e il somigliante a nume
Eurialo, Ggliuol di Mecistéo
Talaionide. Ma del eorpo tutto
Condottiero supremo è D'iomede:
E sono ottanta di eostor. le antenne.
Ma ben cento son quelle, a cui comanda
U regnatore Agamennone Atridc.
Sua seguace è la gente, che gl’ invia
La regale Micene c l’ opulenta
Corinto, c quella della ben costrutta
Cleono, c quella, che d’Ornce discende
E dall’ amena Arctiréa. Nè scarsa
Fu de’ suoi Sic'ion, seggio primiero
D’ Adrasto. Anco Ipcresia, anco l’eccelsa
Gonoessa e Pelleiic ed Egio c tutte
Le marittime prode, e tutta intorno
D’ Elice la campagna impoverirsi
D’ abitatori. E questa truppa è Core
Di gagliardi, c la più di quante allora
Schierarsi in campo. D’arme rilucenti
Iva il duce vestito , ed esultava
In suo segreto del vedersi il primo •
Fra tanti eroi: c veramente egli era
Il maggior di quc’regi, c conduceva
Il maggior nerbo delle forze achive.
11 concavo di balze incoronato
Lacedemonio suol. Sparta e Brisèc,
E Fari e Messa, di colombe altricc,
E Augie , la lieta ^ e 1’ amiclèa contrada,
Etile ed Elo al mar giacente c Laa,
Queste tutte spedir sovra sessanta
Prore i lor Ggli : c Menelao li guida ,
.'Vitanle gucrricr. Disgiunta ei tiene
Dalla fraterna la sua schiera, c forte.
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ILUHE
I- 781-810
Del suo proprio valor, la sprona all armi.
Di vendicar su i Teurri impaziente
L’ onta e i sospir della rapita Eléna.
Di novanta navigli capitano
Veniva il veglio cavalicr Nestorre.
DI Pilo ci guida e dell’ aprica Arene
Gli abitanti, e di Trio, guado d’Alféo,
E della ben fondata Epi, con quelli,
A cui Ciparisscnte c Anfigeni'a
Sono stanza,. c Pteléo ed Elo c Dorio ,
Dorio, famosa per l’acerbo .scontro.
Che col tracio Tamiri ebber le Muse
11 giorno, che d’ Ecalia e dagli alberghi
Dell’ ccaliese Eurito ei fea ritorno.
Millantava costui, che vinte avria
Al paragon del canto anco le Muse ,
Le Muse, figlie dell’ Egioco Giove.
Adirate le dive, al burbanzoso
Tolser la luce e il dolce canto e 1’ arte
Delle corde dilette animatrice.
Scguia r arcade schiera dalle falde
Del Cillcne discesa e dai contorni
Del tumulo d’Epito, esperta gente
Nel ferir da vicino, liscia con essa
Di campestri garaoni una caterva ,
Che del Fenéo li paschi e il pecoroso
Orcomcno lasciar. V eran di Ripe
E di Strazia i coloni e di Tegéa,
E quei d’Enispe tempestosa, e quelli.
Cui dell’ amena Mantinéa nutrisce
L’opima gleba c la stiufalia valle
E la parrasia selva. Avean costoro
Spiegate al vento di cinquanta e dicci
Navi le vele , che a varcar le negre
Onde lor diè lo stesso rege Atride
Agamennone ^ perocché di studi
Marinareschi all’Arcade non cale.
D’ intrepidi nell’ arme e .spelli pelli
Iva cavea ciascuna: e le reggea
IVAncéo figliuolo, il rege Agapcnorre.
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8ai-8^ìo
LIBRO 11
53
La squadra, che consegue, e si divide
Quadripartita, ha quattro duci, e ognuno
À dicci navi accenna. Le montaro
Molti Kpei valorosi, e gli abitanti
Di Buprasio e del sacro eleo paese,
E di tutto il terren , che tra il confine
Di Mirsino ed Irmino si racchiude,
E tra l’Olcnia rupe e 1’ erto Alisio.
Di Cteato figliuol, l’illustre ÀnfTmaco,
Guida il primo squadron. Talpio il secondo,
Egregio seme dell’Eui'ito Attóride;
Diore il terzo, generosa prole
D’Amarincéo. Del quarto è correttore
Il simigliante a nume Polisseno,
Germe dell’ Augci'ade Agastene.
Ai forti di Dulichio e delle sacre
Echinadi isolette, che rimpctto
Alle contrade elee rompon 1’ opposto
Pelago, a questi è condottici- Megcte,
Di sembiante guerrier pari a Gradivo.
Il generò Filco, diletto a Giove,
Buon cavalier, che dai paterni un giorno
Odj sospinto , alla dulichia terra
Migrò fuggendo, e v’ ebbe impero. Il figlio
Quaranta prore ad Ih'on guidava.
Dei prodi Cefaleni , abitatori
D’ Itaca alpestre e di Nerito ombroso,
Di Croeiléa, di Sanio e di Zacinto
E dell’aspra Egelipe e dell’ opposto
Continente, di tutti è duce Ulisse,
Vero senno di Giove: e lo scguiéno
Dodici navi di vermiglio pintc.
Nc spinge in mar quaranta il capitano
Degli Etòli, Toante, a cui fu patire
Andremone^ e traea seco le torme
Di Pleiirone , d’Oleno e di Pilenc,
Quelle dell’aspra Calidone e quelle
Di Calcide. E raccolta era in Toante
Degli Etòli la somma signoria ,
Da che la Parca i figli ebbe percosso
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lUÀDE
i>. 86 1-4)00
Del magnanimo En^o, posto col biondo
Meleagro infelice ci pur sotterra.
11 gran mastro di lancia, Idomenéo,
Guida i Cretesi, che di Gnosso uscirò,
Di Litto, di Mileto e della forte
Gortina e della candida Licasto
E di Pesto e di Rizio, inclite tutte
Popolose contrade, ed altri molti
Deir alma Creta abitator, di Creta,
Che di cento città porta ghirlanda.
Di questi tutti Idomenéo divide
Col marzio Merion la gloriosa
Capitananza: e ottanta navi han seco.
Nove da Rodi ne varàr gli alteri
Rodiani per l’isola partiti
In triplice tribù: Lindo, Jaliso,
E il biancheggiante di tcrrcn Camiro.
L’ Eràclide Tlepdlcmo è lor duce,
Graude e robusto battaglier, che al forte
Ercole un giorno AstVochéa produsse.
Cui d’ Efira e dal fiume Scllcente
Seco addusse l’eroe, poiché disb-utto
V’ ebbe molte cittadi e molta insieme
Gioventù generosa. Entro i paterni
Fidi alberghi Tlcpólcmo cresciuto.
Di subitaneo colpo a morte mise
Licinnio, al padre avuncolo diletto,
E canuto guerrier. Ratto costrussc
Alquante navi l’uccisore; e, accolti
Molti compagni, si fuggì per Tonde,
L’ira vitando e il minacciar degli altri
Figli e nipoti dell’erculeo scrac.
Dopo crror molti e stenti, i fuggitivi
Toccar di Rodi il lido; e qui, divisi
Tutti in tre parti, posero la stanza:
E il gran re de’ mortali e degli Dei
Li dilesse, e su lor piovve la piena
/ D’ infinita mirabile ricchezza.
Niréo tre navi conducca da Siraa,
Niréo , d’Aglaja figlio c di Campo,
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UBRO II
55
Nirco, (li quanti iiavigaro a Truja,
11 più vago, il più l)fl, dopo il Pelidc
Beltà perfetta. Ma un imbelle egli era:
E turba lo seguia di pochi oscuri.
Quei , che tcnean Nisiro e Caso c Crnpato
E Coo, seggio d’ Euripilo , e le prode
Dell’ isole Calidne, il cenno regge
D’Antifo c di Fidippo, ambo bgliuoli
Di Tessalo Eraclide : e trenta navi
Aravano a costor 1’ onda marina.
Ditene adesso,' o Dive, i valorosi
D’Ale e d’Alope e del pelasgic’Argo
E di Trachine; nè di Ftìa, nè d’Éllade,
Di bellissime donne educatrice.
Gli eroi tacete, 'Mirmidon chiamati,
Ed Elleni ed Achei: sopra cinquanta
Prore a costoro è capitano Achille.
Ma di guerra in que’cor tace il pensiero;
Ch’ei più non hanno chi a pugnar li guidi.
Il divino Peli'de appo le navi
Neghittoso si giace , c della tolta
Brtseide l’ ira si smaltisce in petto,
Bella di belle chiome alma fanciulla.
Che. in Lirnessu ei s’ avea con molto affanno
Conquistata per mezzo alla ruina
Di Lirnesso e di Tebe, a morte spìnti
Del bellicoso Eveno ambo i figliuoli ,
Epistrofo e Minete. Per costei
Languia nell’ozio il mesto eroe; ma il giorno
Del suo destarsi all’ armi era vicino.
Quei, che Filàcc e la fiorita Pirraso,
Terra a Cerere sacra, e la feconda
Di molto gregge Itóne, e quei, che manda
La marittima Antrone e di Pteléo
L’erboso suol,reggea, mentre che visse,
Il marz'ial Protcsilao. Ma lui
La negi'a terra allor chiudea nel seno;
E la moglie i'n Filàce derelitta
Le belle gote lacerava, e tutta
Vedova del suo re piangea la casa.
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5(i
ILIADE
'■ 9Ìi-9*o
Primo ci balzossi dalle navi, e primo
Trafitto cadde dal dardanio ferro.
Ma senza duce non restò sua schiera^
Chè Podarce or la guida, esimio figlio
Del Filacide Ificlo, che di pingui
Lanose torme avea molta ricchezza.
Del magnanimo ucciso era Podarce
Minor germano; ma perchè quel grande
Non pur d'anni il vincea, ma di prodezza,
L’ egregio estinto duce era pur sempre
Di sua schiera il desio ; di questa squadra
Son quaranta le navi in ordinanza.
Gli ahitator di Fere, appo il bebeo
Stagno, e quelli di Bebé e di Glafira
E dell'alta Jaolco avean salpato
Con undici navigli. Eumelo è duce,
Germe caro d' Admeto, e la divina
Infra, le donne Alcesti il partono.
Delle figlie di Pelia la più bella.
Di Mctonc, Taumàcia c Melibca
E dell' aspra Olizonc era venuto
Con sette prore un ficr drappello, e carca
Di cinquanta gagliardi era ciascuna.
Sporti di remo c d' arco e di battaglia.
Famoso arciero li reggea da prima,
Filottetc ; ma questi egro d' acuti
Spasmi ora giace nella sacra Lenno,
Ove, da tetra di pestifer angue
Piaga offeso , gli Achei 1' abbandonaro.
Ma dell' afllitto eroe gl' ingrati Argivi
Ricorderansi , e in breve. Intanto il fido
Suo stuol si strugge del desio di lui;
Ma non va senza duce : lo governa
Mcdoii cui spurio figlio ad O'ilèo,
Eversor di città , Rena produsse.
Quc'poi, clic Tricca c la scoscesa Home
Ed Ecalia tcncan , seggio d’ Eurito,
llan capitani d' Esculajn'o i figli,
Della paterna medie' arte entrambi
Sporti assai, Podalirio t Macaone:
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LtBRO II
57
•• (>B|>1020
Fan trenta navi di costor la schiera.
Ormenio, Asterio c l’ iperée fontane,
E del Titano le candenti cime
I lor prodi mandar sotto il comando
Del chiaro figlio d’ Evemone, Euripilo,
Da quaranta carene accompagnato.
D’Argissa c di Girton, d’ Òrto c d’Elona
E della bianca Oloossona i figli
Procedono suggetti al fermo e forte
Polipete, figliuol di Piritóo,
Del sempiterno Giove inclito seme^
E generollo a Piritdo T illustre
Ippodamia quel di, che dei bimembri
Irti Centauri ei fe l’alta vendetta,
E li cacciò dal Pclio, e agli Eticesi
Li confinò. Nè solo è Polipete,
Ma seco è Lcontèo, marzio germoglio
Del Cenide magnanimo Corone:
E questa è squadra di quaranta antenne.
Venti da Cifo c due Gunéo né guida
D’ En'ieni onerose e di Perebi ,
Franchi soldati, e di color, che intorno
Alla fredda Dodona avean la stanza,
E di quelli , che solcano gli ameni
Campi cui l’onda titarcsia irriga.
Rivo gentil, clic nel Penéo devolve
Le sue bell’ acque, nè però le mesce
Con gli argenti penéi, ma vi galleggia
Come liquida oliva; ebe di Stige
( Giui-amento tremendo ) egli è ruscello.
Ultimo vicn di Tentredone il figlio,
II veloce Protóo, duce ai Magneti ,
Dal bel Penéo mandati c dal frondoso
Pelio: il seguian quaranta navi. E questi
Fur dell’ acbiva annata i capitani.
Dimmi or,- Musa, dii fosse il più valente
Di tanti duci e de’ cavalli insieme.
Che gli Atridi seguir. Prestanti assai
Eran le ferez'iadi puledre,
Ch’ Eumelo maneggiava, agili c ratte
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58
ILIADE
Come penna d'augello, ambe d’un pelo,
D' età pari e di dosso a dritto filo.
Il vibrator del curvo arco d’ argento ,
Febo, cducolle ne’ pierj prati,
C portavan di Marte la paura
Nelle battaglie. Degli eroi primiero
Era l’Ajace Tclamonio, mentre
Perseverò nell’ ira il grande Achille,
Il più forte di tutti; c innanzi a tutti
Ivan di pregio i corridor portanti
L’ incomparabil Tessalo. Ma questi
Nelle ricurve navi si giacca
Inoperoso, e sempre spirante ira
Contro l’Atride Agamennone. Intanto ,
Lunghesso il mare, al disco, all’asta, all' arco
1 suoi guerrieri si prcndean diletto.
Oziosi i cavalli appo i lor cocchi
Pasccano 1’ apio paludoso c il loto ;
E i cocchi si giacean coperti c muti
Nelle tende dei duci; e i duci istessi.
Del bellicoso eroe desiderosi,
Givan pel campo vagabondi c inerti.
Movean le schiere intanto, in vista eguali
A un mar di foco innondator, che tutta
Divorasse la terra; ed alla pesta
De’ trascoirenti piedi il suol s’udia
Rimbombar. Come quando il fulminante
Irato Giove Inarime flagella ,
Duro letto a Tiféo, siccome è gi'ido;
. Cosi de’ passi al suon gemea la terra.
Mentre il campo traversano veloci
Gli Achei, col piò che i venti adegua, ai Teucri
Iri discese di feral novella
• Apportatrice, c la spedia di Giove
Un comando. Tcnean questi consiglio
Giovani c vecchi, congregati tutti
Ne’ regali vestiboli. Mischiossi
Tra lor la Diva, di Polite assunta
L’ apparenza e la voce. Ei'a Polite
Di Priamo un figlio, che, del piè fidando
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LIBRO II
59
Nella prestezza, stavasi de’ Teucri
Esploratore al monumento in cima
Dell’ antico Esiela , e vi spiava
Degli Achivi la mossa. In queste forme
Trasse innanzi la Diva^ e al re conversa:
Padre, disse, che fai? Sempre a te piace
11 molto sermonar come ne’ giorni
Della pace^ nè pensi alla ruina,
Che ne sovrasta. Molte pugne io vidi,
Ma tali e tante non vid’ io giammai
Ordinate falangi. Numerose
Al pari delle foglie c dell’ arene
Procedono nel campo a dar battaglia
Sotto Troja. Tu dunque primamente,
Ettore, ascolta un mio consiglio, c il poni
Ad effetto. Nel sen di questa grande
Città diversi di diverse lingue
Abbiam guerrieri di soccorso : ognuno
De’ lor duci si ponga alla lor testa,
E tutti in punto di pugnar li metta.
Conobbe Ettorre della Dea la voce,
E di subito sciolse il parlamento.
Corrcsi all’ armi ^ si spalancan tutte
Le porte, e folti sboccano in tumulto
Fanti e cavalK. Alla città rimpetto
Solitario nel piano crge'si un colle,
A cui s’ ascende d’ ogni parte ; è detto
Da’ mortai Bat'iéa, dagl’immortali
Tomba dell’ agilissima Mirinna.
Ivi i Teucri schierarsi e i collegati.
Capitan de’ Trojani è il grande Ettorre,
D’ eccelso elmetto agita tor. Lo segue
De’ più forti guerrier schiera inGnita
Coll’ aste in pugno di ferir -bramose.
Ai Dàrdani comanda il valoroso
Figliuol d’Anchise, Enea, cui la divina
'Venere in Ida partorì, commista
Diva immortale ad un mortai^ ned egli
Solo comanda, ma ben anco i due
Antenóridi, .\rchiloco c Acamante.
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6o
IL1A.DE
V. 1101-1 1^0
In tutte guise ili battaglia esperti.
Quei , che dell’ Ida alle radici estreme
Hanno stanza in Zelila ricchi Trojani,
La profonda beventi acqua d'Àsepo,
Pandaro guida , licaonio figlio ,
Cui fe dono dell’ arco Apollo istcsso.
Della città d’Apesio e d’Adrastéa,
Di Pitica la gente e dell’eccelsa
Perca montagna han duci Adrasto ed Anfio ,
Corazzato di lino, ambo rampolli
Di Meropc Pcrcosio. Era costui
Divinator famoso, ed a’ suoi figli
Non consentia 1’ andata all’ omicida
Guerra. Ma i figli non 1’ udìr^ cbè nero
A morir li traca fato crudele.
Mandar Percote e Prazio e Sesto e Abido
E la nobile Arisba i lor guerrieri :
Ed Asio li conduce, Asio, figliuolo
D’Irtaco,-c prence, che d'Arisba venne
Da fervidi portato alti cavalli ,
Alla riviera, sellcntéa nudriti.
Dalla pingue Larissa i furibondi
Lanciatoci pclasghi Ippótoo mena
Con Pilco, bellicosi ambo germogli
Del pelasgico Leto Tcutamidc.
Acamantc e 1’ eròe duce Piróo
I Traci conducean quanti ne serra
L’estuoso Ellesponto^ ed i Cleoni,
Del giavellotto vibratori, Eufemo,
Del Ceade Trezeno alto nipote;
Poi Pirccnie i Peóni, a cui sul tergo
Suouan gli archi ricurvi, e gli spedisce
La rimota Amidone, c l’Assio, fiume
Di larga correntia, l’Assio, di cui
Non si .spande ne’ campi onda più bella.
Dall’ éncto paese , ov’ è la razza
Dell’ indomite mule, conducea
Di Pilcmcne 1’ animoso petto
I Paflagoni, di Citoro e Sesamo
E di splendide case abitatori
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LIBRO II
11^1-1173
Lungo le rive del Partenio fiume,
E d’ Egiàlo e di Cromna e dell’ eccelse
Balze criline. Li scguia la squadra
Degli Alizoni, d'Alibe discesi,
D’AIibe , ricca dell’argentea vena.
Duci a questi eran Hodio ed Epistrófo,
E Cromi ai Misj c l’indovino Eunòmo.
Ma con gli auguri misero non seppe
Schivar la Parca : sotto 1’ asta ei cadde
Del Peli'de quel dì, che di nemica
Strage vermiglio lo Scamandro ei fece.
Porci ed Ascanio deiforme al campo
Dall’Ascania tracan le frigie torme ,
Di commetter battaglia impazienti.
Di Pilemene i figli, Antifo e Mcstlc,
Alla gigéa palude partoriti.
Ai Meonj cran duci , a quelli ancora ,
Che alla falda del Tmolo ebber la vita.
Quindi i Carj di barbara favella ,
Di Mileto abitanti c del frondoso
Monte de’ Ftiri e del meandrio fiume
E dell’ erte di Mirale pendici.
Anfimaco a costor con Naste impera,
Figli di Nomion: Naste , un prudente^
Anfimaco, un insano. Iva alla pugna
Carco d’oro costui come fanciulla:
Stolto ! che 1’ oro allontanar non seppe
L’ atra morte, che il giunse allo Scamandro.
Ivi il ferro achilleo lo stese, e 1’ oro
Preda del forte vincitor ritnase.
Venian di Licia alfine e dai rimoti
Gorghi del Xanto i Licj: e li guidava
L’incolpabile Glauco e Sarpedontc.
r.iimo TERZO
ARGOMENTO
I du<* rtrrcili sono 3 fmiile. Pamlr rctrurudo 4IU «i>U di Uani{)0^i)4l«> lU Ettorr,
Moflrr Hi venire a duello con Menelao, a |iatlo ehe il vinrilnre abbiati Elena e i tuoi tesori.
Rlena per roosiglin d’iride viene a vedere il cooil>attimmto dalla torre della p^a Sre«, ove
slava Pnainu in eonijugnia d’aleuni «eeihs trojani. Ella mostra al suocero i raptUni greci. Ap-
parecchio e palli del ducilo cunrermati nm gìiiranteoto da Agamennone e da Pnamo. Si lom-
lastte. Paride, nel ptinlo di essere urrisoda MencLo, è salvato da Venere, else rìnlo di ocltbia
lo trasporta nel suo palagio. Klrna, avvertita iLdla Dea medesima, vieu« a ritmvarlu, e lo
garrisev di viltà. 1 due conjugi si ra^tpalluinano. Agamennone dichiara vincilure Meiwlan , *
chiede l'adempimento dei palli.
Poiché sotto i lor duci ambo schierati
Gli eserciti si fur, mosse il trojano
Come stormo d’augei, forte gridando
E schiamazzando , col romor che mena
Lo squadron delle gru, quando, del verno
Fuggendo i nembi, l’oceàn sorvola
Con acuti clangori, e guerra e morte
Porta al popol pigmeo. Ma taciturni ,
E spiranti valor marciali gli Achivi ,
Pronti a recarsi di conserto aita.
Come talor del monte in su la cim.T
L)i Scirocco il soffiar spande la nebbia
■\1 pastore odiosa, al ladro cara
Più che la notte, nè va lungc il guardo
Più che tiro di jiictra^ a questa guisa
Si destava di jiolvc una procella
Sotto il piè de’ guerrieri , che veloci
L’aperto campo trascorrcan. Venuti
Di poco spazio l’un dell altro a fn>iiU
Gli eserciti nemici, ecco Alessandro
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• ai-6o
ILIADE, LIBHO IH
Nelle prime apparir file trojaue
Bello come un bel Dio. Portava indosso
Una pelle di pardo , ed il ricurvo
Arco e la spada ^ e due dardi guizzando
Ben ferrati ed aguzzi, iva de’ Greci
Sfidando i primi a singoiar conflitto.
Il vide Menelao dinanzi a tutti
Venir superbo a lunghi passi; e quale
Il cor s’ allegra di li'on , che visto
Un cervo di gran corpo o capriolo
Spinto da fame a divorarlo intende,
E il latrar de’ molossi, c degli audaci
Villan robusti il minacciar non cura;
Tale alla vista del Trojan leggiadro
Esultò Menelao. Piena sperando
Far sopra il traditor la sua vendetta.
Balza armato dal cocchio; e lui scorgendo
Venir tra’ primi, in cor turbossi il drudo,
E della morte paventoso, in salvo
Si ritrasse tra’ suoi. Qual chi veduto
In montana foresta orrido serpe,
Risalta indietro, e per la balza fugge
Di paura tremante e bianco in viso;
Tal fra le schiere de’ superbi Teucri,
L’ira temendo del figliuol d’Àtréo,
L’avvenente codardo retrocesse.
Ettore il vide, e con ripiglio acerbo
Gli fu sopra, gridando : Ahi sciagurato !
Ahi profumato seduttor di donne,
Vile del pari che leggiadro! oh mai.
Mai non fossi tu nato, o morto fossi
Anzi ch’esscr marito; chè tal fora
Certo il mio voto, c per te stesso il meglio,
Più che carco d’infamia ir mostro a dito.
Odi le risa de’ chiomati Achei,
Che al garbo dell’aspetto un valoroso
Ti suspicòr da prima, e or sanno a prova.
Che vile c fiacca in un bel corpo hai l’ alma.
E vigliacco qual sei, tu il mar varcasti
Con eletti compagni? c visitando
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64
ILIADE
V. 61-100
Straniele genti, tu dall’ apia terra
Donna d’alta beltà, moglie d’eroi,
Rapir potesti, e il padre c Troja e tulli
Cacciar nelle sciagure, agl' inimici
Farli bersaglio, ed infamar te stesso?
Perchè fuggi? perchè di Menelao
Non attendi lo scontro? Allor saprai
Di qual prode guerrier t’usurpi e godi
La florida consorte: nè la cetra
Ti varrà, nè il favor di Cilerea,
Nè il vago aspetto, nè la molle chioma,
Quando cadrai riverso nella polve.
Oh fosser meno paurosi i Teucri!
Chè tu n’andresti già, premio al mal fatto,
D’un guarncllo di sassi rivestito.
Ed il vago a rincontro: Ettore, il veggo,
A ragion mi rampogni, cd io t’ cscuso.
Ma quel duro tuo cor scure somiglia.
Che ben tagliente una navale antenna
Fende, vibrata da gagliardi polsi,
E nerbo e lena al fenditor raddoppia.
Non rinfacciai'mi di Ciprigna i doni;
Chè, qualunque pur sia, gradito e bello
Sempre è il dono d’un Dio: nè il conseguirlo
È nel nostro volere. Or se t’aggrada.
Ch’io scenda a duellar, fa che l’achee
Squadre e le teucre seggausi tranquille,
E me nel mezzo e Menelao mettete
D’Elcna armati a terminar la lite,
E di tutto il tesor , di eh’ ella è ricca.
Qual si vinca di noi, s’abbia la donna
Con tutto insieme il suo regai corredo ,
E via la meni alle sue case; e tutti
Su le percosse vittime giurando
Amistà, voi di Troja abiterete
L’alma terra sccuri, e quelli in Argo
Faran ritorno e nell’Acaja in braccio
Alle vaghe lor donne. — A questo dire
Brillò di gioja Eltorre; ed elevando
L’asta brandita e procedendo in mezzo.
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LIDItO lil
. im-i4o
Di sostarsi fu cvuno alle sue seliierc.
Tutte FOt alto; ma gl'infesti Achei
A saettar si dicro alla sua mira
E dardi c sassi, infìn che forte alzando
La voce Agamennón: Cessate, ei grida.
Cessate, Argivi; non vibrate, Achei;
Ch'egli par che parlarne il bellicoso
Ettore brami. — Riverenti tutti
Cessàr le oifesc, e si fur queti. Allora
Fra questo campo e quello Ettor si disse ;
Trojani, Acliivi, dal mio labbro udite
Ciò che parla Alessandro, esso, per cui
Fra noi surta ed accesa è tanta guerra.
Egli vuol che de’ Teucri e degli Achei
Quete stian l’armi, e sia da solo a solo
Col bellicoso Menelao decisa
D’Elena la querela, e in un di quanta
Ricchezza le pcrtien. Quegli de’ due ,
Che rimarrassi vincitor, si preiufa
La bella donna, c in sua magiou l’adduca
Col tutto che possiede : e sia tra noi
Con saldi patti l’amistà giurata.
Disse; c tutti ammutir. Ma non già muto
Si restò Menelao , che doloroso :
Me pur, gridava, me, ine pure udite;
Che il primo offeso mi son io. Fra’ Greci
Bramo io pur diffinita , e fra’ Trojani
Questa lite una volta, c le sofferte
Molte sventure per la mia ragione,
E per l’oltraggio d’Alessandro. Or quello
Perisca di noi due, che dalla Parca
È dannato a perire; e voi con pace
Vi separate. Una negr’agna adunque
Svenate, o Teucri, all'alma Terra, e un agno
Di bianco pelo al Sole ; un terzo a Giove
Oflrirassi da noi. Ma venga all’ara
La maestà di Priamo, e la pace
Ginri egli stesso sulle sacre fibre
(Cbè spergiuri per prova c senza fede
Io conosco i suoi figli); onde protervo
Mosti. Iliade. 5
ILIAOK
Ncssuu ili Giove i siui-ameuti infranga.
Incostante, eom’aura, è per natura
De’ giovani il pensici'^ ma dove il senno
Intervieii de’ canuti, a cui presenti
Son le passate c le future cose.
Ivi è felice d’ambe parti il fine.
Si disse ^ e rallegrò Teucri ed Achei
La dolce speme di finir la guerra.
Schieraro i cocchi, e ne sniontàr; svestiti
Quindi dell’ armi, le adagiiir su l’erba,
L’une appresso dell’ altre, e breve spazio
Separava le schiere. Alla cittade
Due banditori, a trarne i sacri agnelli
E a chiamar ratti il padre, Ettore invia;
Invia del pari il rege Agamennone
.\lle navi Taltibio, onde la terza
Ostia n’adduca: e obbediente ei corse.
Scese intanto dal ciclo ambasciatrice
Iri ad Elétia dalle bianche braccia.
Della cognata Laodice assunto
11 sembiante gentil, di Laodice,
Che pregiata del prence Elicaone,
D'Antenore figliuolo, era consorte,
E tra le figlie priamee tenuta
La più vaga. Trovolla, che tcssea
\ doppia trama una splendente e larga
Tela, e su quella istoriando andava
Le fatiche, che molte a sua cagione
Solfriauo i Teucri e i loricati Achei.
La Diva innanzi le si fece, e disse:
Sorgi, sposa diletta^ a veder vieni
De’Trojani c de’ Greci un ammirando
Spettacolo improvviso. Essi, che dianzi
Di sangue ingordi ìagrimosa guerra
Si fean nel campo, or fatto bau tregua, c queli
Seggonsi c curvi su gli scudi in mezzo
Alle lunghe lor picche al suol confitte.
Alessandro frattanto e Menelao
Per te coll’asta in singoiar certame
Combatteranno^ e tu verrai chiamata
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... ,»,-520 I-IBKO 111 l\-J
Del prode vinellor cara consorlc.
Con questo ragionar la Dea le mise
Un sùbito nel cor dolce desio
Del primiero marito e della patria
E de’ parenti. Ond’clla in bianco velo
Prestamente ravvolta, c di scgi-etc
Tenere .stille rugiadosa il ciglio,
Della stanza ii’ usciva, c non già sola.
Ma due donzelle la seguian, Cliinene,
Per gi'and’ ocelli lodata, e di Pittéo
Etra la figlia. Delle porte Scee
Giunser tosto alla torre, ove seduto
Priamo si stava, e con lui Lampo c Clizio,
Pantóo, Tiinetc, Icetaonc e i due
Spegli di senno, Ucalegonte e Anténore ,
Del popol seniori , che dell’armi
Per vecchiezza deposto avean 1’ ail'anno ,
Ma tutti egregi dicitor, sembianti
Alle cicadc, che, agli arbusti appese,
Dell’arguto lor canto empion la selva.
Come videe venire alla lor volta
La bellissima donna i vecchion gi'avi
Alla torre seduti, con soiniiiessa
Voce tra lor veniali dicendo: In vero
Biasmare i Teucri, nè gli Achei si deiiiio,
Se per costei si diuturne e dure
Sopportano fatiche. Essa all’aspetto
Veracemente è Dea. Ma tale ancora
Via per mar se ne torni ^ c in nostro danno
Più non si resti, nè de’ nostri figli.
Dissero; e il rege la chiamò per nome:
Vieni, Elena, vien qua, figlia diletta;
Siedimi accanto, e mira il tuo primiero
Sposo e i congiunti e i cari amici. Alcuna
Aon hai colpa tu meco, ma gli Dei,
Che contra mi destar le lagrimose
Arme de’ Greci. Or drizza 11 guardo, c dimmi
Chi sia quel grande e maestoso Acheo
Di si bel portamento. Altri l'avanza
Ben di statura, ma non vidi al mondo
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GH
ILIADE
Maggior decoro, nè mortale io mai
Degno di tanta riverenza in vista:
Re lo dice l’ aspetto. — E la più bella
Delle donne co.sì gli rispondca:
Suocero amato, la presenza tua
Di timor mi riempie e di rispetto.
Oh scelta una crudel morte m’avessi,
Pria che Torme del tuo figlio .seguire,
11 maritai mio letto abbandonando,
E i fratelli e la cara figliolctta
E le dolci compagne! Al Ciel non piacque;
E quindi è il pianto che mi strugge.. Or io
Di ciò, che chiedi, ti farò contento.
Quegli è TAtride Agamennónj di molte
Vaste contrade corrcttor supremo.
Ottimo re, fortissimo guerriero.
Un di cognato a me donna impudica,
S’ unqua fui degna che a me tale ei fosse.
Disse ^ cd in lui maravigliando il vecchio
Fisse il guardo, e sciamò: Beato Atridc,
Cui nascente con fausti occhi miraro
La Parca c la Fortuna^ onde il comando
Di fior tanto d’eroi ti fu sortito!
Sovvieinmi il giorno ch’io toccai straniero
La vitifera Frigia. Un denso io vidi
Popolo di cavalli agitatore,
Dell’inclito Migdón schiere e d’Otréo,
Che poste del Sangario alla riviera
Avean le tende; cd io co’ miei m’aggiunsi
Lor collegato, e fui del numer uno
11 di, che a pugna le virili Amàzzoni
Discesero. Ma tante allor non furo
Le frigie torme, no, quante or l’achce.
Visto un secondo eroe, di nuovo il vecchio
La donna interrogò: Dinne ehi sia
Quell’ altro, o figlia. Egli è di tutto il capo
Minor del soiiiiiio Agameiinón, ma parmi
E del petto più largo e della spalla.
Gittate ha Tarmi in grembo alTerba, cd egli
Come ariète si ravvolvc c scoiTc
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». a$i«.VK>
LIBRO (il
Tra le file de' prodi: e veramente
Farmi di greggia guidator lanoso,
Quando per mezzo a un branco si raggira
Di candide belanti, e le conduce.
Quegli è l'astuto lacrziade Ulisse,
La donna replicò, là nell'alpestre
Suol d' Itaca nudrito^ uom, che ripieno
Di molti ingegni ha il capo e di consigli.
Donna, parlasti il ver, soggiùnse il saggio
Ànténore. Spedito a dimandarti
Col forte Menelao qua venne un tempo
Ambasciatore Ulisse, ed io fui loro
Largo d’ospizio e d'accoglienze oneste,
E d’ ambo studiai l’ indole e il raro
Accorgimento. Ma venuto il giorno
Di presentarsi nel trojan senato.
Notai, che, stanti l’uno c l’altro in piedi.
Il soprastava Menelao di spalla^
Ma, seduti, apparta più augusto Ulisse.
Come poi la favella e de’ pensieri
Spiegàr la tela, ognor succinto c pareo.
Ma concettoso, Menelao parlava^
Ch'uom di molto sermone egli non era.
Nè verbo in fallo gli cadea dal labbro.
Benché d’anni minor. Quando poi surse
L’itaco duce a ragionar, lo scaltro
Starasi in piedi con lo sguardo chino
E confitto al terren; nè or alto, or basso
Movea lo scettro, ma tcnealo immoto
In zotica sembianza, e un dispettoso
Detto l’avresti, un uom balzano e folle.
Ma come alfin dal vasto petto emise
La sua gran voce, e simili a dirotta
Neve invernai piovean l’alte parole,
Verun mortale non avrebbe allora
Con Ulisse conteso: e noi ponemmo
La maraviglia di quel suo sembiante.
Qui vide un terzo il re d’ eccelso c vasto
Corpo, ed inchiese: Chi quell’ altro fia.
Che ha membra di gigante, e va sovrano
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Degli omeri e del capo agli altri tutti l —
Il grande Ajacc. rispondca racchiusa
Nel fluente suo vel la dia Laccna,
Ajacc, ròcca degli Achei. Qucll'altro
Dall'altra banda è Idomenéo; lo vedi?
Ritto in piè fra’ Cretensi , un Dio somiglia,
K de’ Cretensi gli fan cerchio i duci.
Spesso ad ospizio nelle nostre case
L’accolse IVlcnelao; ben lo ravviso,
R ravviso con lui tutti del greco
Campo i primi^ e potrei di ciascheduno
Dir anco il nome. Ma li due non veggo
Mici germani gemelli, incliti duci,
Castore , di cavalli domatore,
R il valoroso lottator Polluce.
Forse di Sparta non son ci venuti;
O venuti , di sè nelle battaglie
Nicgan far mostra, del mio scorno ahi! fors
V<-rgognosi, c dell’onta che mi copre.
Co.si parlava; nè sapea che spenti
Il diletto di Sparta almo terreno
Lor patrio nido li chiudea nel grembo.
Vcuian recando i banditori intanto
Dalla città le sacre ostie di pace.
Due trascelti agnelletti, e della terra
Giocondo frutto generoso vino
Chiuso in otre caprigno. Il messaggicro
Ideo recava un fulgido cratere ,
Rd aurati bicchier. Giunto al cospetto
Del re vegliardo, .si l’invita, e dice :
Sorgi, iìgliuol laomedontéo; nel campo
Ti chiamano de’ Teucri e degli Achei
Gli ottimati a giurar 1' ostie percosse
D’un accordo. Alessandro c Menelao
Disputeransi colle lunghe lande
L’acquisto della sposa: e questa e tutte
Sue dovizie daransi al vincitore.
Noi, patteggiando un’amistà fedele,
Ilio sccuri abiteremo, c in Argo
Daraii volu gli Achei. Si disse: e strinse
l.lttRO III
Il cor del vecchio la pietà del figlio,
A’ suoi sergenti nondimcn comanda
D’ aggiogargli i destrieri: e quelli al cenno
Pronti obbedirò. Montò Priamo, e indietro
Tratte le briglie, fe .su l'alto cocchio
Salirsi al fianco Antenore. Drizzaro
Fnor delle Scce nel campo i corridori.
De’Troi giunti al cospetto e degli Achei.
Scesero a teira, e fra Fun campo e F altro
Procedean venerandi. Ad incontrarli
Tosto rizzossi Agamennón, rizzossi
L’accorto Ulisse, c i risplendenti araldi
Tutto venian frattanto apparecchiando
Dell’accordo il bisogno, e nel cratere
Mcscean le sacre spume. Indi de’ regi
Dieder l’acqua alle mani;, e Agamennone ,
Tratto il coltello, che alla gran vagina
Della spada portar solca sospeso ,
De’ consccrati agnei recise il ciuifo:
F, quinci in giro e quindi distributo
Fu dagli araldi il sacro pelo ai duci ,
De’quai nel mezzo Agamennón, levando
E la voce e le man, supplice disse:
Giove, d’Ida signor, massimo padre.
E sovra ogni altro glorioso Iddio,
Sole, che tutto vedi e tutto ascolti,
Alma Tellure genitrice, c voi
Fiumi, c voi, che punite ogni spergiuro
Laggiù nel morto regno, inferni Dei,
.Siate voi testimoni e in un custodi
Del patto, che giuriam. Se a Menelao
Darà morte Alessandro, egli in sua possa
Elena e tutto il suo tcsor si legna;
E noi spedito promettiam ritorno
Su F ondivaghe prore al patrio lido.
Ma se avverrà, che Menelao di vita
Spogli Alessandro, i Teucri allor la donna
Ne renderanno, e l’aver suo con ella.
Pagando ammenda, che convegna, c tale.
Che ne passi il ricordo anco ai futuri.
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7* ILIADE „ 181-4,0
Se Pn'nmo c i figli suoi, spento Alessandro ,
Negheran di pagarla, io qui coll’arme
Sosterrò mia ragione , e riraarrovvi
Finché punito il mancator ne sia.
Disse 4 c col ferro degli agnelli incise
Le mansuete gole, e palpitanti
Sul terren li depose e senza vita.
Ciò fatto, il sacro di Lieo licore
Dal cratère attignendo, agrimmortali
Fean colle tazze libagioni e voti;
E qualche Teucro, e qualche Acheo s’ intese
In questo mentre cosi dire: O sommo
Augustissimo Giove, e voi del ciclo
Dii tutti quanti, udite: A ehi primiero
Rompa l’accordo, sia Trojano o Greco,
Possa il ccrèbro distillarsi , a lui
Ed a’ suoi figli, al par di questo vino,
E adultera la moglie ir d’altri in braccio.
Così pregar; ma chiuse a cotal voto
Giove l’orecchio. Il re dardanio allora:
Uditemi, dicca. Teucri ed Achei:
Alla cittadc io riedo. A qual de’ due
Troncar debba la Parca il vital filo.
Sol Giove c gli altri Sempiterni il sanno.
Ma contemplar del fiero Atride a fronte
Un amato figliuol, vista sì cruda
Gli occhi d’un padre sostener non ponilo.
Sì dicendo, sul cocchio le .sgozzate
Vittime pose il venerando veglio;
E ascesovi egli stesso, c tratte al petto
Le' pieghevoli briglie , al par con seco
Fc Antenore salire, e via con esso
Al ventoso Ilìon si ricondusse.
Ettore allora primamente è Ulisse
Misurano la lizza. Indi le sorti
Scosser nell’elmo a chi primicr dovesse
L’asta vibrar. L’un campo intanto e l’altro.
Le mani alzando, supplicava al Ciclo,
E qualche labbro bisbigliar s’udi'a:
Giove padre, clic grande c glorioso
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V. 431-)^ LIBRO III y3
Godi in Ida regnar, quello de’ due,
Che tra noi fu cagion di sì gran lite,
Fa che spento precipiti alla cupa
Magion di Fiuto, ed uiia salda a noi
Amistà ne concedi e patti eterni.
Fra questo supplicar l’elmo squassava
Ettór, guardando addietro: ed ecco uscire
Di Paride la sorte. Allor s’ assise
Al suo posto ciascun, vicino a’suoi
Scalpitanti destrieri e alle giacenti
Armi diverse. Della ben chiomata
EIcna intanto l’avvenente sposo,
Alessandro , di fulgida armatura
Tutto si veste. E pria di bei schinieri.
Che il morso costrignea d’argentea fibbia.
Cinse le tibie. Quindi una lorica
Del suo germano Licaon, che fatta
Al suo sesto parea, si pose al petto.
All’ òmero sospese il brando, ornato
D’ argentei chiovi ^ un poderoso scudo
Di grand’orbe imbracciò^ chiuse la fronte
Nel ben temprato e lavorato elmetto ,
A cui d’ equine ehiome in su la cima
Alta una cresta orribilmente ondeggia.
Ultima prese una robusta lancia.
Che tutto empieagli il pugno. In questo mentre
Del par s’armava il bellicoso Atride.
Di lor tult’arme accinti i due guerrieri,
S’ appresentàr nel mezzo , e si guataro
Biechi. Al vederli, stupor prese e tema
I Dàrdani e gli Achei. L’un contra l’altro
L’astc squassando al mezzo dell’arena,
S’ avvicinar sdegnosi; ed il Trojano
Primier la lunga e grave asta vibrando.
La rotella colpì del suo nemico.
Ma non forolla; chè la buona targa
Rintuzzonne la punta. Allor secondo
Coll’asta alzata Menelao si mosse.
Così pregando: Dammi, o padre Giove,
Sovra costui , che m’ oltraggiò primiero ,
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7Ì
IMAOR
«• 4^1-Soo
Dammi sovra il fellon piena vendetta.
Tu sotto i colpi di mia destra il doma
Si, clic il postero tremi, e a non tradire
L’ospite apprenda, che l’accolse amico.
Disse; e l’asta avventò, la conficcò
Dell’avversario nel rotondo scudo.
Penetrò , fulminando , la ferrata
Punta il pavese rilucente, e tutta
Trapassò la corazza , lacerando
La tunica sul fianco a fior di pelle.
Incurvossi il Trojano, cd il mortale
Colpo schivò. L’irato Afride allora
Trasse la spada , ed erto un gran fendente
Gli calò ruVnoso in su l’elmetto.
Non re.ssc il brando; che in più pezzi infranto
Gli lasciò la man nuda; ond’ei gemendo
E gli occhi alzando dispettoso al cielo:
Crude! Giove, gridava, il più crudele
Di tutti i numi! Io mi sperai punire
Di questo traditor l’oltraggio: cd ecco
Che in pugno, oh rabbia! mi si spezza il feiTo,
E gittai l’asta indarno e senza oifesa.
Così fremendo, addosso all’inimico
Con furor si disserra: alla criniera
Dell’elmo il piglia, e tragge a tutta forza
Verso gli Achivi quel meschino, a cui
La delicata gola sollocava
11 trapunto guinzaglio, che le barbe
Annodava dell’elmo sotto il mento.
E l’ avvia strascinato, e a lui gran lode
Venuta ne saria; ma del periglio
Fatta Venere accorta, i nodi sciolse
Del bovino guinzaglio, c il vóto elmetto
Seguì la mano del traente Atridc.
Aggirollo l’eroe, e fra le gambe
Lo scagliò degli Achei, che festeggianti
11 raccolsero. Allor di porlo a morte
Risoluto l’Atride, alto coll’asta
Di nuovo l’a.ssali. Di nuovo accni-sa
F«o scampò Citeréa; che agevolmente
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LIBRO in
75
Il poti come Diva : lo ravvolse
Di molta nebbia, c fra il soave oler.zo
Dei profumati talami il depose.
Ella stessa a chiamar cpiindi la 6glia
Corse di Leda, e la trovò nell'alta
Torre in bel cerchio di dardanie spose.
Prese il volto e le rughe d’ un’ antica
Filatrice di lane, che sfiorarne
Ad EIcna solca di molte e belle
Nei paterni soggiorni, e sommo amore
Posto le avea. Nella costei sembianza
La Dea le scosse la nettarea veste,
E: Vieni, le dicea, vieni; ti chiama
Alessandro, che già negli odorati
Talami stassi, e su i trapunti letti
Tutto risplendc di beltà divina
In sì gajo vestir, che lo diresti
Ritornarsi non già dalla battaglia.
Ma inviarsi alla danza, 0 dalla danza
Riposarsi. Sì disse; e il cor nel seno
Le commosse. Ma quando all’ incarnato
Del bellissimo collo, e all’amoroso
Petto, c degli occhi al tremolo baleno
Riconobbe la Dea, coglier sentissi
Di sacro orrore; e, ritrovate alfine
Le parole, sciamò: Trista! e che sono
Queste malizie? Ad alcun’altea forse
Di Meonia o di Frigia alta cittade
Vuoi tu condurmi affascinata in braccio
D’alcun altro tuo caro? Ed or che vinto
Il suo rivai, me d’odio carca a Sparla
E perdonata Menelao radduce.
Sei tu venuta con novelli inganni
Ad impedirlo ? E che non vai tu stessa
A goderti quel vile? Obblia per lui
L’eterea sede, ne calcar più mai
Dell’Olimpo le vie; statti al suo fianco;
Soffri fedele ogni martello, e il cova
Finché t’alzi all’onor di moglie o ancella:
Ch’ io tornar non vo’ certo (c fora indegno)
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6
itiAne
54i-58u
A sprimacciar Ji quel cotlardo il letto ,
Argomento di seberno alle trojane
Spose, e a me stessa d’infinito afiauno.
E irata a lei la Dea : Non irritarmi ,
Sciagurata! non far ch’io t'abbandoni
Nel mio disdegno, e tanto io sia costretta
Ad abborrirti alfin, quanto t’amai:
E t’amai certo a dismisura. Or io
Negli argolici petti e ue’trojani
Metterò, se mi tenti, odj sì fieri.
Che di mal fato perirai tu pure.
L'alma figlia di Leda a questo dire
Tremò, si chiuse nel suo bianco velo,
E cheta cheta in via si pose, a tutte
Le Troadi celata^ e precorreva
A’ suoi passi la Dea. Poiché venute
Fur d’Alessandro alle splendenti soglie,
Corser di qua di là le scaltre ancelle
Ai donneschi lavori 4 ed ella intanto
Bellissima saliva c taciturna
Ai talami sublimi. Ivi l’ amica
Del riso, Citcréa, le trasse innanzi
Di propria mano un seggio, c di rimpctto
Ad Alessandro il collocò. S’ assise
La bella donna, e con amari accenti
Garrì, senza mirarlo, il suo marito:
E così riedi dalia pugna ? Oh fossi
Colà rimasto per le mani anciso
Di quel gagliardo, un dì mio sposo! E pure
E di lancia e di spada e di fortezza
Ti vantasti più volte esser migliore.
Fa cor dunque, va, sfida il forte Atride
Alla seconda singoiar tenzone.
Ma t’esorto, meschino, a ti star queto.
Nè nuovo ritentar d’armi perigliti
Col tuo rivale, se la vita hai cara.
Non mi ferir con aspri detti, o donna,
Le rispose Alessandro. Fu Minerva,
Che vincitor fc Menelao^ sol essa.
Ma lui del pari vincerò pur io^
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5«l^ L'XHO 111 77
Ch’io pure al fianco ho qualche Diva. Or via,
Pace, o cara, c nc sia pegno un amplesso
Su queste piume ^ chè giammai sì forte
Per te le vene non scaldommi Amore;
Quel dì nè pur, che su veloci antenne
10 ti rapia di Sparta , e tuo consorte
Nell’isola Crenéa ti giacqui in braccio.
No, non t’amai quel di quant’ora, e quanto
Di te m’ invoglia il cor dolce desio.
Disse; ed al letto s’avvìaro, ei primo,
Ella seconda; e l’un dell’altro in grembo
Su i mollissimi strati si confuse.
Come irato lion l’Àtridc intanto
Di qua di là si ravvolgca, cercando
11 leggiadro rivai; nè lui fra tanta
Turba di Teucri e d’alleati alcuno
Significar sapea; nè, lo sapendo,
L’ avvia di certo per amor celato;
Chè come il negro ceffo della mortfc
Abborrito da tutti era costui.
Fattosi innanzi allora Agamennone:
Teucri, Dàrdani, ei disse, e voi ali Troja
Alleati, m’udite; vincitore
Fu, lo vedeste, Menelao. Voi dunque
Clciia ne rendete, e tutta insieme
La sua ricchezza; e d’ un’ ammenda inoltre
Ne rintegrate, che convegna, e tale.
Che memoria nc passi anco ai nepoti.
Disse; e tutto gli piause il campo acheo.
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rjRRO QUARTO
ARGOMENTO
Gli Dei sono a roasi|;lii> fsella rr((f(ia di Gio^e. Quetli . cedendo alle ùUo/e di (iiuooiie.
tavia Minerva ori ram|Ki, c le ordina di far u, che i Trojiiai siioo t |irimi ad offèndere i
Greci, onde luHure l'accordo. Minerva ìndurv Pandaro a ferire Menelao con iux> strale.
Lamento d'Againcnnone alta vista del fratello ferito. Macaone è cliianiato a medicare 1’ eroe.
I Trnjani {«ofìttaou di questa ocraùooe per asannrsi contro de’ Greci. A^ametmone scorre
|*cr le 61e , incuorando ruluro che vede |>mnli alla Ualtaglia , e riprendrtulo chiunque è restio
0 rimane ignaro dell' as;veDÌnienlo. La pugna è impegnala Strage grande d'ambe le parti.
NtiP auree sale dell' Olimpo accolti
Intorno a Giove si sedean gli Dei
A consulta. Fra lor la veneranda
Ebe versava le nettaree spume,
E quelli a gara con alterni inviti
L’ auree tazze votavano , mirando
La trojana città. Quand' ecco il sommo
Saturnio , inteso ad irritar Giunone ,
Con un obliquo paragon mordace
Cosi la punse: Due possenti Dive
Ajutatrici ha Menelao, l'Argiva
Giuno e Minerva Alalcoméuia. E pure
^ieghittosc in disparte ambo si stanno
Sol del vederlo dilettate. Intanto
Fida al fianco di Paride l’amica
Del riso Citcréa lungi re.spinge
Dal suo caro la Parca^ c dianzi, in quella
Gli’ ci morto si tcnca, scrvollo in vita.
Rimasta i al forte Menelao la palma ^
Ma l’ alto alTar non è compiuto , e a noi
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J,4)0 ILIADE, LIBRO IV JC)
Tocca il condurlo, e statuir, se guerra
Fra le due genti rinnovar si debba ,
Od in pace comporle. Ove la pace
Tutti appaghi gli Dei, stia Troja, e in Argo
Con la consorte Menelao ritorni.
Strinscr, fremendo a questo dir, le labbia
Giuno e Minerva, che vicin sedute
Venian de’ Teucri macchinando il danno.
Quantunque al padre fieramente irata,
Tacque Minerva, e non fiatò. Ma l’ira
jNon contenne Giunone, c si rispose:
Acerbo Dio, che parli? A far di tante
Armate genti accolta, alla mina
Di Priamo e de’ suoi figli , ho stanchi i miei
Immortali corsieri j e tu pretendi
Frustrar la mia fatica, ed involarmi
De’ miei sudori il fi;utto? E ben, t’appaga^
Ma di noi tutti non sperar 1’ assenso.
Feroce Diva, replicò sdegnoso
L’adunator de’ nembi, e che ti fòro
E Priamo e i Priamidi, onde tu debba
Voler sempre di .Troja il giorno estremo?
La tua rabbia non fia dunque satolla ,
Se non atterri d’Iliun le porte,
E sull’ infrante mura non ti bevi
Del re misero il sangue e de’ suoi figli
E di tutti i Trojani? Or su, fa come
Più ti talenta^ onde fra noi sorgente
D’ acerbe risse in avvenir non sia
Questo dissidio^ ma riponi in petto
Le mie parole: se desio me pure
Prenderà d’atterrar qualche a te cara
Città, non porre a’ miei disdegni inciampo,
E liberi li lascia. A questo patto
Troja io pur t’abbandono, e di mal cuore;
Cbò, di quante città contempla in terra
L’occhio del Sole e dell’ eteree stelle,
A'iuna io m’ aggio più cara ed onorata
Come il sacro Ifione c Priamo e tutta
Di Priamo pur la bellicosa gente;
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8o
ILIADE
». 6i.i<io
Perocché 1’ i»rc mie per lor di sacre
Opime dapi abbondano mai sempre,
E di libami e di profumi, onore
Solo alle dive qualità sortito.
Compose a questo dir la veneranda
Giuno gli sguardi maestosi, e disse:
Tre eittadi sull’ altre a me son care,
Argo, Sparta, Micene: e tu le struggi.
Se odiose ti sono. A lor difesa
Nè man , nè lingua moverò^ che quando
Pure impedir lo ti volessi, indarno
11 tentai’lo usciria, scudo d'assai
Tu più forte di me. Ma dritto or parmi.
Che tu vano non renda il mio disegno^
Ch’io pur son nume, e a te comune io traggo
L’ origine divina , io dell’ astuto
Saturno figli», c in alto onor locata.
Perchè nacqui sorella e perchè moglie
Son del re degli Dei. Facciam noi dunque
L’un dell’altro il volere, e il seguiranno
Gli altri Eterni. Or tu ratto invia Minerva
Fra i due commossi eserciti, onde spinga
1 Trojani ad offendere primieri.
Rotto l’accordo, i baldanzosi Achei.
Assenti Giove al detto ; ed a Minerva :
Scendi, disse, veloce^ e fa, che i Teucri
Primi offendan gli Achei, turbando il patto.
A Minerva, per sè già desiosa.
Sprone aggiunse quel cenno. In un baleno
Dall’Olimpo calò. Quale una stella.
Cui portento a nocchieri o a numerose
Schiere d’ armati scintillante e chiara
Invia talvolta di Saturno il figlio:
Tale in vista precipita dall’alto
Minerva in terra, e piantasi nel mezzo.
Stupir Teucri ed Achivi all’improvvisa
Visione; e taluu disse al vicino:
Arbitro della guerra oggi vuol Giove
Per certo rinnovar fra un campo e l’altro
L’acerba pugna, o confermar la pace.
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. ioi-i4o
LIBRO IV
«I
La Dea miscliiussl ira la folta inlantò
Delle turbe trojane, e la sembianza
Di Laódoco assunta (un valoroso
D’ Antenore (ìgliuol ), si pose in traccia
Del deiforme Pàndaro. Trovollo
Stante in piedi nel mezzo al clipeato
Stuolo de’ forti , che l’ ave^ seguito
Dalle rive d’ Esepo. Appropinquossi
A lui la diva, e disse: Inclito germe
Di Licaon , vuoi tu ascoltarmi ? Ardisci 5
Vibra nel petto a Menelao la punta
D’uu veloce cpiadrello. E grazia e lode
Te ne verrà dai Dàrdani e dal prence
Paride in prima, che d’illustri doni
Colmeratti , vedendo il suo rivale
Montar sul rogo , dal tuo strai trafitto.
Su via dunque, dardeggia il burbanzoso
Atride; e al licio saettante Apollo
Prometti ebe , tornato al patrio tetto
Nella sacra Zeléa, darai di scelti
Primogeniti agnelli un’ ecatombe.
Cosi disse Minerva, c dello stolto
Persuase il pcnsier. Diè mano ci tosto
Al bell’ arco , già spoglia di lascivo
Capro agreste. L’ aveva egli d’ agguato ,
Mentre dal cavo d’ una rupe liscia ,
Còllo nel petto , e su la rupe steso
Resupino. Sorgevano alla belva
Lunghe sedici palmi su 1’ altera
Fronte le corna. Artefice perito
Le polì , le congiunse , e di lucenti
Anelli d' oro ne fregiò le cime.
Teso quest’arco, c dolcemente a Itrra
Pàndaro l’adagiò. Dinanzi a lui
Protendono le targhe r fidi amici.
Onde assalito dagli Achei non vegna.
Pria cb’ egli il marzio Menelao percuota.
Scoperchiò la faretra, cd un alato
Intatto strale nc cavò, sorgente
Di lagrime infinite. Indi sul nervo
Mosti. //iVo/e. 0
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ILIADE
I i4i>i8o
83
L'adaltaiulo, prumisc al liciu Apollo
Di primunati agnelli un' ecatombe ,
Ritornato in Zeléa. Tirò di for?.a
Colla cocca la corda, alla mammella
Accostò il nervo, all’arco il ferro ^ c, fatto
Dei tesi estremi un cerchio, all’ improvviso
L’arco e il nervo fischiar forte s’ udirò,
K lo strale fuggi , desideroso
Di volar fra le turbe. Ma non furo
Immemori di te, tradito Àtridc,
In quel punto gli Dei. L’armipotente
Figlia di Giove si parò davanti
Al mortifero telo, e dal tuo corpo
Lo deviò sollecita, siccome .
Tenera madre, che dal caro volto
Del bambino , che dorme un dolce sonno ,
Scaccia l’insetto, che gli ronza intorno.
Ella stessa la Dea drizzò lo strale
Ove appunto il bel cinto era frenato
Dall’ anrec fibbie , e si stendea davanti
Qual secondo torace. Ivi l’ acerbo
Quadrello cadde ^ c, traforando il cinto,'
Ael panzeron s’ infisse e nella piastra.
Che dalle frecce il corpo gli sebermia.
Questa gli valse allor d' assai ^ ma pure
Passolla il dardo, e ne sfiorò la pelle
Si, che tosto diè sangue la ferita.
Come quando meonia o caria donna
Tinge d’ ostro un avorio , onde fregiarne
Di superbo destriero le mascelle;
Molti d’ averlo cavalieri han brama;
Ma in chiusa stanza ei serbasi bel dono
A qualche sire, adornamento e pompa
Del cavallo ed in un del cavaliero ;
Cosi di sangue imporporossì , Atride .
La tua bell’ anca, e per lo stinco all' imo
Calcagno corse la vermiglia riga.
Raccapricciossi a questa vista il rege
Agamennòn, raccapricciò lo stesso
Marzial Menelao; ma quando ci vide
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. |Bi«230
LlDUO IV
H3
Fuor (lolla polpa l'amo dello strale,
Gli tornò tosto il core , e si riebbe.
Per man tenealo intanto Àgamenndne;
Ed altamente fra i dolenti amici
Sospirando dicea : Caro fratello ,
Perebò qui morto tu mi fossi, io dunque
Giurai l’accordo, te mettendo solo
Per gli Achivi a pugnar contra i Trojani,
Contra i Trojani, che l’accordo ban rotto,
C a tradimento ti ferir? Ma vano
Non andrà delle vittime il giurato
Sangue, nè i puri libamenti ai Numi,
Nè la fè delle destre. Il giusto Giove
Può differire ei, s'i, ma non per certo
Obbli'ar la vendetta : e caro un giorno
Colle lor teste, colle mogli e i Agli
Ne pagheranno gli spergiuri il fio.
Tempo verrà (di questo ho certo il core),
Ch’Ilio e Priamo perisca, e tutta insieme
La sua perfida gente. Dall’ eccelso
Etereo seggio scoterà sovr’essi
L’ egida orrenda di Saturno il figlio
DI tanta frode irato^ e non cadranno
Vóti i suoi sdegni. Ma d’ immenso lutto
Tu cagion mi sarai, dolce fratello,
Se morte tronca de’ tnoi giorni il corso.
Sorgerà negli Achei vivo il desio
Del patrio suolo , e d’ onta carco in Argo
Io tornerommi, e lasceremo ai Teucri,
Glorioso trofeo, la tua consorte.
Putride intanto nell’ iliaca terra
L’ossa tue giaceran, seni’ aver dato
Fine all’ impresa^ c il tumulo del mio
Prode fratello un qualche Teucro altero
Calpestando, dirà; Possa i suoi sdegni
Satisfar cosi sempre Agameunòne,
Siccome or fece, senza prò guidando
L’ argoliche falangi a questo lido,
D’ onde scornato su le vote navi
Alla patria tornò, qui derelitto
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II4AHR
' sai-26ft
L’ illustre Meuelao. Sì Ha di' ei dica :
E allor mi s’ apra sotto i piè la terra.
Ti conforta, rispose il biondo Atride,
Nè co’ lamenti spaventar gli Acliivi.
In mortai parte non feri l’ acuto
Dardo: di sopra il ricamato cinto
Mi difese, e di sotto la corazza
E questa fascia, che di ferrea lama
Buon fabbro foderò. — Sì voglia il cielo .
Diletto Menelao , l’ altro riprese.
Intanto tratterà medica mano
La tua ferita , e farmaco porravvi
.\tto a lenire ogni dolor. — Si volse
All'araldo, ciò detto, c: Va , soggiunse;
Vola, o Taltibio, c fa, che ratto il figlio
D’Esculapio, divin medicatore,
Macaon qua ne vegna, c degli Achei
.W forte duce Menelao soccorra,
Cui di freccia ferì qualche trojano
O licio sactticr , che se di gloria ,
Noi di lutto coprì. — Disse; c F araldo
Tra le falangi achee corse veloce
In traccia dell’ eroe. Ritto lo vide
Fra lo stuolo de’ prodi, che da Tricca.
Aitrite di corsier, l’avea seguito;
Apprcssossi, c con rapide parole:
Vien , gli disse, t’ affretta, o Macaone:
Agamennón ti chiama: il valoroso
Menelao fu di strai cólto da qualche
Licio arderò o trojano, che superbo
Va del nostro dolor. Corri , e lo sana.
Al tristo annunzio si commosse il figlio
D’ Esculap io; e veloci attraversando
11 largo campo acheo , fur tosto al loco .
Ove al ferito deiforme Atride
Faccan cerchio i migliori. Incontanente
Dal baltco estrasse Macaon lo strale .
Di cui curvarsi nell' uscir gli acuti
Ami; disciolse ei quindi il vcrgolato
Cinto e il torace rolla ferrea fascia
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Sovrapposta: c scoperta la ferita,
Succlilonne il sangue, e destro la cosparse
Dei lenitivi farmaci , die al padre ,
D’ amor pegno , insegnati avea Chironc.
Mentre questi alla cura intenti sono
Del bell icoso Atride, ecco i Trojani.
Marciar di nuovo con gli scudi al petto.
R di nuovo gli Achei l’armi vestire,
Di battaglia bramosi. Allor vedevi
Mun assonnarsi, non dubbiar, nè pugna
Schivar l’illustre Agamennón; ma ratto
Volar nel campo della giuria. Il carro
E i fervidi destrier tratti ih disparte
Lascia all’auriga Eurimedonte, Aglio
Del Piraide Tolomeo; gl’ impone
Di seguirlo vicin. mentre pel campo
Ordinando le turbe egli s’ aggira ,
Onde accorrergli pronto ove stanchezza
Gli occupasse le membra. Egli pedone
Scorre intanto le Ale; e quanti all’ anni
Affrettarsi ne vede . ei colla voce
Fortemente gl’ incuora, e grida: Argivi,
Niun rallenti le forze: il giusto Giove
Bugiardi non ajuta: chi primiero
L’accordo violò, pasto vedrassi
Di voraci avoltoi, menti-e captivc
Le dilette lor mogli in un co’ Agli
Noi nosco condurremo. Ilio distrutto.
Quanti poi ne scorgea ritrosi c schivi
Della battaglia, con irati accenti
Li rabbuffando: O Ai'givi, egli dicca,
O guerricr da balestra , o vitupcrj !
Non vi prende vergogna? A che vi state-
istupiditi come zebe , a cui ,
Dopo scorso un gran campo, la stanchezza
Ruba il piede e la lena? E voi del pari
Allibiti al pugnar vi sottraete.
Aspettate voi forse, che il nemico
Alla spiaggia s’accosti , ove ritratte
Stan sul secco le prore, onde si vegga
86
ILUOE
V. 3oi«.^o
Se Giove allor vi stenderà la mano ?
Cosi imperando trascorrea le schiere.
Venne ai Cretesi; e li trovò, che all’ armi
Davan di piglio intorno al bellicoso
Idomenéo. Por vigoria di forze
Pari a fiero cinghiale Idomenéo
Guidava l’antiguardia, e Meri'ouc
La retroguardia. Del vederli allegro ,
11 sir de’ forti Atride al re cretese
Con questo dolce favellar si volse:
Idomenéo , te sopra i Danai tulli
Cavalieri veloci in pregio io legno,
Sia nella guerra , sia nell’ altre imprese ,
Sia ne’ conviti , allor che ne’ crateri
D’ almo antico l'ico versau la spuma
I supremi tra’ Greci. Ove degli altri
Chiomati Achivi misurato è il nappo,
II tuo, del par che il mio , sempre trabocca.
Quando ti prende di bombar la , voglia.
Or entra nella pugna; e tal ti mostra.
Qual dianzi ti vantasti. — E de’ Crctensi
A lui lo duce : Atride , io qual già pria
T’ improraisi e giurai , fido compagno
Per certo ti sarò. Ma tu rinfiamma
Gli altri Achivi a pugnar senza dimora.
Rupper l’accordo i Teucri ; e perchè primi
Del patto violar la sautitatc ,
Sul lor capo cadran morti e mine.
Disse; e giojoso proseguì l' Atride
b’ra le caterve la rivista, e venne
Degli Ajaci alla squadra. In lutto punto
Mctteansi questi, e li scguia di fanti
Un nugolo. Siccome allor che scopre
D’ alto loco il paslor nube , che spinta
Su per 1’ onde da Cauro s’ avvicina,
E bruna più che pece il mar viaggia.
Grave il seno di nembi ; inorridito
Ei la guarda, ed aflrelta alla spelonca
Le pecorelle; così negre ed orri<le
Per gli scudi e per 1’ aste si moveano
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UBRO IV
.141-380
Sotto gli Ajaci accolte le falangi
De’ giovani veloci al rio conflitto.
Allcgros<i a tal vi.sta Agamennone \
E a’ lor duci converso , in presti accenti :
Ajaci , ci disse , condottieri egregi
De’ loricati Achivi , io non v’ esorto
(Ciò fora oltraggio) a inanimar le vostre
Schiere 4 già per voi stessi a fortemente
Pugnar le stimolate. Al sommo Giove
E a Pallade piacesse e al santo Apollo,
Che tal coraggio in ogni petto ardesse ,
E tosto presa ed adeguata al suolo
Per le man degli Achei Troja cadrebbe.
Così detto, lasciolli; c, procedendo,
A Nestore arrivò. Nestore, arguto
De’ Pilj aiTingator, che in ordinanza
I suoi prodi metteva, e alla battaglia
Li concitava. Stavangli dintorno
II grande Pelagonte ed Alastoi'rc ,
E il prence Emone e Cromio , ed il jiaUorc
Di popoli, Biante. .In prima ei pose
Alla fronte coi carri e coi cavalli
1 cavalieri, e al retroguardo i fanti,
Che molti essendo c valorosi, il vallo
Formavano di guerra. Indi nel mezzo
1 codardi rinchiuse, onde forzarli,
Lor mal grado, a pugnar. Ma innanzi a tutto
Porge ricordo ai combattenti equestri
Di frpnar lor cavalli, e non mischiarsi
Confusamente nella folla. — Alcuno
Non sia, soggiunse, che in suo cor (ìdaiido
E nell’ equestre maestrìa , s’ attenti
Solo i Teucri affrontar di schiera uscito;
Nè sia chi retroceda; chè, cedendo.
Si sgagliarda il soldato. Ognun, che sceso
Dal proprio carro 1’ ostil carro assalga ,
Coll’asta bassa investalo; chè meglio.
Sì pugnando, gli torna. Con quest’arte.
Con questa mente c questo ardir nel petto
Le città rovesciar gli antichi eroi.
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88
ILIADE
38i-^20
Il canuto così mastro di guerra
Le sue genti animava. In lui (issando
Gli occhi l'Atride , giubiloune , c tosto
Queste parole gli drizzò: Buon veglio,
Oh l' avessi tu salde le giuocchia
E saldi i polsi, come hai saldo il core!
La ria vecchiezza, che a nuiruom perdona,
Ti logora le forze: ah perchè d’alti’o
Guerricr non grava la crudel le spalle !
Perchè de’ tuoi begli anni è morto il fiore!
Ed il gereiiio cavalicr rispose :
Atride, al certo bramerei pur io
Quelle forze, ch’io m’cbbi il di, che morte
Diedi all'illustre Ereutaliou. Ma tutti.
Tutti ad un tempo non comparto Giove
I suoi doni al mortai. Ridcami allora
Gioventude : or mi doma empia vecchiezza.
Ma qual pur sono, mi starò noi mezzo
De’ cavalieri nella pugna, e gli altri
Gioverò di parole e di cousiglio^
Gilè questo è officio de’ provetti. Dòssi
Lasciar dell' aste il tiro ai giovinetti
Di me più destri c nel vigor scouri.
Disse; c, lieto 'l'Atride oltrepassando.
Venne al Fetide Meneslco, perito
Di cocchi guidator, ritto nel mezzo
De’ suoi prodi Cccropj. Eragli accanto
Lo scaltro Ulisse colle forti schiere
De’Cefaleui, che non anco udito
Di guerra il grido avean, poiché le teucre
E l’argive falangi allora allora
Comiiiciavan le mosse: e questi in posa
Aspeltavan , che stuolo altro d'Achei
Impeto fèsse ne’ TrojanI il primo,
E ingaggiasse battaglia. In quello stato
Li sorprese l'Atride; -e corruccioso
Fe dal labbro volar questa rampogna:
Fetide Mencstéo, figlio non degno
D’uu alunno di Giove, e tu d'inganni
Astuto fabbro, a che tremanti state
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LIBRO IV
»9
V.
Gli altri aspettando, e separati? A voi
Entrar convicnsi nella iniscliia i primi ,
Perchè primi io vi chiamo anche ai conviti ,
Ch'ai primati imhandiscono gli Achei.
Ivi il salme sapgrar vi giova
Delle carni arrostite , e a piena gola
Di soave lieo cioncar le tazze.
Or vi giova esser gli ultimi , e vi fora
Grato il veder ben dicci squadre achee
Innanzi a voi scagliarsi entro il coullitto.
Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose;
Qual detto , Ati-ide , ti fuggì di bocca ?
E come ardisci di chiamarne in guerra
Neghittosi? Allorché centra i Trojani
Daran principio al rio marte gli Achei,
Vedrai, se il brami e tc ne cal, vedrai
Nelle dardanic file antesignane
Di Telemaco il padre. Or cianci al vento.
Veduto il cruccio dell’ eroe , sorrise
L’Atride , e dolce ripigliò : Divino
Di Laerte figliuol, sagace Ulisse,
Nè sgridarti vogl’io, nè comandarti
Fuor di stagione^ ch’io ben su che in petto
Volgi pensieri generosi, c senti
Ciò ch’io pur sento. Or vanne, e pugna; e s’ora
Dal labbro mi fuggì cosa mal detta,
Ripareremla in altro tempo. Intanto
Ne disperdano i numi ogni ricordo.
Ciò detto, gli abbandona, c ad altri ci pas.sa;
E ritto in piedi sul lucente coceliio
11 magnanimo figlio di Tidéo ,
Diomede, ritrova. Al fianco ha Stèndo,
Prole di Capanèo. Si volse il sire
Agamennone a Diomede, c ratto
Con questi accenti rampognollo: Ahi! figlio
Del bellicoso cavalicr Tidéo ,
Di che paventi ? Perchè guardi intorno • ♦
Le scampe della pugna? Ah! non solea
Cosi Tidéo tremar ; ma precorrendo
D' assai gli amici , co’ nemici ei primo
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ILIADE
S’ azzuffavn. 'Ciascun , che ne’ guerrieri
Travagli il vide , lo racconta. In vero
Nè compagno io gli fui nè teslimonc:
Ma udii, clic ogni altro di valore ci vinse.
Ben coll’ illustre Polinice un tempo
Senz’ armati in Micene ospite ci venne ,
Onde far gente che alle sacre mura
Li seguisse di Tebe, a cui già mossa
Avean la guerra; c ne fér ressa e preghi
Per ottenerne generosi ajuti;
E voicvam noi darli , c la domanda
Tutta appagar; ma con infausti .segni
Giove da tanto ne distolse. Or come
Gli eroi si fùro dipartiti, e giunti
Dopo molto cammino al verdeggiante
Giuncoso Asopo, ambasciatore a Tebe
Spedir Tidèo gli Achivi. Andovvi, e molti
Banchettanti Cadméi trovò del forte
Eteócle alle mense. In mezzo a loro ,
Quantunque cstrano e solo , il cavaliere ,
Senza punto temer, tutti slidolli
Al paragoti dell’ armi, e tutti ci vinse
Col favor di Minerva. Irati i viuti ,
Di cinquanta guerrieri, al suo ritorno.
Gli posero un agguato. Eran lor duci
L’Emonide Meone, uom d’almo aspetto,
E d’Autofano il figlio, Licofonte,
Intrepido campion. Tidèo gli uccise
Tutti; ed un solo per voler de’ numi,
Il sol Meone rimandonne a Tebe.
Tal fu l’etólo eroe, padre di prole
Miglior di lingua, ma minor di fatti.
Non rispose all’acerbo il valoroso
Tidide, e rispettò del venerando
Rege il rabbuffo; ma rispose il figlio
Del chiaro Capanèo , dicendo: Atride,
Non mentir quando t’ è palese il vero.
Migliori assai de’ nostri padri a dritto
Noi ci vantiam. Noi Tebe e le sue sette
Porte espugnammo: e nondimen più scarsi
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i., 5oi-54o LIBKO IV <)1
Erati gli armati che guidammo al sacro
Muro di Marte, ne' divini auspicj
Fidando e in Giove. Per l’opposto quelli
Peccar d’insano ardire, e vi perirò.
Non pormi adunque in onor pari i padri.
Gli volse un guardo di traverso il forte
Tidide, e ripigliò: T’aecheta, amico.
Ed obbedisci al mio parlar. Non io.
Se il re supremo Agamennone istiga
Alla pugna gli Achei, noil io lo biasmo.
Fia sua la gloria, se , domati i Teueri,
Noi la sacra cittade espugneremo ^
E suo, se spenti noi cadremo, il lutto.
Dunque a dar prove di valor si pensi.
Disse^ e armato balzò dal cocchio in terra.
Orrendamente risonar sul petto
L’ armi al re concitato, a tal che preso
N’ avria spavento ogni più fermo core.
Siccome quando al risonante lido,
Di Ponente al soffiar, l’uno sull’altro
Del mar si spinge il flutto ^ e prima in alto
Gonbasi , e poscia su la sponda rotto
Oiribilmente freme, c intorno agli erti
Scogli s’arriccia, li sormonta, e in larghi
Sprazzi diffonde la canuta spuma;
Incessanti così l’una su l’altra
Movon l’achee falangi alla battaglia
Sotto il suo duce ognuna; c sì gran turba
Marcia sì cheta , che di voce priva
La diresti al vederla: c riverenza
Era de’ duci quel silenzio ; e l’ armi
Di varia guisa, di che gian vestiti
Tutti in ischiera, li cingean di lampi.
Ma simiglianti i Teucri a numeroso
Gregge, che dentro il pecoril di ricco
Padron, nell’ora che si spreme il latte,
S’ ammucchiano , e al belar de’ cari agnelli
Bispondono belando alla dirotta;
Così per 1’ ampio esercito un confuso
Mcttean schiamazzo i Teucri; che non uikj
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9»
it.unr
•• 5il.58o
Era di tutti il j^’ido uè la voci',
Ma di lingu<? un inistin, si’iido una gente
Da più parli raccolta. A questi Marte,
A quei Minerva è sprone, e quinci e quindi
Lo Spavento e la Fuga , c del crudele
Marte suora c compagna, la Contesa,
Insaziabilmente furibonda.
Clic da principio piccola si Icva^
Poi mette il capo tra le stelle , c immensa
Passeggia su la terra. Essa, per mezzo
Alle turbe .scorrendo, e de’ mortali
Addoppiando gli affanni , in ambedue
Le bande spàrse una rabbiosa lite.
Poiché l’un campo c 1’ altro in un sol luogo
Convenne, e si scontrar Paste c gli scudi,
E il furor de’ guerrieri , scintillanti
Ne’ risonanti usberghi, e dèlie colme
Targhe già il cozzo si sentia, Icvossi
Un orrendo tumulto. Iva confuso
Col gemer degli uccisi il vanto e il gi-ido
Degli uccisori, e il suol sangue correa.
Qual due torrenti, che di largo sbocco
Devolvonsi dai monti, e nella valle
Per lo concavo scn d’ una vorago
Confondono le gonfie onde veloci ;
N" ode il fragor da lungi in cima al balzo
L’ atterrito pastor; tal dai commisti
Eserciti sorgea fracasso e tema.
Pri nio Anliloco uccise un valoroso
Teucro, alle mani nelle prime file,
11 Tal iside Echépolo, il ferendo
Nel cono del chiomato clmo^ s’infisse
La ferrea punta nella fronte, e 1’ osso
Trapanò : s’ abbujàr gli occhi al meschino ,
Che strepitoso cadde come torre.
Ghermì pe’ piedi quel caduto il prence
De’ magnanimi Abanli , Elefenorre ,
Figliuol di Calcodonte; e desioso
Di spogliarlo dell’ armi , lo Iraea
Fuor della mischia^ ma fallì la brama:;
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r. 58i.6jo libro IV C)3
Che inenlrc il morto ei dietro si strascina.
Agenore il sorprende, e a lui , che curvo
OnVia nudati di pavese i fianchi,
Tale un colpo assestò, che gli disciolse
Le forze , e 1’ alma abbandonollo. Allora
Fra i Trojani e gli Achei surse una fiera
Zuffa sovr’ esso : s’ alfrontàr quai lupi ,
F in mutua strage si ractteano a morte.
Qui fu che Ajace Tclamonio il figlio
n'Antcmi'on percosse, il giovinetto
•Sinjoesio, cui scesa dallTdée
Cime la madre partorì sul margo
Del Simoenta, un giorno ivi venuta
Co' genitori a visitar la greggia :
F. Simoesio lo nomar dal fiume.
Misero! chi dei presi in educarlo
Dolci pensieri ai gcnitor diletti
Rendere il mcrto non poteo: la lancia
D’ Ajace il colse, e il viver suo fe breve.
Al primo scontro lo colpì nel petto
Su la destra mammella, c la ferrata
Punta pel tergo riuscir gli fece.
Cadde il garzone nella polve a guisa
Dì liscio pioppo su la sponda nato
D' acquidosa palude : a lui de’ rami
Già la pompa crcscea, quando repente
Colla fulgida scure lo recise
Artefice di carri , e inaridire
Lungo la riva Io lasciò del fiume.
Onde poscia foggiarne di bel cocchio
Le volubili rote. Così giacque
L'Anlemide trafitto Simoesio,
E tale dispogliollo il grande Ajace.
Contro Ajace 1’ acuta asta diresse
D’ infra le turbe allor di Priamo il figlio ,
Antifo, e il colpo gli falli; ma colse
Nell’inguine il fedel d’ Ulisse amico,
Leuco, che già di Simoesio altrove
Traca la salma; e accanto al corpo esangue,
Che di man gli cadea, cadde egli pure.
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9Ì
ILIADE
y. 6ai*^6o
Forte adirato dell'ucciso amico,
Si spinse Ulisse tra gl' innanzi, tutto
Scintillante di ferro ^ e più dappresso
Facendosi , e dintorno il guardo attento
Rivolgendo, librò l'asta lucente.
Si misero a quell' atto in guardia i Tcuci'i ,
E lo cansàr^ ma quegli il telo a vóto
Non sospinse, e feri Democoonte ,
Pri'arnide bastardo, che d'Abido
Con veloci puledre era venuto.
A costui fulminò l' irato Ulisse
Nelle tempie la lancia, c trapassolle
La fen-ea punta. Tenebrarsi i lumi
Al trafitto, che cadde fragoroso,
E cupo gli tonar l'armi sul petto.
Rinculò de’Trojani, al suo cadere.
La fronte, rinculò lo stesso Ettorre^
Dier gli Argivi alte grida , ed occupati
1 corpi uccisi, s' avanzai' di punta.
Dalla ròcca di Pergamo mirolli
Sdegnato Apollo^ e, rincorando i Teucri,
Con gran voce gridò: Fermo tenete, .
Valorosi Troiani, ed agli Achei
Non cedete l'onor di questa pugnai
Che nè pietra, nè ferro è la lor pelle
Da rintuzzar delle vostr' armi il taglio.
Non combatte qui, no, della leggiadra
Tétide il figlio^ non temete: Achille
Stassi alle navi a digerir la bile.
Così dall'alto della ròcca il Dio
Terribile sciamò. Ma la feroce
Palla, di Giove gloriosa figlia ,
Discorrendo le file, inanimava-
Gli Achivi, ovunque li vedea rimessi.
Qui la Parca allacciò PAmaraneide
Diore. Un' aspra e quanto cape il pugno
Grossa pieti'a il percosse alla diritta
Tibia presso il tallone , c feritore
Fu l' Imbraside Piro, che de' Traci
Condottiero dall'Eno era venuto.
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« (Xl-eyn LIBRO IV g5
Franse ainliidue li nervi e la caviglia
L’improbo sasso, ed ei cadde supino
Nella sabbia, e mal vivo ambo le mani
Ai compagni stendca. Sopra gli corse
Il percussore , e 1’ asta in mezzo all’ epa
Gli cacciò. Si versar tutte per terra
Le intestina , e mortale ombra il coperse.
All’ irruente Piro allor l’Etólo
Toante si rivolge; e lui nel petto
Con la lancia ferendo alla mammella,
Nel polmon gliela fìcea. Indi appressato,
Gliela seonfìcca dalla piaga; c in pugno
Stretta l’acuta spada, glie l’immerse
Nella vcntraja, e gli rapio la vita:
L’ armi non già; chè intorno al morto Piro
Colle lungb’ aste: in pugno irti di ciuffi
Afìbllàrsi i suoi Traci, e il chiaro Etólo,
Benché grande e gagliardo, allontanare,
Sì che a foi-za respinto si ritrasse.
Così l’uno appo l’altro nella polve
Giacquero i due campioni, il tracio duce,
E il duce degli Epéi. Dintorno a questi
Molt’ altri prudi ritrovAr la morte.
Chi da ferite illeso, e da Minerva
Per man guidato, c preservato il petto
Dal volar degli strali , avvolto in mezzo
Alla pugna si fosse , avria le forti
Opre stupito degli eroi; chè multi
E Trojani ed Achivi nella polve
Giacquer pruni e confusi in quel conflitto.
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UBRO QUINTO
ARGOMENTO
Uionwile, rnirajuUi di P<ilU«k, f« Ve {mii inirjlnli |>ro\e. K feritii P^utUru eoo uuj fr«c>
fia. Minerva gli ridona il rigore. Ritorna egli alla pugna, ed ueride cikdli nemici, fra’i^ualt
Pindaro ; con un lasvo colpìsrc Ritea ne) giiioerliio. Venere, accana per uU'are U figlio , c
da lui feriU io una mono. Salila all’ Olìm^uv la Dea, è riiaoala ila Peone. Enea, inieguito da
Diomeile, viene tratto in ulvo da Apollo Marte ìnroriggu i Trojani. Sarpedoitle uccide
Tlqvolemo. Prevalendo Kilore e Marte, Dòanede e eoitrctto a retrocedere. Giimone e Mi-
nerva diacendono a aoccorrerr i Greci. Diomede, iiligato-da Minerva, fèriace .Marte nel ventre.
Il Dio. mugghiando pei dulure. tale al cielo, e<t è ram{>ugnalo da Giove. Peooe niaiu la Mia
lirrila.
Allor Palla Minerva a LtiomeJe
P'orza infuse ccl .ardire, onde fra lutti
Gli Aelui splendesse glorioso c chiaro.
Lampi gli usciali dall’ elmo e dallo scudo
I)' incstinguibil fiamma, al tremolio
Simigliantc del vivo astro d'autunno,
Che lavalo uel mar splende più bello.
T.al mandava dal capo e dalle spalle
Diviii foco l’eroe^ quando la Diva
Lo sospinse nel mezzo, ove più densa
Ferve la misehia. Era fra’Teucri un certo
Darete, uom ricco c d’onoranza degno,
Di Vulcan sacerdote, e genitore
Di due prodi Ggliuoi mastri di guerra,
Fegéo nomati e Idèo. Precorsi agli altri,
Si f»!r costoro incontro a Diomede,
Essi sul cocchio, ed ci pedone : e a fronte
Divenuti cosi, scagliò primiero
La lung’asta Fegéo. L’asta al Tidide
J.ambi l’ómcro manco, e non l’olTcse.
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11-60 ILIADE, LIBRO V
Col ferrato suo cerro allor secondo
Mosse il Tidide: nè di mano indarno
11 telo gli fuggì; chè tra le poppe
Del nemico s’infisse, e dalla biga
Lo spiombò. Diede Ideo, visto quel colpo,
Un salto a terra , e in un col suo bel carro
Smarrito abbandonò la pia difesa
Dell’ucciso fratel. Nè avria schivato
Perciò la morte; ma Yulcan di nebbia
Lo rìcinse e servollo, onde non resti
Il vecchio padre desolato al tutto.
Tolse i destrieri il vincitore, e trarli
Da’ compagni li fece alle sue navi.
Visti i due figli di Darete i Teucri
L’un freddo nella polve e l’altro in fuga.
Turbarsi; e la glaucopide Minerva,
Preso per mano il fero Marte, disse:
O Marte, Marte, esizìoso Iddio,
Che lordo ir godi d’uman sangue c al suolo
Adeguar le città, non lasccrcmo
Noi dunque battagliar soli tra loro
Teucri ed Achei, qualunque sia la parte.
Cui dar la palma vorrà Giove? Or via,
Ritiriamci; evitiam l’ira del nume.
In questo favellar trasse la scaltra
L’impetuoso Dio fuor del conflitto,
E su la riva riposar lo fece
Dell’erboso Scamandro. Allora i Danai
Cacciar li Teuci^ in fuga; e ognun de’ duci
Un fuggitivo uccise. Agamennone
Primier riversa il vasto Hodio dal carro.
Degli Alizóni condottiero, e primo
Al fuggir. Gli piantò l’asta nel tergo,
E fuor del petto uscir la fece. Ei cadde
Romoroso, e sonar l’armi sovr’csso.
Dalla glcbosa Tarnc era venuto
Pesto, figliuol del Méonc Boro. Il colse
Idomcnéo coll’asta alla diritta
Spalla nel punto che salia sul carro.
Cadde il meschin d’orrenda notte avvolto,
Mosti. Iliade. 7
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9»
ILIADE
r. 6i*ioo
R i servi lo spogliai' d’ Idomcnéo.
L’Àtride Menelao di Strofio il figlio ,
Scamandrio , uccise, cacciator famoso,
Cui la stessa Diana ammaestrava
Le fere a saettar quante ne pasce
Montana selva: e nulla allor gli valse
La Diva amica degli strali, e nulla
L’ arte dell' arco. Menelao lo giunse
Mentre innanzi gli fugge, e tra le spalle
L'asta gli spinse, e trapassógli il petto.
Boccon cadde il trafitto, e cupamente
L'armi sovr'esso rimbombar s' udirò.
Prole del fabbro Àrmònide, Fercclo,
Da Merion fu spento. Era costui
Per tutte guise di lavoi'i industri
Maraviglioso , e a Pallade Minerva
Caramente diletto. Opra fur sua
Di Paride le navi, onde principio
Ebbe il danno de'Teucri c di lui stesso.
Perché i decreti degli Dei non seppe.
L’inseguì, lo raggiunse, lo percosse
Nel destro clune Merìone, e sotto
L’ osso vèr la vescica uscì la punta:
Gli mancàr le ginocchia, e guajolando
E cadendo il coprì di morte il velo.
Megc uccise Pedéo , bastarda prole
D’Anténorc, cui l’inclita Teano,
Gratificando al suo consorte, avea
Con molta cui'a nutricato al paro
Dei diletti suoi figli. Si fe sopra
A costui coll’acuta asta il Filide
Mcge, e alla nuca lo ferì. Trascorse
Tra i denti il ferro, e gli tagliò la lingua.
Così concio egli cadde, e nella sabbia
Fc tenaglia co’ denti al freddo acciaro.
Ipsénore, figliuol del generoso
Dolop'ion, scamandrio sacerdote
Riverito qual Dio, fugge davanti
Al chiaro germe d’Evemóne, Euripiio.
Euripilo l’ insegne^ c, via correndo,
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UBRO V
99
101-140
Tal gli cala su 1’ òmero un feudente,
Che il braccio gli recide. Sanguinoso
Casca il mozzo lacerto nella polve,
E la purpurea morte e il violento
Fato le luci gli abbujàr. Di questi
Tal nell’acerba pugna era il lavoro.
Ma di qual parte fosse Diomede,
Se trojano od acheo, mal tu sapresti
Discemere, sì fervido ei trascorre
Il campo tutto. Simile alla piena
Di tumido torrente, che, cresciuto
Dalle piogge di Giove, ed improvviso
Precipitando, i saldi ponti abbatte,
Debil freno alle fiere onde 4 e de’ verdi
Campi i ripari rovesciando, ingoja
Con fragor le speranze e le fatiche
De’ gagliardi coloni 4 a questa guisa
Sgominava il Tidide e dissipava
Le caterve de’Troi, che sostenerne
Non potean, benché molti, la mina.
Come Pàndaro il vide si furente
Scorrere il campo, e tutte a sé dinanzi
Scompigliar le falangi, alla sua mira
Curvò sulnto l’arco, e l’ irruente
Eroe percosse alla diritta spalla.
Entrò pel cavo dell’usbergo il crudo
Strale, e forollo, e il sanguinò. Coraggio,
Forte allora gridò l’inclito figlio
Di Licaon, magnanimi Trojani^
Stimolate i cavalli, ritornate
Alla pugna. Ferito é degli Achei
11 più forte guerrier: né credo ei possa
A lungo tollerar l’acerbo colpo,
Se vano feritor non mi sospinse
Qua dalla Licia il re dell’arco, Apollo.
Così gridava il vantator. Ma domo
Non restò da quel colpo Diomede ,
Che ritraendo il passo, e de’ cavalli
Coprendosi c del cocchio, al suo fedele
Capancide si rivolse, e disse:
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j,. i4i-i8o
Corri, Stcnelo mio^ scendi dal carro,
E dairómcro tosto mi divelli
Questo acerbo quadrel. — Diè un salto a terra
Sténelo , e corse, e l'aspro strai gli svelse
Dall'omero trafitto. Per la maglia
Dell'usbergo spicciava il caldo sangue,
E imperturbato sì 1' eroe pregava :
Invitta figlia dell' Egioco Giove ,
Se nell' ardenti pugne unqua a me fosti
Del tuo favor cortese e al mio gran padre.
Odimi, o Dea MInei-va, cd or di nuovo
M'assisti, e al tiro della lancia mia
Manda il mio fcritor: dammi ch'io spegna
Questo ventoso nebulon, che grida
Ch’io del Sol non vedrò più l’aurea luce.
Udì la Diva il prego, c a lui repente
E mani e piedi e tutta la persona
Agile rese; e, fattasi vicina
E manifesta, disse; Ti rinfranca,
Diomede, c co'Troi pugna sccuro;
Ch’ io del tuo grande gcnitor Tidéu
L’invitta gagliardia ti pongo in petto,
E la nube dagli occhi ecco ti sgombro.
Che la vista mortai t’appanna c grava,
Onde tu ben disccrna le divine
E fumane sembianze. Ove alcun Dio
Qui ti venga a tentar, tu con gli Eterui
Non cimentarti, no; ma se in conflitto
Vicn la figlia di Gio\c, Citeréa,
L’acuto ferro adopra, c la ferisci.
Sparve, ciò detto, la cerulea Diva.
AUor diò volta, c si mischiò tra’ primi
Combattenti il Tidi'de, a pugnar pronto
Più che prima d’ assai ; che in quel momento
Triplice in petto si sentì la forza.
Come lìon, che, mentre il gregge assalta,
Ferito dal pastor, ma non ucciso.
Vie più s’infuria, c superando tutte
Resistenze, si slancia entro l’ovile;
Derelitte, tremanti ed affollate
If i I -
LIBBO Y
101
p. i8t*a>o
L' una addosso dell'altra si riversano
Le pecorelle, ed ci vi salta in mezzo
Con ingordo furor^ tal dentro ai Teucri
Diede il forte Tidide. À prima giunta
Astinoo uccise ed Ipendr: trafisse
L'uno coll'asta alla mammella^ all'altro
La paletta dell' omero percosse
Con tale un colpo della grande spada,
Che gli spiccò dal collo c dalla schiena
L' òmero netto. Dopo questi addosso.
Ad Abante si spicca e a Puliido,
Figli del veglio interprete di sogni
Euridamante^ ma il meschin non seppe
NeUa lor dipartenza a questa volta
Divinarne il destina ch’ambi il Tidide
Li pose a morte, e li spogliò. Drizzossi
Quindi a Xanto e Faon, figli a Fenòpo,
Ambo a lui nati nell’età canuta.
In amara vecchiezza il derelitto
Genitor si struggea^ chè d’altra prole,
Cui sua reda lasciar, lieto non era.
Gli spense ambo il Tidide; c, lor togliendo
La cara vita, in aspre cure c in pianti
Pose il misero padre, a cui negato
Fu il vederli tornar dalla battaglia
Salvi al suo seno; c di lui morto in lutto
Ignoti credi si partir l’avere.
Due Pri'amidi, Cromio ed Echemòne ,
Veniano entrambi in un sol cocchio. A questi
S’avventò Diomede^ e col furore
Di lion, che una mandra al bosco assalta,
E di giovenca o bue frange la nuca;
Così mal conci entrambi il fier Tidide
PrecipitoUi dalla biga: e tolte
L’arme de’ vinti, a’ suoi sergenti ei dienne
I destrieri, onde trarli alla marina.
Come de’ Teucri sbarattar le file
Videlo Enea, si mosse, e per la folta
E fra il rombo dell’ aste discorrendo,
A cercar dicssi il valoroso c chiaro
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101
ILIADE
Figlio di Licaon, Pàndaro. Il trova;
Gli si apprescnta, c fa questo parale:
Pàndaro, dov’è l’arco? ove i veloci
Tuoi strali? ov’i la gloria, io che qui nullo
Teco gareggia, nè venin si vanta
Licio arcier superarti? Or su, ti sveglia;
Alza a Giove la mano; un dardo allenta
Contro costui, qualunque ei sia, che désta
Cotanta strage, e sì malmena i Teucri,
De’quai già molti e forti a giacer pose:
Se pur egli non fosse un qualche nume
Adirato ccm noi per obbliati
Sacri 6zi : e de’ numi acerba è l’ira.
Così d’Anchisc il figlio. E il figlio a lui
Di Licaonc: O delle teucre genti
Inclito duce, Enea, se quello scudo,
E quell’elmo a tre coni, e quei destrieri
Ben riconosco, colai parmi in tutto
11 forte Diomede. E nondimeno
Negar non l’oso un Immortal. Ma s’egli
È il mortale, ch’io dico, il bellicoso
Figliuolo di Tidèo, tanto furore
Non è senza il favor d’un qualche iddio,
Che di nebbia i celesti òmeri avvolto
Stagli al fianco, e dal petto gli disvia
Le veloci saette. Io gli scagliai
Dianzi Un dardo, e lo colsi alla diritta
Spalla nel cavo del torace , e certo
D’ averlo mi credea sospinto a Fiuto.
Pur non lo spensi: c ir^to quindi io temo
Qualche nume. Non ho su cui salire
Or qui cocchio verun. Stolto! chè in serbo
Undici ne lasciai nel patrio tetto
Di fresco fatti e belli, e di cortine
Ricoperti , con due d’ orzo c di spelda
Ben pasciuti cavalli a ciascheduno.
E si, che il giorno eh’ io partii, gli eccelsi
Nostri palagi abbandonando, il veglio
Guerriero Licaon molti nc dava
Prudenti avvisi, c mi facea precetto
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LIBRO V
io3
. lSl-3oo
Dì guidar tempre mai montato in cocchio
Le trojane coorti alla battaglia.
Certo era meglio l’obbedir^ ma, folle!
Noi feci, ed ebbi ai corridor riguardo,
Temendo che, assueti a largo pasto.
Di pasto non patissero difetto
In racchiusa città. Lasciàili adunque,
E pedon venni ad Ilio, ogni fidanza
Posta nell’ arco, che giovarmi poscia
Dovea sì poco. Saettai con questo
Due de’ primi, l’Àtrìde ed il Tidide,
E ferii l’uno e l’altro, e il vivo sangue
Ne trassi io, sì, ma n’attizzai più l’ira.
In mal punto spiccai dunque dal muro
Gli archi ricurvi il di che, al grande Ettorrc
Compiacendo, qua mossi, e de’Trojani
11 comando accettai. Ma se redire.
Se con quest’ occhi riveder m’è dato
La patria, la consorte e la sublime
Mia vasta reggia, mi recida ostile
Ferro la testa, se di propria mano
Non infrango, e non getto nell’ accese
Vampe quest’arco, inutile compagno.
E al borioso il duce Enea: Non dire.
No, questi spregi. Della pugna il volto
Cangerà, se ambedue sopra un medesmo
Cocchio raccolti aifronterem costui,
E farem delle nostre armi periglio.
Monta dunque il mio carro, e de’ cavalli
Di Troe vedi la vaglia, e come in campo
Per ogni lato sappiano veloci
Inseguire e fuggir. Questi (se avvegna
Che il Tonante di nuovo a Diomede
Dìa dell’ armi l’onor), questi trarranno
Salvi noi pure alla cittade. Or via.
Prendi tu questa sferza e queste briglie^
Ch’ io de’ corsieri , per puguar , ti cedo
Il governo: o costui tu stesso affronta;
Chè de’ corsieri sarà mia la cura.
Si (riprese il figliuol di Licaone),
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ILUDE
Ticn tu le briglie, Enea^ reggi tu stesso
I tuoi cavalli, che la mano udendo
Del consueto auriga, il curvo carro
Meglio trarranno, se fuggir fia forza
Dal figlio di Tidco. Se lor vien manco
La tua voce, potrian per caso istrano
Spaventati adombrarsi, e senza legge
Aggirarsi pel campo, c a trarne fuori
Della pugna indugiar tanto, che il fero
Diomede n’assegua impetuoso.
Ed entrambi n’uccida, e via nc meni
1 destrieri di Troe. Resta tu dunque
Al timone e alle briglie^ chè coll’asta
Io del nemico sosterrò l’ assalto.
Montar, ciò detto, sull’adorno cocehio,
E animosi drizzar contro il Tidide
1 veloci cavalli. Il chiaro figlio
Di Capanéo li vide, ed all’amico
Volto il presto parlar; Tidide, ci disse.
Mio diletto Tidide, a pugnar teco
Veggo pronti venir due di gran nerbo
Valorosi gucrrier: l’uno, il famoso
Pàndaro arderò, che figliuol si vanta
Di Licaonc^ e l’altro, Enea, che prole
Vantasi el pur di Venere e d’Anchise.
Su, presto in cocchio^ riliriamci, e incauto
Tu non istarmi a furiar tra i primi
Con si gran rischio della dolce vita.
Bieco guatollo il gran Tidide, c disse;
Non parlarmi di fuga. Indarno tenti
Persuadermi una viltà. Fuggire
Dal cimento c tremar, non lo consente
La mia natura; ho forze integre, e sdegno
De’ cavalli il vantaggio. Andrò pedone,
Quale mi trovo, ad incontrar costoro;
Chè Pallade mi vieta ogni paura.
Ma non essi ambedue salvi di mano
Ci scappcran, dai rapidi sottratti
Lor corridori; ed avveiTÙ, che appena
Nc scampi un solo. Un altro avviso ancora
». 34i.38o U»«0 3T I o5
Vo' dirti, e tu non l’obbtiar. Se fia
Che l'alto onore d' atterrarli entrambi
La prudente Minenra mi conceda,
Tu per le briglie allora i miei cavalli
Lega all' anse del cocchio, e ratto vola
Ài cavalli d'Enea, e dai Trojani
Via te li mena fra gli Achei. Son essi
Della stirpe gentil di quei che Giove,
Prezzo del figlio Ganimede, un giorno
A Troe donava^ nè miglior destrieri
Vede l'occhio del Sole c dell'Aurora.
Al re Laomedonte il prence Ànchise
La razza ne furò, soppostc ai padri
Segretamente un di le sue puledre ,
Che di tale imeneo sei generosi
Corsicr gli partorirò. Egli n'impingua
Quattro di questi a sè nel suo presepe,
E due ne cesse al figlio Enea, superbi
Cavalli da battaglia. Ove n'avvegna
Di predarli, n'avremo immensa lode.
Mentre scguian tra lor queste parole.
Quelli incitando i corridoi’ veloci
Tosto appressarsi, e Pàndaro primiero
Favellò: Bellicoso ardito figlio
Dell’illustre Tidéo, poiché l’acuto
Mio strai non ti domò, vengo a far prova
S’io di lancia ferir meglio mi sappia.
Cosi detto, la lunga asta vibrando,
Fulminolla, e colpì di Diomede
Lo scudo sì, che la ferrata punta
Tutto passollov, e ne sfiorò l’usbergo.
Sci ferito nel fianco (alto allor gi-ida
L'illustre fcritor)^ nè a lungo, io spero.
Vivrai: la gloria, che mi porti, è somma -
Errasti, o folle, il colpo (imperturbato
Gli rispose l'eroe)^ ben io m’avviso.
Ch’uno almeno di voi, pria di ristarvi
Da questa zufia, nel suo sangue steso
L’ ira di Marte sazier<à. Ciò detto.
Scagliò. Minerva ne diresse il telo,
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loG ILIADE ». 38l 4»
E a lui, che curvo lo sfoggia, caccioUo
Tra il naso e il ciglio. Pcnelrii l'acuto
Ferro tra’ denti, ne tagliò l’estrema
Lingua, e di sotto al mento uscì la punta.
Piombò dal cocchio, gli tonàr sul petto
L’armi lucenti, sbigottir gli stessi
Cavalli, e a lui si sciolsero per sempre
E le forze e la vita. Enea, temendo
In man non caggia degli Achei l’ucciso.
Scese ^ e, protesa a lui l’asta e lo scudo,
Giravagli dintorno a simiglianza *
Di 6er bone in suo valor sicuro;
E parato a ferir qual sia nemico.
Che gli si accosti, il difendea, gridando
Orribilmente. D^è di piglio allora
Ad un enorme sasso Diomede
Di tal pondo, che due noi porterebbero
Degli uomini moderni; ed ei, vibrandolo
Agevolmente, e solo e con grand’impeto
Scagliandolo, percosse Enea nell’osso.
Che alla coscia s’innesta, ed è nomato
Ciotola. Il fracassò l’aspro macigno
Con ambi i nervi, e ne stracciò la pelle.
Diò del ginocchio al grave colpo in terra
L’eroe ferito, e colla man robusta
Puntellò la persona. Un negro velo
Gli coperse le luci; e qui pena.
Se di lui tosto non si fosse avvista
L’alma figlia di Giove, Citeréa,
Che d’Anchise pastor l’avea concetto.
Intorno al caro figlio ella dHTuse
Le bianche braccia, c del lucente peplo
Gli antepose le falde, onde dall’armi
Ripararlo, e impedir che ferro acheo
Gli passi il petto, e l’anima gl’ involi.
Mentj-c al fiero conflitto ella sottraggo
Il diletto figliuola Stendo, il cenno
Membrando dell’amico, uc sostiene
In disparte i cavalli; c, prestamente
All’ anse della biga avviluppate
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LIBIO V
r. 4*1*4^
Le redini, s’avventa ai ben chiomali
Corridori d’Enea; di mezzo ai Teucri,
Agli Achivi li spinge, ed alle navi
Spedisceli fidati al dolce amieo
Deipilo, cui sopra ogni altro eguale.
Perchè d’alma conforme, in pregio ei tiene.
Esso intanto 1’ eroe Gapaneidc ,
Rimontato il suo cocchio, e in man riprese
Le rilucenti briglie, allegramente
De’ cavalli sonar l’ugna facea
Dietro il Tidide, che coll’empio ferro
L’alma Venere insegue, la sapendo
Non una delle Dee, che de’ mortali
Godon le guerre amministrar, siccome
Minerva e la di mura attcrratrice
Torva Bellona, ma nn’ imbelle Diva.
Poiché raggiunta per la folta ei l’ebbe.
Abbassò l’asta il fiero, e coll’acuto
Ferro l’assalse, e della man gentile
Gli estremi le sfiorò verso il confine
Della palma. Forò l’asta la cute.
Rotto il peplo odoroso a lei tessuto
Dalle Grazie, e fluì dalla ferita
L’icóre della Dea, sangue immortale,
Qual corre de’ Beati entro le vene^
Ch’essi, nè fnitto cercai gustando.
Nè rubicondo vino, esangui sono,
E quindi han nome d’immortali. Al colpo
Died’ella un forte grido, c dalle braccia
Depose il figlio, a cui difesa Apollo
Corse tosto, e l’ascose entro una nube.
Onde camparlo dall’achee saette.
Il bellicoso Diomede intanto !
Cedi, figlia di Giove, alto gridava;
Cedi il piè dalla pugna. E non ti basta
Sedur d’imbelli femminette il core^
Se qui troppo t’avvolgi, io porto avviso.
Che tale desteraRi orror la guerra ,
Ch’anco il sol nome ti darà paura.
Disse ; ed ella turbata ed affannosa
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I08 ILUDE ,
Partiva. La veloce Iri per mano
La prese, la tirò fuor del tumulto
Carca di doglie e livida le nevi
Della morbida cute. Alla sinistra
Della pugna seduto il fui'ibondo
Marte trovò: la grande asta del Nume
E I veloci corsier cingea la nebbia.
Gli abbracciò le ginocchia, supplicando.
La sorella, c gridò: Caro fratello,
Miscrcre di me^ dammi il tuo cocchio,
Ond' io salga alf Olimpo. Assai mi crucia
Una ferita che mi feo la destra
D'un ardito mortai, di Diomede,
Che pur con Giove piglieria contesa.
Sì pregai c Marte i bei destricr le cede.
Sali sul cocchio allor la dolorosa.
Salì al suo fianco la Taumanzia figlia^
E, in man tolte le brìglie, a tutto corso
I cavalli sferzò, che desiosi
Volavano. Arrivar tosto all’Olimpo,
Eccelsa sede degli Eterni. Quivi
Arrestò la veloce Iri i corsieri.
Li disciolsc dal giogo , c ristorolli
D' immortai cibo. La divina intanto
Venere al piede si gittò dell’alma
Genitrice Dì'ona, clic la figlia
Raccogliendo al suo seno, e colla mano
La carezzando c interrogando: Oli! disse.
Oh! chi mai de’ Celesti si permise.
Amata figlia, in te sì grave oiTesa,
Come rea di gran fallo alla scoperta?
II superbo Tidide Diomede,
Rispose Citeréa, l’empio fcrimmi
Perchè il mio figlio , il mio sovra ogni cosa
Diletto Enea sottrassi dalla pugna.
Che pugna non è più di Teucri e Achivi,
Ma d’ Achivi c di numi. — E a lei D'iona ,
Inclita Diva, replicò: Sopporta
In pace, o figlia, il tuo dolor; che molti
Degl’Immortali con alterno danno
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LIBRO V
V 5oi-54o
Molte soilrimmo dai mortali oflese.
Le sofirl Marte il dì, ehe gli Aloidi,
Oto e il forte Efialte, Tannodaro
D'aspre catene. Un anno avvinto e un mese
In carcere di ferro egli si stette^
E forse vi peria, se la leggiadra
Madrigna Eeribéa noi rivelava
Al buon Mercurio, che di là furtivo
Lo sottrasse , già tutto per la lunga
E dolorosa prigionia consunto.
Le soilri Giuno allor che il forte figlio
D'Anfitrione con trisulco dardo
La destra poppa le piagò sì, ch'ella
D'alto duol ne fu cólta. Anco il gran Pluto
Dal medesmo mortai figlio di Giove
Aspro soflerse di saetta un colpo
Là su le porte dell’Inferuo; c tale
Lo conquise un dolor, che lamentoso
E con lo strai ne' duri omeri infisso,
All’Olimpo sen venne, ove Peone,
Di lenitivi farmaci spargendo
La ferita, il sanò; che sua natura
Mortai non era; ma ben era audace
E scellerato il fcritor, che d’ogni
Nefario fatto si fea beffe, osando
Fin gli abitanti saettar del cielo.
Oggi contro te pur spinse Minerva
11 figlio di Tidéo. Stolto ! chò seco
Punto non pensa, che son brevi i giorni
Di chi combatte con gli Dei: nò babbo
Lo chiameran tornato dalla pugna
I figlioletti al suo ginocchio avvolti.
Benché forte d’assai, badi il Tididc,
Gh’un più forte di tc seco non pugni;
Badi, che l’Adrastina Egìalca,
Di Diomede generosa moglie.
Presto non debba risvegliar dal sonno.
Ululando, i famigli, c il forte Aclico
Plorar, che colse il suo virginco fiore.
In questo dir con ambedue le palme
109
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1 iO
lUÀDE ,
La man le asterse dal rappreso icóre,
E la man si sanò, queta ogni doglia.
Riser Giuno e Minerva a quella vista;
E con amaro motteggiar la Diva
Dalle glauche pupille il genitore
Così prese a tentar: Padre, senz’ira
Un fiero caso udir vuoi tu? Ciprigna,
Qualche leggiadra Achea sollecitando
A seguir seco i suoi Teucri diletti.
Nel carezzarla ed acconciarle il peplo,
A un aurato ardiglione, ohimè! s’ù punta
La dilicata mano. Il sommo Padre
Grazioso sorrise; c a sé chiamata
L’aurea Venere: Figlia, le dicea.
Per te non sono della guerra i fieri
Studi, ma 1’ opre d’ Imeneo soavi.
A queste intendi ; ed il pcnsier dell’ armi
Tutto a Marte lo lascia ed a Minerva.
Mentre in cielo seguian queste favelle.
Contro il figlio d’Anchise il bellicoso .
Diomede si spinge, nè l’arresta
n saper, che la man d’ Apollo il copre.
Desioso di porre Enea sotterra,
E spogliarlo dell’ armi peregrine.
Nulla ei rispetta un si gran Dio. Ti-e volte
A morte l’assali, tre volte Apollo
Gli scosse in fàccia il luminoso scudo.
Ma come il forte Calidonio al quarto
Impeto venne, il saettante nume
Terribile gridò: Guarda che fai;
•Via di qua, Diomede: il paragone
Non tentar degli Dei; chè de’ Celesti
E de’ terrestri è disugual la schiatta.
Disse; c alquanto l’eroe ritrasse il piede
L’ira evitando dcll’arcicro Apollo,
Che, fuor condotto della mischia Enea,
Nella sacrata Pèrgamo fra l’arc
Del suo delubro il pose. Ivi Latoiia,
Ivi l’amante dello strai. Diana
Lo curàr, l’onoraro. Intanto Apollo
541*580
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58i-6io
LIBRO V
Formò di tenue nebbia una figura
In sembianza d’Enea^ d'Enea le finse
L’armi, e dintorno al vano simulacro
Teucri ed Achei facean di targhe e scudi
Un alterno spezzar, che intorno ai petti
Orrendo risonava. Àllor si volse
Al Dio dell’ armi il Dio del giorno, e disse
Eversor di città, Marte omicida.
Che sol nel sangue esulti, e non andrai
Ad aggredir tu dunque, a cacciar lungi
Questo altiero mortai, questo Tididc,
Che alle mani verna con Giove ancora?
Egli assalse e feri prima Ciprigna
Al carpo della mano; indi avvcntossi
A me medesmo coll’ ardir d’un Dio.
Si dicendo, s’ assise alto sul culmo
Della pergàmea ròcca; e il rovinoso
Marte sen corse a concitar de’ Teucri
Le schiere; e preso d’Acamante il volto,
D’Acamante de’Tracj esimio duce,
CoA prese a spronar di Pnamo i figli :
Illustri Priamidi, e sino a quando
Permetterete della vostra gente
Per la man degli Achei si rio macello?
Sin tanto forse che la strage arrivi
Alle porte di Troja? A terra è steso
L’eroe, che al pari del divino Ettorre
Onoravamo, Enea, preclaro figlio
Del magnanimo Anchisc. Andiam; si voli
Alla difesa di cotanto amico.
Destar la forza e il cor d’ogni guerriero
Queste parole. Sarpedon, con aspre
Rampogne allora rabbuffando Ettorre:
Dove andò , gli dicea , l’ alto valore ,
Che poc’anzi t’avevi? E pur t’udimmo
Vantarti che tu sol senza l’ aita
De’ collegati , e co’ tuoi soli affini
E co’fratei bastavi alla difesa
Della città. Ma ninno io qui ne veggo,
Niun ne ravviso di costor; che tutti
1 12
ILUOB
V. 6ii456o
Trepidanti s’arretrano siccome
Timidi veltri intorno ad un leone;
E qui frattanto combattiam noi soli,
Noi venuti in sussidio, lo, clie mi sono
Pur della lega, di lontana al certo
Parte mi mossi, dalla licia terra.
Dal vorticoso Xanto, ove la cara
Moglie ed un figlio pargoletto e multi
Lasciai di quegli averi, a cui sospira
L’uomo mai sempre bisognoso. E pure
Alleato qual sono, i miei guerrieri
Eisorto alla battaglia; ed io medesmu
Sto qui pronto a pugnar centra costui.
Benché qui nulla io m’abbia che il nemico
Rapir mi possa, nè portarlo seco.
E tu ozioso ti ristai? nè almeno
Agli altri accenni di far fronte, c in salvo
Por le consorti? Guardati, che presi.
Siccome in ragna, che ogni cosa involve,
Non divenghiatc del crudel nemico
Cattura e preda, e ch’ei tra poco al suolo
La vostr’alma cittade non adegui.
A te tocca l’aver di ciò pensiero
E giorno e notte, a te dell’alleanza
I capitani supplicar, che fermi
Resistano al lor posto, e far che niuna
Gagion più sorga di rampogne acerbe.
D’Ettore al cor fu morso amaro il detto
Di Sarpedontc si, che tostò a terra
Saltò dal cocchio in tutto punto; e l’asta
Sentendo, ad animar corse veloce
D’ogni parte i Trojani alla battaglia,
E destò mischia dolorosa. Allora
Voltar la fronte i Teucri, e impetuosi
Pèrsi incontro agli Achei, che stretti insieme
Gli aspettar di piè fermo c senza tema.
Come allor che di Zefii'o lo spiro
Disperde per le sacre ajc la pula.
Mentre la bionda Cerere la scevra
Dal suo frutto gentil, che il buon villano
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LIBRO V
V. 661-700
Vien ventilando^ lo Icggier spulezzo
Tutta imbianca la parte, ove del vento
Lo sospinge il soffiar^ così gli Àehivi
Inalbava la polve al cielo alzata
Dall' ugna de’ cavalli entrati allora
Sotto la sferza degli aurigfai in zuffa.
Diblati portavano i Trojani
Il valor delle destre, e furioso
Li soccorrea Gradivo, discorrendo
Il campo tutto , e tutta di gran bnjo
Là battaglia coprendo. E sì di Febo
I precetti adempia, di Febo Apollo
D’aurea spada precinto, che comando
Dato gli avea d’accendere ne’ Teucri
L’ardimento guerrier, vista partire
L’ajutatrice degli Achei, Minerva.
Fuori intanto de’pingui aditi sacri
Enea messo da Febo, e per lui tutto
Di gagliardia ripieno, apprcsentossi
A’ suoi compagni, che gioir, vedendò
Vivo c salvo il guerriero c rintegrato
Delle pristine forze. Ma gravarlo
D’ alcun dimando il fier noi consentia
Lavor dell’ armi, che dell’arco il divo
Sire eccitava, c l’omicida Marte,
C la Discordia ognor furente e pazza.
D’altra parte gli Ajaci e Diomede
E il re Dulichio anch’ essi alla battaglia
Raccendono gli Achei già per sè stessi
Nè la furia tementi nè le grida
Dc’Dàrdani, ma fermi ad aspettarli.
Quai nubi, che de’ monti in su la cima
Immote arresta di Saturno il figlio
Quando l'aria è tranquilla e il furor dorme
Degli Aquiloni b d’altro impetuoso
Di nubi fugator vento sonoro^
Di piè fermo così, senza veruno
Pensier di fuga, attendono gli Achivi
De’Trojani l’assalto. E Agamennone,
Per le file scorrendo, e molte cose
Morti. Iliade.
8
ii4
ILIADE
0. 701.7 '|0
D’ogni parte avvertendo: Àmie!, ei grida,
Uomini siate, e di cor forte; e ognuno
Nel calor della pugna il guardo tema
Del suo compagno. De'guerrier, che infiamma
Generoso pudore, i salvi sono
Più che gli uccisi; chi rossor di fuga
Non sente, ha persa coll'onor la forza.
Scagliò Pasta, ciò detto; ed un guerriero
Percosse de' prima!, commilitone
Del magnanimo Enea, Deicoonte,
Di Pérgaso figliuol, tenuto in pregio
Dai Teucri al paro che di Priamo i figli ,
Perché presto a pugnar sempre tra’ primi.
Colpillo Atride nell’opposto scudo.
Che difesa non fece. Trapassollo
Tutto la lancia, e per lo cinto all’imo
Ventre discese. Strepitoso ei cadde,
G l’armi rimbombar sovra il caduto.
Enea diè morte di rincontro a due
Valentissimi, Orsiloco e Cretonc,
Figli a Didcle, della ben costrutta
Città di Fere un ricco abitatore.
Scendea costui dal fiume Alféo, che largo
La pitia terra di bell’ acque inonda;
Alféo produsse Orsiloco, di molte
Genti signore , Orsiloco Didcle,
E Didcle costor, mastri di guerra
D’un sol parto acquistati. Aveano entrambi.
Già fatti adulti, navigato a Troja
Per onor degli Atridi, c qui la vita
Entrambi terminar. Quai due leoni.
Cui la madre sul monte entro i recessi
D’alto speco educò, fan ruba c guasto
Delle mandre, de’ greggi e delle stalle.
Finché dal ferro dc’pastor raggixmti
Caggiono aiicb’essi; e tali allor dall’asta
D’Enea percossi caddero costoro
Col fragor di recisi eccelsi abeti.
Strinse pietà dei due caduti il petto
Del prode Menelao, che tosto innanzi
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LIBRO V
V. 7^1-780
Si spinse di lucenti armi vestito,
L’asta squassando. E Marte, che domarlo
Per man d’Enea fa stima, il cor gli attizza.
Del magnanimo Nèstore il buon figlio ,
Antiloco, osscrvollo^ e, un qualche danno
Paventando aH’Àtride, un qualche grave
Storpio all’impresa degli Achei, processe
Nell’ antiguardo. Già s’ aveano incontro
Abbassate le picche i due campioni
Pronti a ferir, quando d’AtriJe al fianco
Antiloco comparve: e di due tali
Viste le forze in un congiunte, Enea,
Benché prode guerriero, retrocesse.
Trassero questi tra gli Achei gli estinti
Orsiloco e Cretene; c d’ ambedue
Le miserande spoglie in man depostc
Degli amici, dier volta, e nella pugna
Novellamente si mischiar tra’ primi.
Fu morto il duce allor de’ generosi
Scudati Paflagoni, il marziale
Pilemene. Il ferì d’asta alla spalla
L’Atride Menelao. Lo suo sergente
Ed auriga, Midon, gagliai-do figlio
D’Antimnio, cadde per la man d’Antiloco.
Dava questo Midon , per via fuggirsi ,
La volta al cocchio. Antiloco nel pieno
Del cubito il ferì con tale un colpo
Di sasso, che gittógli al suol le belle
Eburnee briglie. Gli fu tosto sopra ■
11 feritor col brando, e su la tempia
D’ un dritto l’ attastò , che giù dal carro
Lo travolse , e ficcdgli nella sabbia
Testa e spalle. Anelante in quello stato
Ei restassi gran pezza, chè profondo
Era il sabbion , finché i destrier del tutto
Lo riversàr calpesto nella polve.
Diè lor di piglio Antiloco, c veloce
Col flagello li spinse al campo acheo.
Com’Ettore di mezzo all’ ordinanze
Vide lor prove, impetuoso mosse
I i5
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6
ILUDE
781-820
Con alte grida ad investirli , e dietro
De’ Teucri si traea le forti squadre,
Cui Marte è duce e la feral Bellona.
Bellona in compagnia vien dell’orrendo
Tumulto della zuila; e Marte in pugno
Palleggia un’asta smisurata, e or dietro,
Or davanti cammina al grande Ettorre.
Turbassi a quella vista il bellicoso
Tidide; e quale della strada ignaro
Vi'ator, che, trascorsa un’ampia landa.
Giunge a rapido fiume, che muggbiantc
L’onda nel mar devolve, c, visto il flutto
Che freme e spuma , di fuggir s’ aflretta ,
L’orme sue ricalcando^ a questa guisa
Retrocesse il Tidide, c al suo drappello
Volgendo le parole: Amici, ei disse.
Qual fia stupor se forte d’asta c audace
Combattente si mostra il duce Ettorre?
Sempre al fianco gli viene un qualche iddio,
Che alla morte l’invola: ed or lo stesso
Marte in sembianza d’un mortai l’assiste.
Non vogliate attaccar dunque co’ numi
Ostinata contesa, e date addietro.
Ma col viso ognor vólto all’ inimico.
Mentr’egli sì dicca, scagliarsi i Teucri
Addosso alla sua schiera. E quivi Ettorre
A morte mise due guerricr, nell’ armi
Assai valenti e in un sol cocchio ascesi,
Anchìalo c Mcneste. Ebbe di loro
Pictade il grande Telamonio Ajace,
E fòssi avanti e stette, e la lucente
Asta lanciando, Anfio colpì, che figlio
Di Selago tcnea suo seggio in Peso ,
Ricco d’ampie campagne. Ma la nera
Parca ad Ilio il menò confederato
Del re Trojano e de’ suoi figli. 11 colse
Sul cinto il lungo telamonio ferro,
E nell’imo del ventre si confisse.
Diè cadendo un rimbombo, e a dispogliselo
Corse l’illustre vincitore ma un nembo
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V. B»i-8fio L'»»0 V 117
I Trojaui piovean di frecce acute ,
Che d’irta selva gli coprir lo scudo.
Ben egli al morto avvicioossi, e il petto
Calcandogli col piè, la fulgid’asta
Ne sferrò; ma dall’ omero le belle
Armi rapirgli non poteo: sì densa
La grandine il premea delle saette.
E temendo l’eroe noi circuisse
De’Trojani la piena, che ristretti
Erano e molti e poderosi, e tutti
Con armi d’ogni guisa e d’ogni tiro
Ad incalzarlo, a repulsarlo intesi,
Ei, benché forte e di gran corpo c d’alto
Ardir, diè volta, e si ritrasse addietro.
Mentre questi alle . mani in questa parte
Si travaglian così, nemico fato
Contra l’illustre Sarpedon sospinse
L’Elraclide Tlepdlemo, guerriero
Di gran persona e di gran possa. Or come
A fronte si trovàr quinci il nepote
E quindi il figlio del Tonante Iddio,
Tlepdlemo primiero così disse:
Duce de’Licj , Sarpedon, qual uopo
Rozzo in guerra a tremar qua ti condusse?
È mentitor chi dell’ Egioco Giove
Germe ti dice. Dal valor dei forti.
Che nell’andata età nacquer di lui.
Troppo lungi se’ tu. Ben altro egli era
II mio gran genitor, forza divina.
Cuor di leone. Qua venuto un giorno
A via menar del re Laomedonte
I promessi destrieri, egli con sole
Sei navi e pochi ai'mati Ilio distrusse,
E vedovate ne lasciò le vie.
Tu sei codardo, tu a perir qui traggi
I tuoi soldati, tu veruna aita.
Col tuo venir di Licia, non darai
Alla dardania gente; c quando pure
Un gagliardo ti fossi, il braccio mio
Qui stenderatti e spingeratti a Fiuto.
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I 1 3 ILIADE
E di rimando a lui dc'Licj il duce:
Tlcpólemo, le sacre iliache mura
Ercole, è ver, distrusse, e la scempiezza
Del frigio sire il meritò, che ingrato
Al beneficio con acerbi detti
Oltraggiollo, e i destrieri, alta cagione
Di sua venuta, gli negò. Ma i vanti
Patemi non torran che la mia lancia
Qui non ti prostri. Tu morrai: son io
Che tei p<redico^ e a me l’onor qui tosto
Darai della vittoria, c Palma a Fiuto.
Ciò detto appena, Sollcvaro in alto
1 ferrati lor cerri" ambo i guerrieri ,
Ed ambo a un tempo gli scagliar. Percosse
Sarpedontc il nemico a mezzo il collo
Si che tutto il passò Pasta crudele,
E a lui gli occhi coperse eterna notte.
Ma il telo uscito nel medesmo istante
Dalla man di Tlepòlemo, la manca
Coscia ferì di Sarpedon. Passolla
Infino alP osso la fulminea punta ,
Ma non diù morte^ chò vietollo il padre.
Accorsero gli amici , c dal tumulto
Sotti-asscro l’eroe, che del confitto
Telo di molto si dolca, nò niente
V’avea posto verun, nè s’ avvisava
Di sconficcarlo dalla coscia offesa.
Onde espedime il camminar: tant’era
Del salvarlo la fretta e la faccenda.
Dall’altra parte i coturnati Achei •
Di Tlcpólemo anch’essi dalla pugna
Ritraggono la salma. Al doloroso
Spettacolo la forte alma d’ Ulisse
Si commosse altamente^ c in suo pensiero
Divisando ne vien, s’ci prima insegua
Di Giove il figlio , o più gli tomi il darsi
Alla strage dc’Licj. Alla sua lancia
Non concedean le Parche il pon-e a morte
Del gran Tonante il valoroso seme.
Scagliasi ci dunque, da Minerva spinto,
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¥. LIBRO V ^ ^9
Nella folta de'Licj, e quivi uccide
L’un sovra l’altro Àlastore, Cerano,
Cromio, Pritani, Alcandro e Noemone
Ed Alio: e più n’avria di lor prostrati
Il divino guerrier, se il grande Ettorre
Di lui non s’accorgea. Tra i primi ci dunque
Processe di corrusche armi splendente,
E portante il terror ne’ petti argivi.
Come il vide vicin, fc lieto il core
Sarpedonte, c con voce lamentosa :
Generoso Pri'amidc, dicea.
Non lasciarmi giacer preda al nemico ;
Mi soccorri, e la vita m’abbandoni
Nella vostra città , poiché m’ è tolto
Il tornarmi al natio dolce terreno ,
E d’allegrezza spargere la mia
Diletta moglie e il pargoletto figlio.
Non rispose l’eroe; ma desioso
Di vendicarlo e ricacciar gU Achivi
Colla strage di molti, oltre si spinse. ,
In questo mezzo la pietosa cura
De’ compagni adagiò sotto un bel faggio,
A Giove sacro , Sarpedonte, e il telo
Dalla piaga gli svelse il valoroso *
Diletto amico Pelagon. Nell’opra
Svenne il ferito, e s’annebbiò la vista:
Ma l’ aura borea!, che fresca intorno
Ventavagli, tornò nc’ primi uffici
Della vita gli spirti, e nell’anelo
Petto affannoso ricrcógli il core.
Da Marte intanto e dall’ardente Ettorre
Assaliti gli Achei, nè paurosi
Verso le navi si fuggian, né arditi
Farsi innanzi sapean. Ma quando il grido
Corse tra lor che Marte era co’ Teucri,
Indietro, si piegar sempre cedendo.
Or chi prima, chi poi fu l’abbattuto
Dal ferreo Marte e dall’audace EttoiTc?
Teatrante, che sembianza avea d'un Dio,
L’agitatore di cavalli Oreste,
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30 ILIADE ,>.
Il vibrator di lancia Etolio Treco,
E r Enopide Eléno , cd Enomào ,
E d’armi adorno di color diverso
Oresbio, che a far d’oro alte conserve
Posto il pensier , tenea suo seggio in Ila
Àppo il Iago Ceiìsio , ov’ altri assai
Opulenti Beozi avean soggiorno.
Tale e tanta d’Àchivi occisione
Giuno mirando , a Pallade si volse ,
E con preste parole : Ohimè ! le disse ,
Invitta figlia dell’ Egioco Giove ,
Se libera lasciam dell’ omicida
Marte la furia , indarno a Menelao
Noi promettemmo dell’ iliache torri
La caduta, e felice il suo ritorno.
Or via , scendiamo , e di valor noi pure
Facciam prova laggiù. Disse ^ e Minerva
Tenne l’invito. Àllor la veneranda
Saturnia Giuno ad allestir veloce
Corse i d’ oro bardati almi destrieri.
Immantinente al cocchio Ebe le curve
Ruote innesta. Un ventaglio apre ciascuna
D’otto raggi di bronzo , e si rivolve
Sovra l’asse di ferro. Il giro è tutto
D’ incorruttibil oro, ma. di bronzo
Le salde lame de’ lor cerchi estremi.
Maraviglia a veder! Son puro argento
I rotondi lor mozzi , e yergolate
D’ argento e d’ ór del cocchio anche le cinghie
Con ambedue dell’orbe i semicerchi,
A cui sospese consegnar le guide.
Si dispicca da questo e scoitc avanti
Pur d’ argento il timone , in cima a cui
Ebe attacca il bel giogo e le leggiadre
Pettiere^ c queste parimenti c quello
D' auro sono contesti. Desiosa
Giuno di zuffe e del rumor di guerra ,
Gli alipedi veloci ai giogo adduce.
Nè Minerva s' indugia. Ella , diffuso
II suo peplo immortai sul pavimento
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r. 981-1010 LIBRO V 12 1
Delle sale paterne, effigio
Peplo , stupendo di sua man lavoro ,
E vestita di Giove la corazza,
Di tutto punto al lagrimoso ballo
Armasi. Intorno agli dmeri divini
Pon la rieca di flocchi Egida orrenda ,
Che il Terror d' ogn’ intorno incoronava.
Ivi era la Contesa, ivi la Forza,
Ivi l’ atroce Inseguimento , e il diro
Gorgonio capo , orribile prodigio
Dell’ Egioco signore. Indi alla fronte
L’aurea celata impone, irta di quattro
Eiceelsi coni, a ricoprir bastante
Elserciti e città. Tale la Diva
Monta il fulgido cocchio, c 1’ asta impugna
Pesante , immensa , poderosa , und’ ella
Intere degli croi le squadre atterra.
Irata figlia di potente iddio.
Giuno, al governo delle briglie, affretta
Col flagello i corsieri. Cigolando ,
Per sè stesse s’ aprir l’ eteree porte
Custodite dall’ Ore , a cui commessa
Del gran cielo è la cura e dclf Olimpo ,
Onde serrare e disserrar la densa
Nube, che asconde degli Dei la sede.
Per queste porte dirizzar le Dive
I docili cavalli, e ritrovare
Scevro dagli altri Sempiterni e solo
Su l’alta vetta dell’Olimpo assiso
Di Saturno il gran figlio. Ivi i destrieri
Sostò la Diva dalle bianche braccia,
E il supremo de’ numi inten-ogando :
Giove padre , gli disse , e non ti prende
Sdegno de’ fatti di Gradivo atroci ?
Non vedi quanta e quale il furibondo
Strage non giusta degli Achei commette?
Io ne son dolorosa : e queli intanto
Si letiziano Apollo e Giteréa ,
Essi , che questo d’ ogni legge schivo
Forsennato aizzar. Padre, s’io scendo
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I 23
ILIADE
ioai-ioC(j
A rintuzzar l'audace, a discacciarlo
Dalla pugna , n' andrai tu meco in ira ?
Va, le rispose delle nubi il sire^
Spingi coulra costui la predatrice
Minerva, a farlo assai dolente usata.
Di ciò lieta la Dea fe su le groppe
De' corsieri sonar la sferza ^ e quelli
Infra la terra e lo stellato cielo
Desiosi volaro^ e quanto vede
D’aereo spazio un uom, che in alto assiso
Stende II guardo sul mar, tanto d’un salto
Ne varcàr delle Dive i tempestosi
Dcslrier. Là giunte , dove l’ onde amiche
Confondono davanti all'alta Troja
Simocnta c Scamaiidi'o , ivi rattenne
Giuno i cavalli, gli staccò dal cocchio ,
E di nebbia li cinse. Il Simocnta
Loro un pasco forni d’ ambrosie erbette.
Tacite allora, e col leggiero incesso
Di timide colombe, ambe le Dive
Appropinquàrsi al campo acheo, bramose
Di dar soccorso ai copibattcnti. E quando
Arrivàr dovè molti e valorosi ,
Come stool dì cinghiali o di li’oni.
Si stavano ristretti intorno al forte
Figliuolo di Tidéo ,‘ presa la forma
Di Stèntorc , che voce avea di ferro , .
E pareggiava di cinquanta il grido ,
Giuno sciamò : Vituperati Argivi ,
Mere apparenze di valor , vergogna !
Finché mostrossi in campo la divina
Fronte. d’Achille , non fur osi i Teucri
Scostarsi mai dalle dardanie porte :
Cotanto di sua lancia era il terrore.
Or lungi dalle mura insino al mare
Vengono audaci a cimentar la pugna.
Si dicendo , svegliò di ciascheduno
E la forza e l'ardir. Sorgiunse In questa
La cerula Minerva a Diomede ,
Cb’appo II carro la piaga j onde 1’ offese
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■IlOO
LtBKO V
Di Pindaro lo strai, refrigerava^
E colla stanca destra sollevando
Dello scudo la soga tutta molle
Di molesto sudor , tergea del negro
Sangue la tabe. Colla man posata
Sul giogo de' corsier , la Dea sì disse ;
Tidéo per certo generossi un figlio,
Che poco lo somiglia. Era Tidéo
Picciol di corpo , ma guerriero ^ e quando
10 gli vietava di pugnar , fremea \
E quando senza compagnia venuto
Ambasciatore a Tebe, io co’ Tcbani
Ne' regi alberghi a banchettar 1' astrinsi ,
Non depose egli , no , la bellicosa
Alma di prima ^ ma , sfidando il fiore
De’ giovani Cadméi , tutti li vinse
Agevolmente col mio nume al fianco.
E al tuo fianco del pari io qui ne vegno,
E ti guardo e t’ esorto c ti comando
Di pugnar co'Trojani arditamente.
Ma te per certo o la fatica oppresse ,
O qualche tema agghiaccia ^ c tu non sci
Più , no , la prole del pugnace Enide.
Ti riconosco, o Dea (tosto rispose
11 valoroso eroe)^ ti riconosco.
Figlia di Giove , e di buon grado c netta
Mia ragione dirò. Nè vii timore
Nè ignavia mi ratticn, ma il tuo comando.
Non se' tu quella, che pugnar poc’ anzi
Mi vietasti co’ numi ? E se la figlia
Di Giove, Giteréa, nel campo entrava.
Non mi dicesti di ferirla ? il feci.
Ed or recedo, c agli altri Achivi imposi
D’ accogliersi qui tutti , ora che Marte ,
Ben lo conosco , de’ Trojani è il duce.
E a lui la Diva dalle luci azzurre :
Diletto Diomede , alcuna tema
Di questo Marte non aver, nè d’altro
Qualunque iddio, se tua difesa io sono.
Sorgi , e drizza in costui gl’ impetuosi
I
ILIADE
Tuoi corridori , e stringilo e il percuoti ^
Nò riguardo t’ arresti nè rispetto
Di questo insano ad ogni mal parato
E ad ogni parteggiar , che a me pur dianzi
E a Giuno promettea , che centra i Teucri
A prò de’ Greci arria pugnato; ed ora,
Immemore de’ Greci, i Teucri ajuta.
SI dicendo , aOTeirò colla possente
Destra il figliuol di Capanéo, dal carro
Traendolo ; nè quegli a dar fu tardo
Un salto a terra; ed ella stessa ascese
Sovra il coechio da canto a Diomede
Infiammata di sdegno. Orrendamente
L’ asse al gran pondo cigolò ; chè carco
D’una gran Diva egli era e d’un gran prode.
Al sonoro flagello ed alle briglie
Diè di piglio Minerva, e senza indugio
Contra Marte sospinse i generosi
Cornipedi. Lo giunse a]ipunto in quella ,
Che atterrato 1’ enorme Perifantc
( Un fortissimo Ettìlo , egregio figlio
D’Ochesio), il Dio crudel lordo di sangue
Lo trucidava. In arrivar, si pose
Minerva di Pluton l’ elmo alla fronte ,
Onde celarsi di quel fero al guardo.
Come il nume omicida ebbe veduto
L’illustre Diomede, al suol disteso
Lasciò l’ immenso Pcrifante , e dritto
Ad investir si spinse il cavaliere.
E tosto giunti l’un dell’altro a fronte,
Marte il primo scagliò 1’ asta di sopra
Al giogo de’corsier lungo le briglie.
Di rapirgli la vita desioso.
Ma prese colla man l’asta volante
La Dea Minerva, e la stornò dal carro ,
E vano il colpo riuscì. Secondo
Spinse 1’ asta il Tidide a tutta forza ,
La diresse Minerva , c al Dio l’ infisse
Sotto il cinto nell’ epa , e vulnerollo ,
E , lacerata la divina cute ,
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LIBBO ▼
ll4l-Il8o
L’asta ritrasse. Mugolò il ferito
Nume , e ruppe in un tuon pari di nove
O dieci mila combattenti al grido
Quando appiccan la zuffa. 1 Troi 1’ udirò ,
L’ udir gli Àchivi , e ne tremàr : sì forte
Fu di Marte il muggito. E qual pel grave
Vento, che spira dalla calda terra,
Si fa di nubi tenebroso il cielo;
Tal parve il ferreo Marte a Diomede,
Mentre avvolto di nugoli alle sfere.
Dolorando , salia. Giunto alla sede
Degli Dei su l’Olimpo, accanto a Giove
Mesto s’ assise , discoperse il sangue
Immortai, che scorrea dalla ferita,
E in suono di lamento: O padre, ci disse,
E non t’adiri a cotal vista , a fatti
Sì nequitosi? Eisiziosa sempre
A noi Divi tornò la mutua gara
Di gratuir l’umana stirpe; e. intanto
Di nostre liti la cagion tu sei ,
Tu , che una figlia generasti insana ,
E di sterminii e di malvage imprese
Invaghita mai sempre. Obbedienti
Hai quanti alberga Sempiterni il cielo;
Tutti inchiniamo a te. Sola costei
Nè con fatti frenar nè con parole
Tu sai per anco , connivente padre
Di pestifera furia. Ella pur dianzi
Stimolò di Tidèo 1’ audace figlio
A pazzamente guerreggiar co’ numi;
Ella a ferir Ciprigna; ella a scagliarsi
Centra me stesso, e pareggiarsi a un Dio.
E se più tardo il piè fuggia , sarei
Steso rimasto fra quei tanti uccisi
In lunghe pene ; nè morir potendo ,
M’ avria de’ colpi infranto la tempesta.
Bieco il guatò 1’ adunator de’ nembi
Giove , c rispose : Querimonie c lai
Non mi far qui seduto ai fianco mio ,
Fazioso incostante , e a me fra tutti
26
tv ii8i<mo9
ILIADE, LIBRO V
I Celesti odiosa. E risse e zuffe
E discordie c battaglie, ecco le care
Tue delizie. Trasfuso in te conosco
Di tua madre Giunon l' intollerando
Inflessibile spirto, a cui mal posso
Pur colle dolci riparar^ nè certo
D'altronde io penso, che il tuo danno or scenda.
Che dal suo torto consigliar. Non io
Vo’ per questo patir, che tu sostegno
Più lungo duolo: mi sei figlio, e caro
La Dea tua madre a me ti parton'a.
Se malvagio, qual sci, d'altro qualunque
Nume nascevi, da gran tempo avresti
Sorte incorsa peggior degli Uranidi.
Così detto , a Peon comando ci fece
Di risanarlo. La ferita ei sparse
Di lenitivo medicarne, e tolto
Ogni dolore , il tornò sano al tutto ',
Ghè mortale ci non era. E come il latte
Per lo gaglio sbattuto si rappiglia ,
E perde il suo fluir sotto la mano
Del presto mescitor ; presta del pari
La peonia virtù Marte guaria.
Ebe poscia lavello , e di leggiadre
Vesti ravvolse 5 ed egli accanto a Giove,
Dell' alto onor superbo, si ripose.
Depressa del crudcl Marte la strage ,
Tornàr contente alla magion del padre
Giuno Argiva c Minerva Àlalcoménia.
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LIBRO SESTO
ARGOMENTO
Riliniisi gli Dei, i Greci mettono • morte molti de' Trojani. Etturr , roiuiglùto da
Eletto soofraleUo, rìtoraa io Trop, onde tire che Erulo, ncculte le nutroae nel tempio
di ÌHioerTa, offra alla Dea un peplo , e le proroelta de’ ugriliti, perchè atlonUai ddU pu<
gna Diomede. Incontro di questo eroe con Glauco. Loro mltoiiiiio. Essendosi rìcunnsriuti
depili , ai separano dopo arer btto il cambio delle armature. E^uba e le matrone ai avviano
al tempio di Minerva. Ettore ed Eleua rimproverano a Parnle la sua cudanlia. Questi ai
dtapooe di ritornare alla pugna. Incoolro , colloquio c tenera separaaiooe di Ettore c di Ad-
dromaca. Pittura di Aatianatte. Ettore e Paride «cono nel campo.
Soli senz' alcun Dio Teucri ed Achei
Così restaro a battagliar. Più volte
Tra il Simocnta e il Xanto impetuosi
Si assalirò^ più volte or da quel lato
Ed or da questo con incerte penne
La Vittoria volò. Ruppe di Troi
Primo una squadra il Telamoniu Ajacc ,
Presidio degli Achivi, e il primo raggio
Portò di speme a' suoi , ferendo un Trace,
Fortissimo guerriero e di gran mòle ,
Acamante d’ Eussòro. Il colse in fronte
Nel cono dell’ elmetto irto d’ equine
Chiome, e nell’ osso gli piantò la punta
SI , che i lumi gli chiuse il bujo eterno.
Tolse la vita al Teutranide Assilo
Il marzio Diomede. Era D’Arisbe
Bella contrada Assilo abitatore ,
Uom di molta ricchezza, a tutti ainico^
Che tutti in sua magion , posta lunghesso
La via frequente, ricevea cortese.
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ILIADE
ai-6o
1 a8
Ma degli ospiti , ahi ! niuno accorse allora ;
Niun da morte il campò. Solo il suo fido
Servo Calesio , che rcggcagli il cocchio ,
Morto ei pur dal Tidi'de, al fianco cadde
Del suo signore , e con lui scese a Fiuto.
Eurialo abbatte Ofclzio e Drcso^ e poscia
Esepo assalta e Pòdaso gemelli,
Che al buon Bucohone un di produsse
La Nàjade gentile Àbarbaréa.
Bucolion, del re Laomedonte
Primogenito figlio , ma di nozze
Furtive acquisto, conducea la greggia ,
Quando alla ninfa in amoroso amplesso
Mischiossi , e di costor madre la feo.
Ma quivi tolse ad ambedue la vita
E la bella persona e 1’ armi il figlio
Di Mecistéo. Fur morti a un tempo istesso
Astialo dal forte Polipete^
Il Percosio Pidite dall' acuta
Asta d’ Ulisse; Aretaon da Teucro.
D’ Antiloco la lancia Ablero atterra,
Élato quella del maggiore Atride,
Élato, che sua stanza avea nell' alta.
Pédaso in riva dell' ameno fiume
Satniòente. Eurìpilo prostese
Melanzio ; e 1' asta dell' eroe Leito
Il fuggitivo Filaco trafisse.
Ma l' Atride minor, strenuo guerriero.
Vivo Adrasto pigliò. Repente ombrando
Li costui corridori, e via pel campo
Paventosi fuggendo, in un tenace
Cespo implicàrsi di mirica; e quivi
Al piede del timon spezzato il carro,
Volar con altri spaventati in fuga
Verso le mura. Prono nella polve
Sdrucciolò dalla biga appo la ruota
Quell' infelice. Colla lunga lancia
Menelao gli fu sopra; e Adrasto, a lui
Abbracciando i ginocchi e supplicando :
Pigliami vivo , Atride; c largo prezzo
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. 6i*I(k>
LIBRO VI
lag
Del mio riscatto avrai. Figlio son io
Di ricco padre, e gran conserva ci tiene
D’ auro , di rame e di foggiato ferro.
Di questi largiratti il padre mio
Multi doni, se vivo egli mi sappia
Nelle argolicfae navi. A questo prego
Già dell’Atride il cor si raddolcia;
Già fidavaio al servo, onde alle navi
L’ adducesse ; quand’ ecco Agamenndne ,
Che a lui ne corre minaccioso , c grida :
Debole Menelao! e qual ti prende
De’ Trojani pietà? Certo per loro
La tua casa è felice! Or su, nessuno
De’ perfidi risparmi il nostro ferro,
Nè pur l’infante nel materno seno:
Perano tutti in un con Ilio, tutti
Senza onor di sepolcro c senza nome.
Cangiò di Menelao la mente il fiero,
Ma non torto parlar, sì, eh’ ci respinse
Da sè con mano il supplicante^ e lui
Ferì tosto nel fianco Agamenndne,
E .supino lo stese. Indi, col piede
Calcato il petto , nc ritrasse il telo.
Nestore intanto in altra parte accende
L’ acheo valor, gridando: Amici eroi,
Danai, di Marte alunni, alcun non sia,
Ch’ ora badi alle spoglie, e per tornarne
Carco alle navi si rimanga indietro.
Non bàdiam che ad uccidere; e gli uccisi
Poi nel campo a bell’ agio ispoglicremo.
Fatti animosi a questo dir gli Achei,
Piombàr su i Teucri , che scorati e domi
Di nuovo in Ilio si sarian racchiusi,
Se il prestante indovino Eleno , figlio
Del re trojano, non volgea per tempo
Ad Ettore e ad Enea queste parole:
Poiché tutta si folce in voi la speme
De’ Trojani e de’ Licj , e che voi siete
I miglior nella pugna e nel consiglio.
Voi, Ettore ed Einea, qui state, e i nostri
Mosti. Iliade. 9
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3o
ILIADE
101-1^0
Alle porte fuggenti rattcnete ,
Pria che , con riso del nemico , in braccio
Si salvin delle mogli. E come tutte
Ben rincorate le falangi avrete,
Noi di piè fermo, benché lassi e in dura
Necessitade, qui farem coll’ armi
Buon ripicco agli Achei. Ciò fatto , a Troja
Tu, Ettore, tcn vola, ed alla madre
Di’ che salga la rócca, e del delubro
A Minerva sacrato apra le porte,
E vi raccolga le matrone^ e il peplo
Il più grande, il più bello, e a lei più caro
Di quanti in serbo ne’ regali alberghi
Ella ne tien, deponga umilemente
Su le ginocchia della Diva, e dodici
Giovenche le prometta ancor non dome.
Se la nostra città comipberando
E le consorti e i figli, ella dal sacro
Ilio allontana il fiero Diomede,
Combattente crudele, e violento
Artefice di fuga, e per mio senno
D più gagliardo degli Achei. Nè certo
Noi tremammo giammai tanto il Pelidc,
Benché figlio a una Dea , quanto costui ,
Che fuor di modo inferocisce , c nullo
Vien di forze, con esso- a paragone.
Disse; e al cenno fraterno obbediente
Ettore armato si lanciò dal carro
Con due dardi alla mano; e via scorrendo
Per lo campo e animando ogni guerriero ,
Rinfrescò la battaglia: e tosto i Teucri
Voltàr la faccia, e coraggiosi incontro
Pèrsi al nemico. S’arretràr gli Achivi,
E la strage cessò ; eh’ essi, mirando
Si audaci i Teucri convertir le fronti ,
Stimar disceso in lor soccorso un Dio.
E tuttavolla , le sue genti Ettorre
Confortando , gridava ad alta voce :
NLiguanimi Trojani, e voi di Troja
Generosi alleati, ah! siate, amici,
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i>i8o
LIBRO VI
3i
Siatemi prodi, e fuor mettete intera
La vostra gagliardia , meutr’ io per poco
Men volo in Ilio ad intimar de' padri
E delle mogli i preghi e le votive
Ecatombi agli Dei. — Parte , ciò detto.
Ondeggiano all’eroe, mentre cammina,
L’alte creste dell’elmo^ e il. negro cuojo.
Che gli orli attorna dell’ immenso scudo ,
La cervice gli batte ed il tallone.
Di duellar bramosi allor nel mezzo
Dell’ un campo c dell’ altro appreseutàrsi
Glauco, prole d’Ippóloco, e il Tidide.
Come al tratto dell’ armi ambo fur giunti.
Primo il Tidide favellò: Guerriero,
Chi se’ tu? Non ti vidi unqua ne’ campi
Della gloria finor. Ma tu d’ardire
Ogni altro avanzi, se aspettar non temi
La mia lancia. È figliuol d’ un infelice
Chi fassi incontro al mio valor. Se poi
Tu se’ qualche Immortai, non io per certo
Co’ numi pugnerò^ che lunghi giorni
Nò pur non visse di Driantu il forte
Figlio, Licurgo, che agli Dei fe guerra.
Su pel sacro Nissejo egli di Bacco
Le nudiici insegui'a. Dal rio percosse
Con pungolo crudel, giltaro i tirsi
Tutte insieme, e fuggir; fuggi lo stesso
Bacco, c nel mar s’ascose, ove del fero
Minacciar di Licurgo paventoso
Teti l’accobe. Ma sdegnarsi i numi
Con quel superbo. Della luce il caro
Raggio gli tolse di Saturno il figlio,
E detestato dagli Eterni tutti
Breve vita egli visse. All’ armi io dunque
Non verrò con gli Dei. Ma se terreno
Cibo ti nutre, accostati; e più presto
Qui della morte toccherai le mete.
E d’ Ippóloco a lui l’ inclito figlio :
Magnanimo Tidide, a che dimandi
Il mio lignaggio? Quale delle foglie.
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ILIADE
9. 181*330
1 3a
Tale è la stirpe degli umani. Il vento
Brumai le sparge a terra, e le ricrea
La germogliante selva a primavera.
Così l'uom nasce, così muor. Ma s’ oltre
Brami saper di mia prosapia, a molti
Ben manifesta, ti farò contento.
Siede nel fondo del paese argivo
Efira , una città, natia contrada
Di Sisifo, die ognun vincea nel senno.
Dall’ Eolide Sisifo fu nato
Glauco^ da Glauco il buon Bellcrofontc,
Cui largirò gli Dei somma beltade ,
E quel dolce valor, che i cuori acquista.
Ma Preto macchinò la sua mina;
E potente signor d’Argo che Giove
Sottomessa gli avea, d’Argo l’espulse
Per cagione d’Antòa, sposa al tiranno.
Furiosa costei ne desiava
Segretamente 1’ amoroso amplesso ;
Ma non valse a crollar del saggio e casto
Bellerofonte la virtù. Sdegnosa
Del magnanimo niego , l’ impudica
Volse, l’ingegno alla calunnia, e disse
Al marito così: BeUeroJbnte
Meco in amor tentò meschiarsi a forza:
Muori dunque, o P uccidi. Arse di sdegno
Preto a questo parlar, ma non l’uccise,
Di sacro orror compreso. In quella vece
Spedillo in Licia apportator di chiuse
Funeste cifre al re suocero, ond’ egli
Perir lo fésse. Dagli Dei scortato,
Parti Bellerofonte , al Xanto giunse ,
Al re de’ Licj appresentossi , c lieta
N’ ebbe acooglìenza ed ospitai banchetto.
Nove giorni fumò su 1’ are amiche
Di nove tauri il sangue. E quando apparve
Della decima aurora il roseo lume,
liitcrrogollo il sire, e a lui la tèssera
Del genero chiedea. Viste le crude
Note di Preto, cornandogli in prima
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LIBRO TI
l33
9. 111-100
Di dar morte all’indomita Chimera.
Era il mostro d’ origine divina ,
Li'on la testa, il petto capra, e drago
La coda^ e dalla bocca orrende vampe
Vomitava di foco: c nondimeno
Col favor degli Dei l’eroe la spense.
Pugnò poscia co’ Sdlimi: e fu questa.
Per lo stesso suo dir, la più feroce
Di sue pugne. Domò per terza impresa
Le Amazzoni virili. ÀI suo ritorno
Il re gli tese un altro inganno , e scelti
Della Licia i più forti, in fosco agguato
Li collocò^ ma non redinne un solo:
Tutti gli uccise l’ innocente. Allora
Chiaro reggendo, che d’un qualche Iddio
Illustre seme egli era, a sé Io tenne,
E diegli a sposa la sua figlia, e mezza
La regai potestade. Ad esso inoltre
Costituirò i Licj un separato
Ed ameno tenér, di tutti il meglio.
D’alme viti fecondo e d’auree messi,
Ond’egli a suo piacer lo si coltivi.
Partorì poi la moglie al virtuoso
Bellerofonte tre figliuoli, Isandro
E Ippdloco , ed alfin Laodamia ,
Che al gran Giove soggiacque, e padre il fece
Del bellicoso Sarpedon. Ma quando
Venne in odio agli Dei Bellerofonte ,
Solo e consunto da tristezza errava
Pel campo Aleio l’ infelice , e Torme
De’ viventi fuggia. Da Marte ucciso,
Cadde Isandro co’ Sdlimi pugnando;
Laodamia perì sotto gli strali
Dell’ irata Diana; e a me la vita
Ippdloco donò , di cui m’ è dolce
Dirmi disceso. Il padre alle trojane
Mura spedimmi, e generosi sproni
M’ aggiunse di lanciarmi innanzi a tutti
Nelle vie del valore , onde de’ miei
Padri la stirpe non macchiar, che fùro
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|34
ILIADE
». 361 -Silo
D’ Efira e delle licic ampie contrade
I più famosi. Eeeo la schiatta c il sangue,
Di clic nato mi vanto, o Diomede.
Allegrossi di Glauco alle parole
II marzial Tidide; e, l'asta in terra
Conficcando, all'eroe dolce rispose:
Un antico paterno ospite mio.
Glauco, in te riconosco. Eneo, già tempo ,
Ne' suoi palagi accolse il valoroso
Bcllerofonte , e lui ben venti interi
Giorni ritenne, e di bei doni entrambi
Si presentare. Una purpurea cinta
Eneo donò, Bellerofonte un nappo
Di doppio seno e d’ór, che in serbo io posi
Nel mio partir^ ma di Tldéo non posso
Farmi ricordo^ chè bambino io m'era
Quando ei lasciommi per seguire a Tebe
Gli Achei, che rotti vi perirò. Io dunque
Sarotti in Argo ed ospite ed amico.
Tu in Licia a me, se nella Licia avvegua
Ch' io mai porti i mici passi. Or nella pugna
Evitiamei l'un l’altro. Assai mi resta
Di Teucri e d'alleati, a cui dar morte.
Quanti a’ mici teli n’ offriranno i numi ,
Od il mio piè ne giungerà. Tu pure
Troverai fra gli Achivi in chi far prova
Di tua prodezza. Di nostr' armi il cambio
Mostri intanto a costor, che 1’ uno c 1’ altro
Siam ospiti paterni. Cosi detto.
Dal cocchio entrambi dismontàr d’ un salto.
Strinscr le destre , e si dicr mutua fede.
Ma nel cambio dell’ armi a Glauco tolse
Giove lo senno. Aveale Glauco d’oro,
Diomede di bronzo: cran di quelle
Cento tauri il valor, nove di queste.
Al faggio intanto delle porte Sccc
Ettore giunge. Gli si fanno intorno
Le trojanc consorti e le fanciulle
Per saper de’ figliuoli e de’ mariti
E de’ fratelli c degli amici ^ ed egli :
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LIBRO TI
¥. 3oi-34o
■ 35
Ite, risponde, a supplicar gli Dei
In devota ordinanza; itene tutte;
Ch’ oggi a molte sovrasta alta sciagura.
De' regali palagi indi s' avvia
Ài portici superbi. Àvea cinquanta
Talami la gran reggia edificati
L'un presso all’ altro, e di polita pietra
Splendidi tutti. Accanto alle consorti
Dormono in questi i Priamidi. À fronte
Dodici altri ne serra il gran cortile
Per le regie donzelle, al par de' primi
Di bel mal'mo lucenti, e posti in fila.
Di Priamo in questi dormono gl' illustri
f Generi al fianco delle caste spose.
Qui giunto Ettorre, ad incontrarlo corse
L'inclita madre, che a trovar sen già
Laodice , la più delle sue figlie
Avvenente é gentil. Chiamollo a nome;
E strettolo per mano: O figlio, disse,
Perché, lasciato il guerreggiar, qua vieni?
Ohimè! per certo i detestati Achei
Son già sotto alle mura, e te qui spinge
Reli^oso zelo ad innalzare
Là su la rocca le pie mani a Giove.
Ma deh ! rimanti alquanto , ond' io d' un dolce
'Vino la spuma da libar ti rechi
Primamente al gran Giove e agli altri Eterni;
Indi a rifar le tue, se ne berai.
Esauste forze. Di gucrrier già stanco
Rinfranca Bacco il cure, e te pugnante
Per la tua patria la fatica oppresse.
No, non recarmi, veneranda madre.
Dolce vino verun, rispose Ettorre;
Ch'egli scemar potfia mie forze, e in petto
Addormentarmi la natia virtude.
Aggiungi, che libar non oso a Giove
Pria che di divo fiume onda mi lavi ;
Nè certo lice colle man, di polve
Lorde e di sangue, offerir voti al sommo
De' nembi adunator. Ma tu di Palla
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l36 lUàDK V 341-180
Preclatrioe t’ invia, deh! tosto al tempio,
E rl:cavi i profami, accompagnata
Dalle auguste matrone 4 e qual nell'arca
Peplo ti serbi più leggiadro c caro.
Prendilo, e umile della Diva il poni
Su le sacre ginocchia , e sei le vdta
Giovenche e sei di collo ancor non tocco ,
Se la cittade e le consorti e i figli
Commiscrando, dall' iliache mura
Allontana il feroce Diomede ,
Artefice di fuga e di spavento.
Corri dunque a placarla. Io ratto intanto
A Paride ne vado , onde svegliarlo
Dal suo letargo , se darammi orecchio.
Oh I gli s’ aprisse il suolo , ed ingojassc
Questa del mio buon padre e di noi tutti
Inviata da Giove alta sciagura.
Nè penso, che dal cor mi fia mai tolta
Di sì spiacenti guai la rimembranza.
Se pria non veggo costui spinto a Plutu.
Disse^ e ne' regj alberghi Ecuba entrata,
Chiama le ancelle, e a ragunar le manda
Per la cittade le matrone. Ed ella
Nell’ odorato talamo discende ,
Ove di pepli istoriati un serbo
Tenea, lavor delle fenicie donne.
Che Paride, solcando il vasto mare.
Da Sidon conducea, quando la figlia
Di Tindaro rapio. Di questi Ecuba
Un ne toglie il più grande , il più riposto ,
Fulgido come stella, ed a Minerva
Oiferta lo destina. Indi s’ avvia
Dalle gravi matrone accompagnata.
Al tempio giunte di Minerva in vetta
All' ardua rócca, apei'sc loro i sacri
Claustri la figlia di Cisséo, la bella
D’alme guance Teano, che lodata
D'Àntènore consorte i giusti Teucri
Di Minerva nomàr sacerdotessa.
Tutte allora levór con alti pianti
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LIBRO TI
¥. 38t-4>o
A Pallade le palme; e preso il peplo,
Su le ginocchia della Diva il pose
La modesta Teano; indi di Giove
Alla gran figlia orò con questi accenti:
Veneranda Minerva, inclita Dea,
Delle città custode, ah! tu del fiero
Tidide l’asta infrangi , e di tua mano
Stendilo anciso sulle porte Scee,
Che noi tosto su Pare a te faremo
Di dodici giovenche ancor non dome
Scorrere il sangue, se di queste mura
E delle teucre spose , e de’ lor cari
Figli innocenti sentirai pietade.
Così pregar; ma non udia la Diva
Delle misere i voti. Ettore intanto
Di Paride cammina alle leggiadre
Case, di ehe egli stesso il prence avea
Divisato il disegno, al magistero
De’ più sperti di Troja architettori
Fidandone l’ effetto. E questi a lui
E stanza ed atrio e corte edificare
Sul sommo della rócca, appo i regali
Di Priamo stesso e del maggior fratello
Risplendenti soggiorni. Entrovvi Ettorre,
Nelle mani la lunga asta tenendo
Di ben undici cubiti. La punta
Di terso feiTo colla ghiera d’ oro
Al mutar de’ gran passi scintillava.
Nel talamo il trovò, che le sue belle
Armi assettava, i curvi archi e lo scudo
E l’usbergo. L’ argiva Elena, in mezzo
All’ ancelle seduta, i bei lavori
Ne dirigea. Com’ ebbe in lui gli sguardi
Fisso il grande guerrier, con detti acerbi
Cosi l’ invase : Sciagurato ! il core
Ira ti rode, il so; ma non ò bello
Il coltivarla. Intorno all’ alte mura
Cadono combattendo i cittadini,
E tanta strage c tanto affar di guerra
Per te solo s’ accende ; e tu sei tale ,
■ 37
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i38
ILIADE
Clic altrui vedendo abbandonar la pugna,
Rampognarlo oseresti. Or su, ti seuoti;
E.sei di qua pria che da’ Greei aeeesa
Venga a snidarti jd’Ili'on la fiamma.
Bello, siecome un Dio, Paride allora
Cosi rispose: Tu mi fai, fratello.
Giusti rimprocei; e giusto al par mi sembra,
Cb’ io ti risponda , e tu mi porga aseolto.
Nè sdegno nè rancor eontra i Trojani
Nel talamo regai mi rattenea ,
Ma desir solo di distrarre un mio
Dolor segreto. E in questo punto istesso
Con tenere parole aneo la moglie
M’esortava a tornar nella battaglia,
E il eor mio stesso mi dieea, ehe questo
Era lo meglio^ perocché nel campo
Le palme alterna la vittoria. Or dunque
Attendi, che dell’ armi io mi rivesta,
O mi precorri ; eh’ io ti seguo , e tosto
Raggiungerti mi spero. — Cosi disse
Paride: e nulla gli rispose Ettorre^
A cui molli volgendo le parole,
Elena soggiugnea: Dolce cognato.
Cognato a me proterva , a me primiero
De’ vostri mali detestando fonte.
Oh m’avesse il di stesso, in che la madre
Mi partoriva, un turbine divelta
Dalle sue braccia, ed alle rupi infranta,
0 del mar nell’ irate onde sommersa
Pria del bieco mio fallo! E poiché tale
E tanto danno statuir gli Dei ,
Stata almeno foss’ io consorte ad uomo
Più valoroso , e che nel cor più addentro
1 dispregi sentisse c le rampogne.
Ma di presente a costui manca il fermo
Carattere dell’ alma , e non ho speme ,
Ch’ ei lo s’ acquisti in avvenir. M’ avviso
Quindi, che presto pagheranno il fio.
Ma tu vien oltre, amato Ettorrc, c siedi
Su questo seggio, e il cor stanco ricrea
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i-Soo
LIBRO VI
Dal no travaglio che per me sostieni,
Per me d’ obbrobrio carca , e per la colpa
Del tuo fratello. Ahi lassa! un duro fato
Giove n'impose, e tal eh’ anco ai futuri
Darcm materia di canzon famosa.
Cortese donna, le rispose Ettorre,
Non rattenermi. Il core, impaziente
Di dar soccorso a’ miei, che me lontano
Richiamano, fa vano il dolce invito.
Ma tu di cotestui sprona il coraggio.
Onde s’ agretti ei pure , e mi raggiunga
Anzi eh’ io m’ esca di città. Veloce
Corro intanto a’ miei lari a veder 1’ uopo
Di mia famiglia, e la diletta moglie
E il pargoletto mio, non mi sapendo.
Se alle lor braccia tornerò più mai,
O s’oggi è il di, che decretàr gli Eterni
Sotto le destre achee la mia caduta.
Parte, ciò detto ^ e giunge in un baleno
Alla eccelsa magione ma non vi trova
La sua dal bianco seno alma consorte ^
Ch’ ella col caro figlio e coll’ ancella
In elegante peplo tutta chiusa
Sull’alto delia torre era salita;
E là si stava in pianti ed in sospiri.
Come deserta Ettór vide la staiua,
Arrestossi alla soglia , ed all’ ancelle
Volto il parlar: Porgete il vero, ei disse',
Andromaca dov’è? Forse alle case
Di qualcheduna delle sue congiunte,
O di Palla recossi ai santi altari
A placar colle troiche matrone
La terribile Dea? — No, gli rispose
La guardiana', e poiché brami il vero,
n vero parlerò. Nè alle cognate
Ella n’ andò , nè di Minerva all’ are ,
Ma d’ilio alla gi'an torre. Udito avendo
Dell’ inimico un furioso assalto
E de’ Teucri la rotta, la meschina
Corre verso le mura a simiglianza
ILIADE
Di forsennata, e la fcdcl nutrice
Col pargoletto in braccio l’accompagna.
Finito non avea queste parole
La guardiana, che veloce Ettorrc
Dalle soglie si spicca, e ripetendo
Il già corso scntier , fende diritto
Del grand’ Ùio le piazze ^ ed alle Scee ,
Onde al campo è 1’ uscita, ecco d’incontro
Andromaca venirgli, illustre germe
D’ Eezione , abitator dell’ alta
Ipóplaco selvosa, c de’ Cilici
Dominator nell’ ipoplacia Tebe.
Ei ricca di gran dote al grande Ettorre
Diede a sposa costei, ch’ivi allor corse
Ad incontrarlo^ c seco iva l’ancella.
Tra le braccia portando il pargoletto
Unico tìglio dell’eroe trojano,
Bambin leggiadro come stella. 11 padre
Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto
Asti'anatte, perchè il padre ei solo
Era dell’ alta Troja il difensore.
Sorrise Ettorre nel vederlo , c tacque.
Ma di gran pianto Andrdmaca bagnata ,
Accostossi al marito, c per la mano
Stringendolo, e per nome in dolce suono
Chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito!
Il tuo valor ti perderà: nessuna
Pietà del figlio nè di me tu senti.
Crude], di me, che vedova infelice
RiraaiTommi tra poco, perchè tutti
Di conserto gli Achei contro te solo
Si scaglieranno a trucidarti intesi j
E a me fia meglio allor, se mi sei tolto.
L’andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!
Ch’ altro mi resta, che perpetuo pianto ì
Orba del padre io sono e della madre.
M’ uccise il padre lo spietato Achille
Il dì che de’ Cilici egli 1’ eccelsa
Popolosa città Tebe distrusse;
M’uccise, io dico, Eezi'on quel crudo;
LIBRO Vt
V.
Ma dispogliarlo non osò, compreso
Da divino tcrror. Quindi con tutte
L’ armi sul rogo il corpo ne compose ,
E un tumulo gli alzò, cui di frondosi
Olmi le 6g1ie dell’ Egioco Giove ,
L’Oreadi pietose, incoronavo.
Di ben sette fratelli iva superba
La mia casa. Di questi in un sol giorno
Lo stesso figlio della Dea sospinse
L’ anime a Fiuto , e li trafisse in mezzo
Alle mugghianti mandre ed alle gregge.
Della boscosa Ipdplaco reina
Mi rimanea la madre. 11 vincitore
Coll’ altre prede qua l’ addusse , e poscia
Per largo prezzo in libertà la pose.
Ma questa pure, ahimè! nelle paterne
Stanze lo . strai d’Artémide trafisse.
Or mi resti tu solo , Ettore caro;
Tu padre mio, tu madre, tu fratello.
Tu florido marito. Abbi deh! dunque
Di me pietade, e qui rimanti meco
A questa torre; nè voler che sia
Vedova la consorte, orfano il figlio.
Al caprifico i tuoi guerrieri aduna,
Ove il nemico alla città scoperse
Più agevole salita e più spedito
Lo scalar delle mura. O che agli Achei
Abbia mostro quel varco un indovino,
O che spinti ve gli abbia il proprio ardire.
Questo ti basti, che i più forti quivi
Già fér tre volte di valor periglio.
Ambo gli Ajaei, ambo gli Atridi, e il chiaro
Sire di Creta , ed il fatai Tidide.
Dolce consorte, le rispose Ettorre,
Ciò tutto, che dicesti, a me pur anco
Ange il pensier; ma de’ Trojani io temo
Fortemente lo spregio, e dell’ altere
Trojane donne, se guerrier codardo
Mi tenessi in disparte, e della pugna
Evitassi i cimenti. Ah! noi consente,
■4*
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ILUDE
V. 58i-6so
No, questo cor. Da lungo tempo appresi
Ad esser forte, ed a volar tra’ primi
Negli acerbi conflitti alla tutela
Della paterna gloria e della mia.
Giorno verrà, presago il cor mcl dice.
Verrà giorno , che II sacro iliaco muro
E Priamo e tutta la sua gente cada.
Ma nè de’ Teucri il rio dolor, nò quello
D’ Ecuba stessa, nè del padre antico.
Nè de’ fratei , che molti c valorosi
Sotto il ferro nemico nella polve
Cadran distesi, non mi accora, o donna.
Si di questi il dolor, quanto il crudele
Tuo destino, se fia che qualche Achco ,
Del sangue ancor de’ tuoi lordo l’ usbergo ,
Lagrimosa ti tragga in scrvitudc.
Misera! in Argo all’insolente cenno
D’una straniera tesserai le tele.
Dal fonte di Messide o d’ Ipcrèa,
( Ben rcpugnantc , ma dal fato astretta )
Alla superba recherai le linfe;
E, vedendo talun piovere il pianto
Dal tuo ciglio, dirà: Quella è d’Ettorre
L’ alta consorte , di quel prode Ettorrc ,
Che fra’ trojani eroi di generosi
Cavalli agitatori era il primiero.
Quando intorno a Illon si combattea.
Cosi dirassi da qualcuno; e allora
Tu di nuovo dolor 1’ alma trafitta,
Più viva in petto sentirai la brama
Di tal marito a scior le tue catene.
Ma pria morto la terra mi ricopra ,
Ch’io di te schiava i lai pietosi intenda.
Cosi detto, distese al caro figlio
L’ aperte braccia. Acuto mise un grido
Il bambinello; c, declinato il volto,
Tutto il nascose alla nudrice in seno,
Dalle fiere atterrito armi paterne,
E dal cimiero, che di chiome equine
Alto su 1’ elmo orribilmente ondeggia.
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V. 62I-€6o libro vi
Sorrise il gcnitor, sorrise anch’ ella
La veneranda madre; e dalla fronte
L’ intenerito eroe tosto si tolse
L'elmo, e raggiante sul terreo lo pose.
Indi baciato con immenso affetto,
E doleemente tra le mani alquanto
Palleggiato l’infante, alaollo al cielo,
E supplice sdamò: Giove pietoso,
E voi tutti, o Celesti, ah! concedete.
Che di me degno im dì questo mio figlio
Sia splendor della patria , e de' Trojani
Forte e possente regnator. Deh ! fate ,
Che il veggendo tornar dalla battaglia
Dell’ armi onusto de' nemici uccisi ,
Dica talun; Non Ju sì forte il padre-. .
E il cor materno nell’ udirlo esulti.
Così dicendo, in braccio alla diletta
Sposa egli cesse il pargoletto; ed ella,
Con un misto di pianti almo sorriso.
Lo si raccolse all’ odoroso seno.
Di seci*eta pietà l’alma percosso
Riguardolla il marito, e colla mano
Accarezzando la dolente: Oh! disse.
Diletta mia, ti prego; oltre misura
Non attristarti a mia cagion. Nessuno,
Se il mio punto fatai non giunse ancora,
Spingerammi a Pluton; ma nullo al mondo.
Sia vii, sia forte, si sottraggo al fato.
Or ti rincasa , c a’ tuoi lavori intendi ,
Alla spola, al pennecchio, e delle ancelle
Veglia su 1’ opre ; e a noi , quanti nascemmo
Fra le dardanic mura, a me pnmiero
Lascia i doveri dell’acerba guerra.
Raccolse, al terminar di questi accenti.
L’elmo dal suolo il generoso Ettorre;
E muta alla magion la via riprese
L’amata donna, riguardando indietro,
E amaramente lagrimando. Giunta
Agli cttorci palagi, ivi raccolte
Trovò le ancelle , e le commosse al pianto.
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ILUDE
6Al-
Ploravan tutte T ancor vivo Ettorre
Nella casa d’ Ettór le dolorose,
Rivederlo più mai non si sperando
Reduce dalla pugna , e dalle fiere
Mani scampato de' robusti Achei.
Non producea gl’ indugi in questo mezzo
Dentro 1’ alte sue soglie il Priiamidc
Paride: e già di tutte rivestito
Le sue bell’ armi, d’IIio, folgorando.
Traversava le vie con presto piede.
Come destriero, che di largo cibo
Ne’ presepi pasciuto , cd a lavarsi
Del fiume avvezzo alla bell’onda, alfine.
Rotti i legami, per l’aperto corre.
Stampando con sonante ugna il terreno;
Scherzati sul dosso i crini , alta s’ estolle
La superba cervice , ed esultando
Di sua bellezza, ai noti paschi ei vola.
Ove amor d’ erbe o di puledre il tira;
Tale di Priamo il figlio dalla ròcca
Di Pergamo scendea tutto nell’ armi
Eisultante e corrusco come sole.
SI ratti i piedi lo portàr, ch’ei tosto
Il germano raggiunse appunto in quella.
Che dal tristo parlar si dipartia
Della consorte. Favellò primiero
Paride, e disse: Alla tua giusta fretta
Fui di lungo aspettar forse cagione.
Venerando fratello, e non ti giunsi
Sollecito, tem’io, come imponesti.
Generoso timor! rispose Ettorre;
NuU’uom, che l’opre drittamente estimi.
Darà biasmo alle tue nel glorioso
Mestier dell’ armi ; chè tu pur se’ prode.
Ma, colpa del voler, spesso s’allenta
La tua virtude, e inoperosa giace.
Quindi è r alto mio duol quando de’ Teucri ,
Per te solo infelici, odo in tuo danno
Le contumche. Ma partiam; chè poscia
Comporremo tra noi questa contesa,
LIBRO VI
>45
r. 70|'7o4
Se grazia ne farà Giove benigno
Di poter lieti nelle nostre case
Ai Celesti immortali offi-ir la coppa
Dell’alma libertà, vinti gli Achei.
Moirri. Iliiute.
IO
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LIBRO SETTIMO.
àRGOMBNTO
Ettore e Paride rìaftofooo i Gred. EU do, per ùpinnaoe ditina, eooeiglù Ettore, ebe,
Utu eetfve U betUgUa, iddi a liogoUr leoaooe il più ealeate de’GracL Ettore accoglie b
propoftU. I Greci eùtaoo alqQaalo ad accettare b ditfda. Qaiodi, rioyoeerati da If^ttore ,
oott di bro o&ocui proati a oomlnttere. Fotte b aorta « caca ^Ib di Ajace Tebmoaùo.
DeimiioDe del dttelb. 1 oombaltenti, aupraveeoeodo b notte, aoao aeparati dagli araldi. 1
Greci , per oomiglb di NAiore , aoiprodooo le armi , onde attendere aUa aepoltun de’ mort i
cd alb coatruaione d’ un muro per difna dd campo. de’ Trojaoi. Iddo vbne nel
campo greco a proporre condiaioni di pece, e a domandare una fregna per aeppeOire i morti.
Le prime aooo rigettate, b aecooda b accordata. Muro coitmUo dai Croci. Sd^no di Netr
Uiano. Gtoriti notturni de' Greci e de’ Troiani. Segni iaboatì mandati da Gbre duraob
b notte.
Così dicendo, dalle porte eruppe,
Seguito dal fratello, il grande Ettorre.
Ardono entrambi di far pugna : e quale
I naviganti allégra amico vento.
Che un Dio lor manda allor che stanchi ei sono
D' agitar le spumanti onde co’ remi ,
C cascano le membra di fatica ^
Tali al desio de’ Teucri essi apparirò.
A prima giunta Paride stramazza
Menestio , d’Ama abitatore, e 6glio
Del portator di clava , Arè'itóo ,
A cui lo partoria Filomedusa ,
Per grand’ occhi lodata. Ettore attasta
Eionéo di lancia alla cervice
Sotto l’elmetto, e morto lo distende.
Glauco, duce de’Licj, a un tempo istcsso
D’un colpo di zagaglia ad Ifindo ,
Prole di Déssio , l’ òmero trafigge
Appunto in quella che salia sul cocchio^
E dal cocchio al terren morto il trabocca.
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V. 3I-60
47
ILIADE, LIBRO VII |
Vista la strage degli Achei, Minerva
Dall’Olimpo calessi impetuosa
Verso il sacro Uion. La vide Apollo
Dalla pergàmea ròcca ^ e , vincitori
Bramando i Teucri, le si fece incontro
Vicino al faggio , e favellò primiero :
Figlia di Giove, e quale il cor t’invade
Furia novella? E qual sì grande affetto
Dall’Olimpo ti spinge? a portar forse
Della pugna agli Achei la dubbia palma.
Poiché niuna ti tocca il cor pietade
Dello strazio de’ Teucri ? Or su , m’ ascolta ,
E fia lo meglio : si sospenda in questo
Giorno la zuffa , e alla novella aurora
Si ripigli e s’ incalzi infin che Troja
Cada; da che la sua caduta a voi.
Possenti Dive , il cor cotanto invoglia.
Sia così. Palla gli rispose: io scesi
Fra i Trojani e gli Achei con questa mente.
Ma come avvisi di quetar la pugna ?
Suscitiam , replicava il saettante
Figlio di Giove , suscitiam la forte
Alma d’ Ettorre a provocar qualcuno
De’ prodi Achivi a singoiar tenzone ;
E indignati gli Achivi un valoroso
Spingano anch’ essi a cimentarsi in campo
Da solo a solo col trojan guerriero.
Disse; e Minerva acconsentia. Conobbe
De’ consultanti iddii tosto il disegno
D Prìamide Eléno in suo pensiero,
E ad Ettore venuto: Ettore , ei disse .
Pari a quello d’ un nume è il tuo consiglio;
Ma udir vuoi tu del tuo fratello il senno ?
Fa dall’ armi cessar Teucri ed Achei,
E degli Achei tu s6da il più valente
A singoiar certame. Io ti fo certo ,
Che il tuo giorno fatai non giunse ancora :
Così mi dice degli Dei la voce.
Esultò di letizia all’ alto invito
11 valoroso; e presa per lo mezzo
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ILIADE
i4d
¥. 6ioioo
La sua gran lancia , e tra l' un campo e P altro
Procedendo, fe alto alle trojane
Falangi ; ed elle soffermarsi tutte*
Soffermarsi del pari al riverito
Cenno d’Àtride i coturnati Achivi^
E in forma d’ avoltoi Minerva, e Febo
Sull’ alto faggio s’ arrestàr di Giove ,
Con diletto mirando de’ guerrieri
Quinci e quindi seder dense le &le
D’ elmi orrende c di scudi e d’ aste erette.
Quale è 1’ orror , che di Favonio il soSSo
Mei suo primo spirar spande sul mare ,
Che destato s’arruffa e Fonde imbruna;
Tale de’ Teucri c degli Achei nel vasto
Campo sedute comparian le file.
Trasse Ettorre nel metzo , e cosi disse :
Udite , o Teucri ; udite attenti , o Achivi ,
Ciò che nel petto mi ragiona il core.
Ratificar non piacque all’ alto Giove
I nostri giuramenti, e in suo segreto
Agli uni e agli altri macchinar ne sembra
Grandi infortunj , finché 1’ ora arrivi ,
Ch’ Ilio per voi s’ atterri , o che voi stessi
Atterrati restiate appo le navi.
Or quando il vostro campo il fior racchiude
Degli achivi guerrieri, esca a duello
Chi cuor si sente : lo disfida Ettorre.
Elccovi i patti del certame, e Giove
Testimonio ne sia : se il mio nemico
M’ ucciderà , dell’ armi ei mi dispogli ,
E le si porti ; ma il mio corpo renda ,
Onde i Trojani e le trojane spose
M’ onorino del rogo. Ov’ io lui spegna ,
Ed Apollo la palma a me conceda ,
Porteronne le tolte armi nel sacro
Ilio , e del nume appenderolle al tempio ;
Ma 1’ intatto cadavere alle navi
*Vi sarà rimandato , onde d’ esequie
L’ orni l’ achea pietade c di sepolcro
Su F Ellesponto. Lo vedrà de’ posteri
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». lOI-I^O LIBRO VII I
Navigaoti qualcuno , e ila che dica :
Ecco la tomba d' un antico prode ,
Che combattendo coll'illustre Cttorre,
Glorioso per). Questo 6a detto
Ed eterno vivrassi il nome mio.
All’audace disfida ammutolirò
Gli Achei, tementi d’ accettarla , e insieme
Di recusarla vergognosi. Alfine
In piè rìzzossi Menelao , nell’ imo
Del cor gemendo ; ed in acerbi detti
Prorompendo, gridò: Vili superbi,
Achive , non Achei I Fia questo il colmo
Dell’ ignominia , se tra voi non trova
Quell’ audace Trojan chi gli risponda.
Oh! possiate voi tutti in nebbia e polve
Resoluti sparir, voi, che vi state
Qui senza core immoti e senza onore.
Ma io medesmo , io s: , contra costui
Scenderò nell’arena. In man de’ numi
Della vittoria i termini son posti.
Ciò detto, l’armi indossa. E certo allora
Per le mani d’ Ettorre , o Menelao ,
Trovato avresti di tua vita il fine ,
( Ch’ egli di forza ti vincea d’ assai )
Se subito in piè surti i prenci achivi
Non rattenean tua foga. Egli medesmo
n regnatore Atride Agamennòne
L’aflerrò per la mano , e: Tu deliri.
Disse, e il delirio non ti giova. Or via.
Fa senno, e premi il tuo dolor, nè spinto
Da bellicosa gara avventurarti
Con un più prode, di cui tutti han tema ,
Col Priamide Ettorre. Anco il PeU'de,
S) più forte di te, lo scontro teme
Di quella lancia nel conflitto. Or dunque
Ritorna alla tua schiera, e statti in posa.
Gli desteranno incontra altro più fermo
Duellator gli Achivi , e tal eh’ Ettorre ,
Intrepido quantunque ed indefesso.
Metterà volentier, se dritto io veggo,
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l5o ILIADE ». l4l.|go
Le ginocchia in riposo, ove pur sia,
Che netto egli esca dalla gran tenzone.
Svolse il saggio parlar del sommo Àtride
Del fratello il pensier, che obbediente
Quetossi, c lieti gli levàr di dosso
Le bell'arme i sergenti. Àllor nel mezzo
Surse Nestore, c disse: Eterni Dei !
Oh di che lutto ricoprirsi io veggio
La rasa degli eroi, l’achea contrada!
Oh quanto in cor ne gemerà l'antico
Di cocchi agitator, Pcléo , di lingua
Fra'Mirmidón sì chiaro e di consiglio^
Egli, che in sua magion solca di tutti
Gli Achei le schiatte dimandarmi e i figli ,
E giubilava nell' udirli! Ed ora.
Se per Ettorre ei tutti li sapesse
Di terror costernati, oh come al cielo
Alzerebbe le mani, c pregherebbe
Di scendere dolente anima a Fiuto !
O Giove padre, o Palladc, o divino
Di Latona figliuoli che non son io
Nel fior degli anni, come quando in riva
Pugnàr del ratto Celadonte i Pilj
Con la sperta di lancia arcade gente
Sotto il muro di Fca verso le chiare
Del Jàrdano cori-enti? Alla lor testa
Ereutalion venia, che pari a nume
L'armatura regai d’Areitóo
Indosso avea, del divo Areitóo,
Che gli iiomin tutti c le ben cinte donne
Clavigero nomar ^ perchè non d'arco.
Nè di lunga asta armato ei combattea,
Ma con clava di ferro poderosa
Rorapea le schiere. A lui diè morte poscia.
Pel valore non già, ma per inganno
Licurgo al varco d'un angusto calle.
Ove il rotar della ferrata clava
Al suo scampo non valse ^ chè Licurgo,
Prevenendone il colpo, traforógli
L'epa coll'asta, c stramazzollo; c Tarmi
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Così gli tolse, che da Marte egli ebbe,
Armi, che poscia l’uccisor portava
Ne’ fervidi conflitti, insin che, fatto
Per vecchiezza impotente, al suo diletto
Prode scudiero Ereutalion le cesse.
Di queste dunque altero iva costui.
Disfidando i più forti^ ed atterriti
N’cran sì tutti, che nessun si mosse.
Ma io mi mossi audace core, e d’anni
Minor di tutti, m’azzuffai con esso,
E col favor di Pallade lo spensi:
Forte, eccelso campion, che in molta arena
Giaceami steso al piede. Oh mi fiorisse
Or quell’ etadc c la mia forza intégra!
Per certo Ettorre trovcria qui tosto
Chi gli risponda. E voi del campo acheo
I più forti, i più degni, ad incontrarlo
Voi non andrete con allegro petto?
Tacque^ e rizzàrsi subitani in piedi
Nove guerrieri. Si rizzò primiero
n re de’ prodi Àgamennón^ rizzossi
Dopo lui Diomede^ indi ambedue
Gli impetuosi Àjaci*, indi, col fido
Merìon bellicoso, Idomenéo^
E poscia d’Evemon l’inclito figlio,
Eurìpilo, e Toànte Àndremonidc,
E il saggio Ulisse finalmente ; ognuno
Chiese il certame coll’eroe trojano.
Disse allora il buon veglio: Arbitra sia
Della scelta la sorte; e sia l’eletto.
Salvo tornando dall’ardente agone,
Degli Achei la salute e di sé stesso.
Segna a quel detto ognun sua sorte, e dentro
L’elmo la gitta del maggiore Atride.
La turba intanto supplieante ai numi
Sollevava le palme; e con gli sguardi
Fissi nel cielo, udiasi dire: O Giove,
Fa che la sorte il Telamònio Ajace
Nómi, o il Tidide, o di Mieene il sire.
Così pregava; e il cavalier Nestorre
ILIADE
«*. aa 1*960
53
Agitava le sorti: c«l ecco uscirne
Quella, che tutti desiar. La prese,
E a dritta e a manca ai prenci achivi in giro
La mostrava l’araldo, e nullo ancora
La conoscea per sua. Ma come, andando
Dall’uno all’altro, il banditor pervenne
Al Telamdnio Ajace, e gliela porse,
Riconobbe l’eroe lieto il suo segno ^
E, gittatolo in mezzo: Amici, è mia.
Gridò, la sorte, e ne gioisce il core.
Che su l’illustre Ettór spera la palma.
Voi, mentre l’armi io vesto, al sommo Giove
Supplicate in silenzio, onde non sia
Dai teucri orecchi il vostro prego udito ^
O supplicate ad alta voce ancora.
Se si vi piace; chè nessuno io temo.
Nè guerriero v’avrà, che, mio malgrado.
Di me tii'onG, nè per fallo mio.
SI rozzo in guerra non lasciommi, io spero.
La marzial palestra in Salamina,
Nè il chiaro sangue, di che nato io sono.
Disse; e gli Achivi àlzàr gli sguardi al cielo,
E a Giove supplicar con questi accenti:
Saturnio padre, che dall’ Ida imperi
Massimo, augusto, vincitor deh! rendi
E glorioso Ajace; o se pur anco
T’è caro Ettorre e lo proteggi, almeno
Forza ad entrambi e gloria ugual concedi.
Di splendid’ armi frettoloso intanto
Ajace si vestiva: e poiché tutte
L’ ebbe assunte dintorno alla persona.
Concitato avviossi , c camminava
Quale incede il gran Marte allor che scende
Tra fiere genti stimolate all’ armi
Dallo sdegno di Giove, e dall’insana
Roditrice dell’ alme empia Contesa.
Tale si mosse, degli Achei trincierà.
Lo smisurato Ajace, sorridendo
Con terribile piglio; c misurava
A vasti passi il suol, l’asta crollando.
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LIBIIO TU
i53
f. >6i-3oo
Che lunga sul terren l'ombra spandea.
Di letizia esultavano gli Acliivi
A riguardarlo ; ma per l’ossa ai Teucri
Corse subito un gelo. Palpitonne
Lo stesso Ettòr; ma nè schivar per tema
Il fier cimento, nè tra' suoi ritrarsi
Più non gli lice^ cbè fu sua la sfida.
E già gli è sopra Ajace coll'immenso
Pavese, che parea mobile torre ^
Opra di Tichio, d'ila abitatore,
Prestantissimo fabbro, che di sette
Costruito l' avea ben salde e grosse
Cnoja di tauro, c indottavi di sopra
Una falda d'acciar. Con questo al petto
Enorme scudo il Telamónio eroe
Féssi avanti al Trojano, e minaccioso
Mosse queste parole: Ettore, or chiaro
Saprai da solo a sol quai prodi ancora
Rimangono agli Achei dopo il Pelide,
Cuor di bone e rompitor di schiere.
Irato coll' Atride , egli alle navi
Neghittoso si sta; ma noi siam tali.
Che non temiamo lo tuo scontro, e molti.
Comincia or tu la pugna, e tira il primo.
Nobile prence Telamdnio Ajace,
Rispose Ettorre, a che mi tenti, e parli
Come a imbelle fanciullo o femminetta.
Cui dell' armi il mestiere è pellegrino?
E anch'io trattar so il ferro e dar la morte,
E a dritta e a manca anch'io girar lo scudo,
E infaticato sostener l’attacco,
E a piè fermo danzar nel sanguinoso
Ballo di Marte, o d’un salto sul cocchio
Lanciarmi, e concitar nella battaglia
I veloci destrier. Nè già vogl’ io
Un tuo pari ferire insidioso.
Ma discoperto, se arrivar ti posso.
Ciò detto, bilanciò colla man forte
La lunga lancia, e saettò d’ Ajace
II settemplice scudo. Furiosa
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|54
ILlàDE
f. 3oi*3^o
La punta trapassò la ferrea falda,
Che di fuor Io copriva^ e via scorrendo,
Squarciò sei g:iri del bovin tessuto,
E al settimo fermossi. Allor secondo
Trasse Ajace, e colpì di Priamo il figlio
Nella rotonda targa. Traforolla
II frassino veloce, e nell'usbergo
Sì addentro si ficcò, che presso al lombo
Lacerògli la tunica. Piegossi
Ettore a tempo, ed evitò la morte.
Ricovrò l’uno e l’altro il proprio telo,
E all’assalto tornàr come per fame
Fieri leoni, o per vigor tremendi
Armfiati cinghiali alla montagna.
Di nuovo Ettorre coll’acuto cerro
Colpì lo scudo osti], ma senza offesa^
Ch’ivi la punta si curvò: di nuovo
Trasse Ajace il suo tcloj ed alla penna
Dello scudo ferendo, a parte a parte
Lo trapassò, gli punse il collo, e vivo
Sangue spiccionne. Nè per ciò l’attacco
Lasciò l’audace Ettorre. Era nel campo
Un negro ed aspro enorme sasso: a questo
Diè di piglio il Trojano, e contra il Greco
Lo fulminò. Percosse il duro scoglio
Il colmo dello scudo, e orribilmente
Ne rimbombò la ferrea piastra intorno.
Seguì l’esempio il gran Telamonide;
Ed aflerrato e sollevato ei pure
Un altro più d’assai rude macigno.
Con forza immensa lo rotò, lo spinse
Contra il nemico. 11 molar sasso infranse
L' ettoreo scudo ^ e di tal colpo offese
Lui nel ginocchio, che riverso ci cadde
Con lo scudo sul petto ^ ma rizzollo
Immantinente di Latona il figlio.
E qui tratte le spade i due campioni.
Più da vicino si ferian, se ratti,
Messaggieri di Giove e de’ mortali ,
Non accorrean gli araldi, il teucro Idèo,
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LIBRO VII
|55
V. 34i-38o
E l'achivo Taltibio, ambo lodati
Di prudente consiglio. Entrar costoro
Con securtade in mezzo ai combattenti;
Ed interposto fra le nude spade
Il pacifico scettro, il saggio Idèo
Così primiero favellò: Cessate,
Diletti figli, la battaglia. Entrambi
Siete cari al gran Giove, entrambi {e chiaro
Ognun sei vede) acerrimi guerrieri;
Ma la notte discende, e giova, o figli.
Alla notte obbedir. — Dimandi Ettorre
Questa tregua, rispose il fiero Ajace:
Primo ei tutti sfidonne, e primo ei chiegga.
Ritirerommi, se F esempio ei porga.
E l’illustre rivai tosto riprese:
Ajace, i numi ti largir cortesi
Pari alla forza ed al valore il senno.
E nel valor tu vinci ogni altro Acheo.
Abbian riposo le nostr’armi, e cessi
La tenzon. Pugneremo altra fiata
Finché la Parca ne divida, e intera
All’ uno 0 all’ altro la vittoria dóni.
Or la notte già cade, e della notte
Romper non déssi la ragion. Tu riedi
Dunque alle navi a rallegrar gli Achivi.
I congiunti, gli amici, lo nella sacra
Città riéntro a serenar de' Teucri
Le meste fironti e le dardanie donne.
Che in lunghi pepli avvolte appiè dell’ are
Per me si stanno a supplicar. Ma pria
Di dipartirci, un mutuo dono attesti
La nostra stima; e gli Achei poscia e i Teucri
Diran: Costoro duellàr coll’ira
Di fier nemici, c separàrsi amici.
Così dicendo, la sua propria spada
Gli presentò d’argentei chiovi adorna
Con fulgida vagina, ed un pendaglio
Di leggiadro lavoro; Ajace a lui
II risplendente suo purpureo cinto.
Così divisi, agli Achei l’uno, ai Teucri
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i56
ILIADE
r. 18l*4iO
L'altro avriossi. Esilaràrsi i Teucri,
Vivo il lor duce ritornar veggendo
Dalla forza scampato e dall’ invitte
Mani d’Ajace; e trepidanti ancora
Del passato periglio alla cittadc
L’accompagnaro. Dall’opposta parte
Della palma superbo il lor campione
Guidar gli Àchivi al padigliou d’Atride,
Che, per tutti onorar, tosto al Tonante
Un bue quinquenne in sacriheio offerse.
Lo scuojdr, lo spaccir, lo fóro in brani
Acconciamente, e negli spiedi infisso,
L’abbrustolàr con molta cura^ e tolto
Il tutto al foco, l’apprestlr sul desco,
E banchettando ne cibò ciascuno
A pien talento. Ma l’immenso tergo
Del sacro bue donoUo Agamenndnc,
D’onore in segno, al vincitor guerriero.
Del cibarsi e del ber spento il desio,
Il buon veglio Nestorre, di cui sempre
Ottimo uscia l’avviso, in questo dire
Svolse il suo senno: Atride e duci achei.
Questo giorno fatai la vita estinse
Di molti prodi, del cui sangue rossa
Fe l’aspro Marte la scamandria riva,
E all’Orco ne passar l’ombre insepolte.
Al nuovo sole le nostr’armi adunque
Si restino tranquille^ e noi, sul campo
Convenendo, imporrem le salme esangui
Su le carrette; e muli oprando e buoi.
Qui ne faremo il pio trasporto, e al rogo
Le darem lungi dalle navi alquanto ,
Onde al nostro tornar nel patrio suolo
Le ceneri portarne ai mesti figli:
E dintorno alla pira una comune
Tomba ergeremo; e di muraglia e d’alte
Torri, a difesa delle navi e nostra,
Con rapido lavor la cingeremo ,
E salde vi apriremo e larghe porte
Per l’egresso de’ cocchi. Indi un’esterna
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Lnwo TU
r.
Profonda fossa scaverem, che tutta
Circondi la muraglia, e de' cavalli
L’impeto affireni e de’pedon, se mai
De’ Teucri irrompa l’orgoglioso ardire.
Disse^ e tutti annuirò i prenci achei.
Di Prìamo alle soglie in questo mentre
Su l’alta iliaca ròcca i Teucri anch’essi
Tenean confusa e trepida consulta.
Primo il saggio Àntendr si prese a dire:
Dardànidi, Trojani, e voi venuti
In sussidio di Troja, i sensi udite,
Che il cor mi porge. Rendasi agli Àtridi
Con tutto il suo tesor l’ argiva Eléna.
Violammo noi soli il giuramento;
E quindi inique le nostr’armi sono.
Se non si rende, non avrem che danno.
Cosi detto, s’ assise. E, surlo in piedi
Il bel marito della bella Argiva,
Cosi Pari rispose: ÀI cor m’è grave,
Antenore, il tuo detto; e so che porti
Una miglior sentenza in tuo segreto.
Chè se parli dawer, davvero i numi
Ti han tolto il senno. Ma ben io qui schietti
I miei sensi aprirò. La donna io mai
Non renderò, giammai. Quanto alle ricche
Spoglie, che d’Argo a queste rive addussi.
Tutte render le voglio , ed altre ancora
Aggiungeronne di mio proprio dritto.
Tacque; e sul seggio si raccobe. Allora
In sembianza d’un Dio levossi in mezzo
II Dardànide Prìamo; ed: Udite,
Teucri, ei disse, e alleati, il mio pensiero.
Quale il cor Io significa. Pel campo
Del consueto cibo si rbtauri
Ognuno, e attenda alla sua scolta, e vegli.
Col nuovo sole alle nemiche navi
Idèo sen vada , c ad ambedue gli Atridi
Di Paride, cagion della contesa.
Riferisca la mente, e una discreta
Proposta aggiunga di cessar la guerra ,
iSy
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58
lUADE
•. 4^i-5oo
Finché il rogo consunte abbia le morte
Salme de’ nostri , per pugnar di poi
Finché la Parca ne spartisca , e agli uni
Conceda o agli altri la vittoria integra.
Tutti assentirò riverenti al detto ;
Indi pel campo procuràr le cene
In divisi drappelli. Il di novello
Alle navi s’avvia l’araldo Idèo,
E raccolti ritrova a parlamento
1 bellicosi Achei davanti all’ alta
Agamennónia poppa. Appresentossi
Tosto il canoro banditore , e disse :
Atridi e duci achei, mi dié comando
Priamo , e di Troja gli ottimati insieme ,
Di sporvi, se vi ila grato l’udirla.,
Di Paride, cagion di questa guerra.
Una profferta : le ricchezze tutte ,
Ch’ei d’Argo addusse (oh pria perito ei fosse!),
Ei tutte le vi rende , ed altre ancora
Di sua ragion n’ aggiungerà. Ma quanto
Alla gentil tua donna , o Menelao,
Di questa ei niega il rendimento, e indarno
L’ esortano i Trojani. E un’altra io reco
Di lor proposta : se quetar vi piaccia
Della guerra il furor , finché de’ morti
Le care spoglie il foco abbia combuste.
Per indi razzuffarci infin che piena
Tra noi decida la vittoria il fato.
Disse ^ e tutti ammutir. Sciolse il Tidide
Alfin la voce 5 e : Niun di Pari , ei grida ,
L’offerta accetti, né la stessa pure
Rapita donna. Ai Dàrdani sovrasta.
Un fanciullo il vedrìa , l’ esizio estremo.
Piansero tutti al suo parlar gli Achivi
Con alte grida, e n’ ammirare il senno.
Indi vólto all’ araldo il grande Atride :
Idèo , diss’ egli , per te stesso udisti
DegU Achei la risposta , e in un la mia.
Quanto agli estinti, di buon grado assento
Che siano incesi ^ ché non déssi avaro
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Soi-S4o turno vu i5g
Elsser di rogo a chi di vita è privo,
Né porre indugio a consolarne T ombra
Coir officio pietoso. Il fulminante
Sposo di Giuno il nostro giuro ascolti.
Cosi dicendo , alzò lo scettro al cielo;
E l'araldo tomossi entro la sacra
Cittade ai Teucri, già del suo ritorno
Impazienti, e in pien consesso accolti.
Giunse ; e intromesso la risposta espose.
Si sparsero allor ratti, altri al carreggio
De’ cadaveri intenti , altri al funébre
Taglio de' boschi. Dall' opposta parte
Un cuor medesmo , una medesma cura
Occupava gli Achivi. E già dal queto
Grembo del mare al ciel montando il sole.
Co’ rugiadosi lucidi suoi strali
Le campagne feria , quando nell’ atra
Pianura si scontrar Teucri ed Achei,
Ognuno in cerca de’ suoi morti, a tale
Dal sangue sfigurati e dalla polve,
Che mal se ne potca , senza lavarli.
Ravvisar le sembianze. Alfin trovati
E conosciuti , li ponean su i mesti
Plaustri, piangendo. Ma di Priamo il senno
Non consentia del pianto a’ suoi lo sfogo.
Quindi afllitti , ma muti , al rogo i Teucri
Diero a mucchi le salme ; ed arse tutte.
Col cuor serrato alla città tomaro.
D’ un medesmo dolor rotti gli Achei ,
I lor morti ammassar sovra la pira;
E come gli ebbe la funerea fiamma
Consumati , del mar preser la via.
Non biancheggiava ancor l’alba novella,
Ma il barlume soltanto antelucano ,
Quando d’Achei d’intorno all’alto rogo
Scelto stuolo afibllossi. E primamente
Alzàr dappresso a quello una comune
Tomba agli estinti, cd alla tomba accanto
Una muraglia a edificar si diero
D’ alti torrazzi ghirlandata , a schermo
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l6o ILIADE ■>. S4l-S8o
Delle navi c di sé: porte vi féro
Di salda imposta, e di gran varco al volo
De' bellicosi cocchi ^ indi lunghesso
L' esterno muro una profonda « vasta
Fossa scavar, di pali irta c gremita.
Degli Achei la stupenda opra tal era.
La contcmplàr, maravigliando, i numi
Seduti intorno al Dio de' tuoni 4 e irato
Si prese a dir 1' Enosigéo Nettnnno :
Giove padre , chi fia più tra' mortali ,
Che gl' Immortali in avvenir consulti ,
E u' implori il favor? Vedi tu quale
E quanto muro gli orgogliosi Achei
Innanti alle lor navi abbian costrutto ,
E circondato d' un' immensa fossa
Senza offerir solenni ostie agli Dei?
Di cotant'opra andrà certo la fama
Ovunque giunge la divina luce,
E il grido morirà delle sacrate
Mura , che al re Laomedontc un tempo
Intorno ad Iliione Apollo ed io
nidificammo con assai fatica.
Che dicesti ? sdegnoso gli rispose
L' adunator de' nembi : altro qualunque
Iddio di forza a te minor potrebbe
Di questo paventar. Ma del possente
Enosigéo la gloria al par dell' almo
Raggio del sole splenderà per tutto.
Or ben: sì tosto che gli Achei faranno,
Veleggiando , ritorno al patrio lido,
E tu quel muro abbatti, e tutto quanto
Sprofondalo nel mare , e d' alta arena
Coprilo si, che ogni orma ne svanisca.
In questo favellar 1' astro s' estinse
Del giorno, c l’opra degli Achei fu piena.
Della sera allestite indi le mense
Per le tende, cibàr le opime carni
Di scannati giovenchi, c ristorarsi
Del vino , che recato avean di Lenno
Molti navigli; c li spediva Cuneo,
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V. 58l-6oo LIBRO TU l6l
DMssipile figliuolo e di Giasone.
Mille sestieri in amichevol dono
Eunéo ne manda ad ambedue gli Àtridi^
Compra il resto 1' armata , altri con bronzo ,
Altri con lame di lucente ferro ;
Qual con pelli bovine , e qual col corpo
Del bue medesmo, o di robusto schiavo.
Lieto adunque imbandir pronto convito
Gli Àchivi , e tutta banchettar la notte.
Banchettava del par nella cittade
Con gli alleati la dardània gente.
Ma tntta notte di Saturno il figlio
Con terribili tuoni annunziava
Alte sventure nel suo senno ordite.
Di pallido terror tutti compresi ,
Dalle tazze spargean le spume a terra
Devotamente ; nè veruno ardia
Appressarvi le labbra , se libato
Pria non avesse al prepotente Giove.
Corcàrsi alfine, e su lor scese il sonno.
Morti. Iliade.
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MURO OTTAVO
ARGOMBKTO
Giove, 3opo aver ioterdotto mìurcioaameote agli Dei di |treD«ltr parte Dalla gumn Ji
Troia , diaoeode sul moote Ida a rimirare la ballaglia. Da prima »i com lotta «la ambe le
parti eoo eguale fortuna. Giove , avendo pesalo i (ali de* Trojani « de* Greci , e prcvalcmb»
quello de’Trojaoi, altcrritce i Greci eoo ud fulmine. Do|>o varj fatti» questi aooo scunfìlti.
Giunone e Minerva, scese per soccorrerli, sono riebiatpate da Iride per comando dì Giove.
Consesso degli Dei. Rimproveri di Giove a Giuoooe: sue pande, e brusca risposta del Dio.
La lultagUa ressa al venire della notte. Partala di Ettore ai Trojani. Per sno ordine si ac<
cendboo dei fuorbi nelle case della riuà , rd i veerbi ed i ginvanetli vegliano alla custodia
delle mura : t guerrieri accendono essi pure de* fuochi , e passano la notte fra i conviti nel
rampo e sotto le armi, onde impedire che i Greci non fuggauo di soppiatto col livore delle
tenebra.
Già spiegava T aurora il croceo velo
Sul volto della terra , c co’ Celesti
Su l’alto Olimpo il folgorante Giove
Tenea consiglio. Ei parla, e riverenti
Stansi gli Eterni ad ascoltar: M’ udite
Tutti, ed abbiate il mio voler palese j
E nessuno di voi, nè Dio nè Diva,
Di frangere s’ardisca il mio decreto^
Ma tutti insieme il secondate, ond’io
L’opra, che penso, a presto fin conduca.
Qualunque degli Dei vedrò furtivo
Partir dal ciclo, e scendere a soccorso
De’ Trojani o de’ Greci, egli all’ Olimpo
Di turpe piaga tornerassi ofleso^
O l’ afferrando di mia mano io stesso.
Nel Tartaro remoto c tenebroso
Lo gitterò, voragine profonda,
Cbe di bronzo ha la soglia c ferree porte,
E tanto in giù nell’ Orco s' inabissa ,
Quanto va lungi dalla terra il ciclo.
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r. a 1-60
ILIADE, LIBRO Vili |{)3
Alloi- saprà, che degli Dei sou io
Il più possente. E vuoisene la prova?
D’oro al cielo appendete una catena,
E tutti a questa v’ attaccate , 0 Divi ,
E voi, Dive, e traete. E non per questo
Dal ciel trairete in terra il sommo Giove,
Supremo senno, nè pur tutte oprando
Le vostre posse. Ma ben io, se il voglio,
La trarrò colla terra e il mar sospeso^
Indi alla vetta dell’ immoto Olimpo
Annoderò la gran catena, ed alto
Tutte da quella penderan le cose :
Cotanto il mio poter vince de’ numi
Le forze e de’ mortai. — Qui tacque; c tutti,
Dal minaccioso ragionar percossi.
Ammutolir gli Dei. Ruppe Minerva
Finalmente il silenzio, e così disse:
Padre e re de’ Celesti , e noi pur anco
Sappiam che invitta è la tua gran possanza.
Ma nondimen de’ bellicosi Achei
Pietà ne prende, che di fato iniquo
Son vicini a perir. Noi dalla pugna.
Se tu il comandi, ci terrem lontani;
Ma non vietar che di consiglio almeno
Sicn giovati gli Achivi, onde non tutti
Cadan nell’ira tua disfatti e morti.
Con un sorriso le rispose il sommo
De’ nembi adunator: Confoi*ta il core,
Diletta figlia; favellai severo,
Ma vo’ teco esser mite. — E così detto.
Gli orocriniti eripedi cavalli
Come vento veloci al carro aggioga;
Al divin corpo induce una lorica
Tutta d’auro; c alla man data una sferza
Pur d’auro intesta e di gentil lavoro.
Munta il cocchio, c flagella a tutto corso
1 corridori, che volar bramosi
Infra la terra c lo stellato Olimpo.
Tosto all’lda, di belve e di rigosi
Fonti altriee, arrivò su l’ardua cima
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64
niADB
». 61-100
Del Gàrgaro, ove sacro a lui frondeggia
Un bosco, e fuma un odorato altare.
Qui degli nomini il padre e degli Dei
Rattenne e dal timon sciolse i cavalli,
E di nebbia gli avvolse. Indi s' assise
Esultante di gloria in su la vetta.
Di là lo sguardo a Troja rivolgendo
Ed alle navi degli Achei , che, preso
Per le tende alla presta un parco cibo,
Armavansi. Eid all' armi anch’essi i Teucri
Per la città correan : nè gli sgomenta
11 numero minor; chè per le spose
E pe' 6gli a pugnar pronti li rende
Necessità. Spalancansi le porte;
Eirompono pedoni e cavalieri
Con immenso tumulto; e, giunti a fronte.
Scudi a scudi, aste ad aste e petti a petti
Oppongono, e di targhe odi e d'usberghi
Un fiero cozzo, ed un fragor di pugna,
Che rinforza più sempre. De' cadenti
L' urlo si mesce coll' orribil vanto
De' vincitori , e il suol sangue correa.
Dall' ora che le porte apre al mattino
Fino al merigge, d' ambedue le parti
Durò la strage con egual fortuna.
Ma quando ascese a mezzo cielo il Sole,
Alto spiegò l'onnipossente Iddio
L’ auree bilance , e due diversi fati
Di sonnifera morte entro vi pose,
n trojano e 1' acheo. Le prese in mezzo ,
Le librò, sollevolle, e degli Achivi
Il fato decbinò, che traboccando
Percosse in terra, e balzò l’altro al cielo.
Tonò tremendo allor Giove dall' Ida ,
E un infocato fulmine nel campo
Avventò degli Achei, che, stupefatti
A quella vista, impallidir di tema.
Nè Idomenèo, nè il grande Agamennóne,
Nè gli Ajaci, ambedue lampi di Marte,
Fermi al lor posto rimaner fur osi.
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ioi-i4o libro vili i65
Solo il Gerenio, degli Achei tutela,
Nestore, vi restò, ma suo mal grado ^
Chè un destrier l’impedi'a, cui di saetta
D’Elena bella l’avvenente drudo
Nella fronte feri laddove spunta
Nel teschio de’ cavalli il primo crine.
Ed è letale il loco alle ferite.
Inalberossi il corridor trafitto 4
Chè nel cerébro entrata era la freccia ,
E dintorno alla rota per 1’ acuto
Dolor si voltolando, in iscompiglio
Mettea gli altri cavalli. Or mentre il vecchio
Gli si fa sopra colla daga, e tenta
Tagliarne le tirelle, ecco veloci
Fra la calca e il ferir de’ combattenti
Sopraggiungere d’Ettore i destrieri.
Superbi di portar si grande auriga.
E qui perduta il veglio avria la vita.
Se del rischio di lui non s’accorgea
L’invitto Diomede. Un grido orrendo
Di pugna eccitator mise l'eroe
Alla volta d’ Ulisse: Ah! dove, immemore
Di tua stirpe divina, dove fuggi.
Astuto figlio di Laerte, e volgi.
Come un codardo della turba, il tergo?
Bada, che alcun le fuggitive spalle
Non ti giunga coll’asta. Agl’ inimici
Volta la fronte, ed a salvar vien meco
Dal fìiror di quel fiero il vecchio amico.
Quelle grida non ode, e ratto in salvo
Fugge Ulisse alle navi. Allor rimasto
Solo il Tidide, si sospinse in mezzo
Ai guerrier della fronte; avanti al cocchio
Di Nèstore piantossi; e, lui chiamando.
Veloci gli drizzò queste parole:
Troppo feroce gioventù nemica
Ti sta contra, o buon vecchio, e infermi troppo
Sono i tuoi polsi: hai grave d’anni il dorso,
Hai debole 1’ auriga e i corridori.
Monta il mio cocchio, e la virtù vedrai
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IIIAHE
ifi6
Del caTalli di Troc, ehe dianzi io tolsi
D'AnrhIse ni figlio, a maraviglia spcrti
A fuggir ratti In campo e ad Inseguire.
Lascia cotesti agli scudieri in ctira^
Driz.ziam questi nc’ Teucri , e vegga Kltorrc
S'aiico In mia man la lancia è furibonda.
Disse: nè il veglio ricusò l’invito.
Di Stèndo e del buon Eurimedontc ,
Valorosi scudieri, egli al governo
Cesse le sue puledre; e tosto il cocchio
Del Tidide salito, in man si tolse
Le bellissime briglie, c col flagello
I corsieri percosse. In un baleno
Giunscr d’Ettore a fronte, che diritto
Lor d’incontro venia con gran tempesta.
Trasse la lancia Diomede, c il colpo
Errò; ma su le poppe in mezzo al petto
Colpì l’auriga Eniopco, figliuolo
Dell’ inclito Tebéo. Cade II trafitto
Giù tra le rote colle briglie in pugno;
S’ arretrano I destrieri ; e in quello stato
Perde ogni forza l’Infelice, e spira.
Del morto auriga addolorossi Ettorre;
E mesto di lasciar quivi il compagno
Nella polve disteso, un altro audace
Alla guida del carro ivi cercando.
Nè di rettor gran tempo ebber bisogno
I suoi destrieri; chè gli occorse all’uopo
L’animoso Archepólemo d'Ifito,
Cui sul carro montar fa senza indugio,
E gli abbandona nella man le briglie.
Immensa strage allora e fatti orrendi
Fòran d’arme seguiti, e come agnelli
Stati In Ilio sarian racchiusi i Teucri ,
Se de’ Celesti il padre e de’ mortali
Tosto di ciò uon s’ accorgea. Tonando,
Con gran fragore un fulmine rovente
Vibrò nel campo il nume, c il fece in terra
Guizzar di Diomede innanzi al cocchio:
E sùbita n’uscia d’ardente zolfo
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». iSl-iio ‘•««0 Vili 167
Una tcrribii vampa. Spaventali
Costcrnansi i destrier, scappan di mano
A Nèstore le briglie^ onde al Tidide
Rivoltosi tremante: Ab! piega, ei grida,
Piega indietro i cavalli, o Diomede;
Fuggiam: noi vedi? contro noi combatte
Giove irato , e a costui tutto dar vuole
Di presente Ponor della battaglia.
Darallo, se gli piace, un’altra volta
A noi pur; ma di Giove oltrapossente
n supremo voler forza non paté.
Tutto ben parli, o vecchio, gli rispose
L’ imperturbato eroe; ma il cor mi crucia
La dolorosa idea, eh' Ettore un giorno
Fra’ Trojani dirà gonfio d’ orgoglio:
Io fugai Diomede, io lo costrinsi
A scampar nelle navi. — Ei questo vanto
Menerà certo; e a me si fenda allora
Sotto i piedi la terra, e mi divori.
E Nèstore ripiglia: Ah! che dicesti.
Valoroso Tidide? c quando avvegna
Che un codardo , un imbelle Ettor ti chiami ,
I Trojani non già sei crederanno.
Nè le trojane spose, a cui nell’atra
Polve stendesti i floridi mariti.
Disse; e addietro girò tosto i cavalli.
Tra la calca fuggendo. Ettorre e i Teucri
Con urli orrendi li seguirò, e un nembo
Piovean su lor d’acerbi strali, ed alto
Gridar s’udiva de’ Trojani il duce:
1 cavalieri argivi, 0 Diomede,
E di seggio e di tazze e di vivande
Te finora onorar su gli altri a mensa;
Ma deriso or n’andrai; chè un cor palesi
Di femminetta. Via di qua, fauciulla;
Non salirai tu , no , fin eh’ io respiro ,
D’Ilio le torri, nè trarrai cattive
Le nostre mogli nelle navi, e morto
Per la mia destra giacerai tu pria.
Steltesi in forse a quel parlar 1’ eroe
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i68
ILIADE
V. iai.2^
Di dar volta ai cavalli, e d’ aflrontarlo.
Ben tre volte nel core e nella mente
Gliene corse il desio, tre volte Giove
Rimurmorò dall' Ida, e fe securi
Della vittoria con quel segno i Teucri.
Con orribile grido Ettore allora
Animando le schiere: O Licj, o Dàrdani,
0 Trojani, dicea, prodi compagni.
Mostratevi valenti, e fuor mettete
Le generose forze. Io non m’inganno^
Giove è propizio: di vittoria a noi
E d’esizio a’ nemici ci diede il segno.
Stolti! chò questo alzar debile muro,
Troppo al nostro valor frale ritegno.
Quella lor fossa varcheran d’un salto
1 miei cavalli; e quando emerso a vista
Io sarò delle navi, allor le faci
Ministrarmi qualcun si risowegna,
Ond’io qne' legni incenda, e fra le vampe
Sbalorditi dal fumo i Greci uccida.
Poi conforta i destrieri, e si lor parla:
Xanto, Podargo, Etòn, Lampo divino.
Mercè del largo cibo or mi rendete.
Che dell'illustre Eczion la. figlia,
Andromaca, vi porge, il dolce, io dico,
Frumento , e 1' alma di Lieo bevanda ,
Ch’ella a voi mesce desiosi, a voi
Pria che a me stesso, che pur suo mi vanto
Giovine sposo. Or via, volate; andiamo
Alla conquista del nestóreo scudo.
Di cui va il grido al cielo, e tutto il dice
D’ auro perfetto , e d’ auro anco la guiggia.
Poi di dosso trarremo a Diomede
L’ usbergo , esimia di Vulcan fatica.
Se cotal preda ne riesce, io spero.
Che ratti i Greci su le navi in questa
Notte medesma salperan dal lido.
Del superbo parlar forte sdegnossi
L’augusta Giuno, e s’agitò sul trono
Si, che scosso tremonne il vasto Olimpo.
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Lino vni
169
Quindi, rivolte le parole al grande
Dio Nettunno, si disse: E sarà vero,
Possente Enosigéo, che degli Argivi
A pietà non ti mova la mina?
Pur son essi, che in Elice ed in Ege
Récanti offerte graziose e molte.
E perchè dunque non vorrai tu toro
La vittoria bramar? Certo, se quanti
Siam difensori degli Achivi in cielo ,
Vorrem de’ Teucri rintuzzar l’orgoglio,
E al Tonante far forza, egli soletto
E sconsolato sederà su l’Ida.
Oh! che mai parli, temeraria Giuno?
Le rispose sdegnoso il re Nettunno:
Non sia, no, mai che col saturnio Giove
A cozzar ne sospinga il nostro ardire.
Rammenta ch’egli è onnipossente; e taci.
Mentre seguian tra lor queste parole.
Quanto intervallo dalle navi al muro
La fossa comprendea, tutto era denso
Di cavalli, di cocchi e di guerrieri,
Ivi dal fiero Ettdr serrati e chiusi.
Che, simigliante al rapido Gradivo,
Infuriava col favor di Giove.
E ben le navi avn'a messe in faville.
Se l’alma Giuno in cor d’Agamennòne
Il pensier non ponea di girne attorno
Ratto egli stesso a incoraggiar gli Achivi.
Per le tende egli dunque e per le navi
Sollecito correa, raccolto il grande
Purpureo manto nel robusto pugno:
E cotal su la negra capitana
D’ Ulisse si fermò , che vasta il mezzo
Dell’armata tenca, donde distinta
D’ógni parte mandar potea la voce
Fin d’Ajace e d’Achille al padiglione.
Che l’ eguali lor prore ai lati estremi.
Nel valor delle braccia ambo securi,
Avean dedotte all’arenoso lido.
Di là fec’ egli rimbombar sul campo
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o
ILIADE
I'. 301-5^0
Quest’alto grido: Svcrgognàli Aclilvi,
Vituperi nell’ opre , e sol d’ aspetto
Maravigliosi ! dove dunque andaro
Gli alteri vanti, che menammo un giorno,
Di prodezza e di forza? In Lenno queste
Fur le vostre burbanze allor che 1’ epa
V einpican le polpe de' giovenchi uccisi,
K le ricolme tazze inghirlandate
Si venian tracannando, e si dicea.
Che un sol per cento e per dugento Teucri,
Un sol Greco valea nella battaglia.
F.d or tutti ne fuga un solo Ettorre,
Che ben tosto farà di queste navi
Cenere e fumo. O Giove padre, c quale
Altro mai re di tanti danni afflitto,
Di tanto disonor carco volesti ?
Pur io so ben che quando a questo lido
Il perverso destin mi conducea.
Giammai veruno de’ tuoi santi altari
Navigando lasciai sprezzato indietro^
Ma l’ adipe a te sempre e i miglior fianchi
De’ giovenchi abbruciai sovra ciascuno.
Bramoso d’ atteiTar l’ iliache mura.
Deh! almcn n’adempi questo voto^ almeno
Danne, o Giove, uno scampo colla fuga^
Nè per le mani del crudel Trojano
Consentir degli Achivi un tanto scempio.
Così dicea, piangendo. Ebbe pietadc
Di sue lagrime il numc^ e ad accennargli
Che non tutto il suo campo andria disfatto,
Il più sicuro de’ volanti augurio,
Un’aquila, spedì, che negli unghioni,
Tolto al covil della veloce madre.
Un cerbiatto stringendo , accanto all’ ara ,
Ove 1’ ostie svenar solean gli Achivi
Al fatidico Giove, dall’ artiglio
Cader lasciò la palpitante preda.
Gli Achei, veduto il sacro augcl, cui spinto
Conobbero da Giove, ad affrontarsi
Più coraggiosi ritornar co’ Teucri,
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. J4l-38o LIBRO vili 1^1
E rinfrescar la pugna. Allor nessuno
Pria elei Tidide fra cotanti Argivi
Vanto si diede d'agitar pel campo
I veloci corsieri , ed oltre il fosso
Cacciarli ed azzulTarsi. Egli primiero .
Anzi a tutti si spinse^ c a prima giunta
Agclao di Fradinon tolse di mezzo,
Uom trojano. Costui piegati in fuga
1 suoi destrieri avea. Coll’asta il tergo
Gli raggiunse il Tidide^ gliela fisse
Tra gli òmeri, e passar la fece al petto.
Cadde Agelao dal carro, e cupamente
L’armi sovr’esso rintonàr. Secondo
Agamennón si mosse ^ indi il fratello^
Indi gli Ajaci impetuosi^ c poi
Idomenéo con esso il suo scudiero
Merion, che di Marte avea l’aspetto^
Poi d’Evemon l’illustre figlio, Euripilo^
Ed ultimo giungea Teucro, del curvo
Elastic’ arco tenditor famoso.
D’Ajace Telamdnio egli Incossi
Dietro lo scudo, e dello scudo Ajace
Gli antepose la mole. Ivi securo
L’eroe guatava intorno^ e quando avea
Saettato nel denso un inimico.
Quegli, cadendo, perdea l’alma, e questi,
Come fanciullo della madre al manto,
Ricovrava al fratei , che alla grand’ ombra
Dello splendido scudo il proteggea.
Or dall’egregio arcier chi de’ Trojanl
Fu primo ucciso? Primamente Orsiloco;
Indi Ormeno e Ofeleste^ a questi aggiunse
Detore e Gromio, e per divin sembiante
Licofonte lodato, e Amopaone ^
Poliemonidc. e Melanippo, tutti
L’im dopo 1’ altro nella polve stesi.
Gioiva il re de’ regi Àgamennóne,
Mirandolo dall’ arco vigoroso
Lanciar la morte fra’ nemici ^ e a lui
V'cin venuto, sofiermossi, c disse:
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ILUDB
38i*4>o
171
Diletto capo, Telamdnio Teucro,
Siegui l’arco a scoccar; porta, se puoi,
A’ Danai un raggio di salute, e onora
n tuo buon padre Telamon, che un giorno
Ti raccolse fanciullo, c benché (rutto
Di non giusto imeneo, pur con pietoso
Tenero affetto in sua magiou ti crebbe.
Or tu fa eh’ egli salga in alta fama,
Sebben lontano. Ti prometto io poi ,
( E sacra tieni la promessa mia )
Che se Giove e Minerva mi daranno
D’ Ilio il conquisto, tu primier t’ avrai
Il premio, dopo me, de’ forti onore.
Ed in tua man porrollo io stesso, un tripode,
O due cavalli ad un bel cocchio aggiunti ,
O di vaghe sembianze una fanciulla.
Che teco il letto e 1’ amor tuo divida. '
E Teucro gli rispose: Illustre Atride,
A che mi sproni, per me stesso assai
Già fervido e corrente? Io non rimango
Di far qui tutto il mio poter. Dal punto
Che verso la città li respingemmo.
Mi sto coll’arco ad aspettar costoro,
E li trafiggo. E già ben otto acuti
Dardi dal nervo liberai, che tutti .
Profondamente si ficcar nel corpo
DI giovani guerrieri; e non ancora
Ferir m’ è dato questo can rabbioso.
Disse; e di nuovo fe volar dall’arco
Contr’ Ettore uno strale. AI colpo tutta
Ei l’anima diresse; e nondimeno
Falli la freccia ; che 1’ accolse lu petto
Di Priamo un valente esimio figlio,
Gorgiz'ion, cui d’ Esima condotta
Partorì la gentil Castianira,
Che una Diva parca nella persona.
Come carco talor del proprio frutto,
E di troppa rugiada a primavera
Il papaver nell’orto il capo abbassa;
Cosi la testa dell’elmo gravata
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r.4«-460 «•'»»<> »'«
Su la spalla chinò quell' infelice.
E Teucro dalla corda ecco sprigiona
Alla volta d’EUoire altra saetta,
Più che mai del suo sangue sitibondo.
E pur di nuovo uscì lo strale . in fallo ^
Chè Apollo il devio, ma colse ài petto
D'Ettòr l'audace bellicoso auriga,
Archepólemo, presso alla mammella.
Cadde ei rovescio giù dal cocchio, addietro
Si piegaro i cavalli^ e quivi a lui
11 cor ghiacciossi , e l' anima si sciolse.
Di quella morte gravemente afflitto
Il teucro duce, e di lasciar costretto.
Mal suo grado, l'amico, a Cebrìone
Di lui fratello, che il seguia, fe cenno
Di dar mano alle briglie. Ad obbedirlo
Cebrion non iu lento ^ ed ei, d'un salto
Dallo splendido cocchio al suol disceso.
Con terribile grido un sasso afferra^
A Teucro s'addiriiza, e di ferirlo
L’infiammava il desio. Teucro in quel punto
Traeva un altro doloroso telo
Dalla faretra, e lo ponea sul nervo.
Mentre alla spalla lo ritraggo in fretta,
E l’inimico adocchia, il sopraggiunge.
Crollando l’elmo, Ettorre^ e dove il collo
S’ innesta al petto, ed è letale il sito.
Coll’aspro sasso il coglie, e rotto il nervo
Gl’ intorpidisce il braccio. Dalle dita
L’arco gli fugge, e sul ginocchio ei casca.
11 caduto fratello in abbandono
Àjace non lasciò, ma ratto accorse,
E col proteso scudo il ricopria.
Finché lo si recàr sovra le spalle
Due suoi evi compagni, Mecistéo,
D’ Echio figliuolo, e il nobile Alastorre,
E alle navi il portar, che gravemente
Sospirava e gemea. Ne’ Teucri allora
Di nuovo suscitò l’Olimpio Giove
Tal fona e lena, che al profondo fosso
1 74 ILliDE 46i-5«o
Dirillamcntc ricacciar gli Achei.
Iva Ettorre alla testa, e dalle truci
Sue pupille metlea lampi e paura,
Qual Gero alano , che , ne' presti piedi
ConGdando, pn cinghiai da tergo assalta,
Od un h'one, e al suo voltarsi attento
Or le cluni gli addenta, ora la coscia^
Così gli Àchivi insegue Ettorre, e sempre,
Uccidendo il postremo, li disperde.
Ma poiché l’alto fosso ed il palizzo
Eibber varcato i fuggitivi, e molti
11 trojano valor n’ avea già spenti ,
Giunti alle navi , si fcrmaro ^ c insieme
Mettendosi coraggio, e a tutti i numi
Sollevando le map, spingea ciascuno
Con alta voce le preghiere al cielo.
Signor del campo, d’ogni parte intanto
Agitava I destrieri il grande Ettorre
Di bel crine superbi, e rotar bieco
Le luci si vedea come il Gorgone ,
O come Marte, che nel sangue esulta.
Impietosita degli Achei, la bianca
Giuno a Minerva si rivolse, e disse;
Invitta Gglla dell’ Egioco Giove,
Dunque, ohimè! non vorremo aver più nullo
Pensier de’ Greci già cadenti, almeno
Nell’estremo lor punto? Eccoli tutti
L’ empio lor fato a consumar vicini
Per l’Impeto d’ un sol, del Gero Ettoirc ,
Che in suo furore Intollerando , ornai
Passa ogni modo , e ne fa troppe offese !
A cui la Diva dalle glauche luci,
Minerva, rispondea: Certo perduta
Avvia costui la furia e l’alma ancora,
A giacer posto nella patria terra
Dal valor degli Achei; ma quel mio padre
Di sdegnosi pensier calda ha la mente.
Sempre avverso, e de’ miei furti disegni
Acerbo correttor; nò si rimembra
Quante volte servar gli seppi il Gglio
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LIBRO Vili
75
I*. ^1-5^
Dai duri d’ Euristéu comandi oppresso.
Ei lagrimava lamentoso al ciclo,
E me dal cielo allora ad aitarlo
Giove spediva. Ma se il cor prudente
Detto m’avesse le presenti cose,
Quando alle ferree porte il suo tiranno
L’ inviò dell’Àvcrno a trac dal negro
Èrebo il can dell’abborrito Pluto,
Ei, no, scampato non avria di Stige
La profonda fiumana. Or m’odia il padre,
E di Teli- adempir cerca le brame.
Che lusinghiera gli baciò il ginocchio,
E accarezzógli colla destra il mento,
D’onorar supplicandolo il Pclide
Delle cittadi atterrator. Ma tempo.
Sì, verrà tempo, che la sua diletta
Glaucòpide a chiamarmi egli ritorni.
Or tu vanne, ed il carro m’ apparecchia
Co’ veloci cornipedi^ che tcisto
Io ne vo dentro alle paterne stanze,
E dell’ armi mi vesto per la pugna.
Vedrem se questo Ettòr, che sì superbo
Crolla il cimiero, riderà, quand’io
Nel folto apparirò della battaglia.
Qualcun per certo de’ Trojani ancora
Presso le navi achee satolli e pingui
Di sue polpe farà cani ed augelli.
Disse ^ nè Giuno rieusò, ma corse
Ai divini cavalli, e d’auree barde
In fi’etta li guamia, Giuno, la figlia
Del gran Saturno, veneranda Diva.
D’altra parte Minerva il rabescato
Suo bellissimo peplo, delle stesse
Immortali sue dita opra stupenda.
Sul pavimento dell’ Egioco padre
Lasciò cader diffuso^ ed indo.ssando
Del nimbifero Giove il grande usbergo.
Tutta s’ armava a lagrimosa pugna.
Sul rilucente cocchio indi salita,
Impugnò la pesante e poderosa
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ILIADE
I 76
». 54u58»
Gran lancia, ond’ ella, allor che monta in ira,
Di forte genitor figlia tremenda.
Le schiere degli eroi rovescia e doma.
Stimolava Giunon velocemente
Colla sferza i destrieri^ e tosto illro
Alle celesti soglie, a cui custodi
Vegliano 1’ Ore , che il maggior de’ cieli
Hanno in cura e l’Olimpo, onde sgombrarlo
0 circondarlo della sacra nube.
Cigolando s’ aprir per sè mcdesme
L’ eteree porte, e docili al flageUo
Spinser per queste i corridor le Dive.
Come Giove dal Gàrgaro le vide.
Forte sdegnossi; ed Iri a sè chiamando,
Ali-dorata Dea: Vola, le disse,
Iri veloce; le rivolgi indietro,
E lor divieta il venir oltre meco
Ad inegual cimento. Io lo protesto,
C il fatto seguirà le mie parole,
10 loro fiaccherò sotto la biga
1 corridori, e dall’ infiranto cocchio
Balzerò le superbe; e delle piaghe.
Che loro impresse lascerà il mio telo.
Nè pur due lustri salderanuo il solco.
Saprà Minerva allor qual sia stoltezza
11 cimentarsi col suo padre in guerra.
Quanto a Giunon, m’è forza esser con ella
Meno irato: gli è questo il suo costume
Di sempre attraversarmi ogni disegno.
Disse; ed Iri a portar l’alto messaggio
Mosse veloce al par delle procelle ;
Ed ascesa dall’ Ida al grande Olimpo
Di molti gioghi altero, e su le soglie
Incontrate le Dee, si le rattenne,
E lor di Giove le parole espose:
Dove correte? Che furore è questo?
Sostate il piè; cbè il dar soccoi'so ai Greci
Noi vi consente Giove. Le minacce
Deir alto figlio di Saturno udite ,
Che fian messe ad effetto. Ei sotto il carro
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58]-6ao
LIBRO Vili
'77
Storpieravvi i destrieri , e dall' infranto
Carro voi stesse balzerà, nè dieci
Anni le piaghe salderan, che impresse
Lasceravvi il suo telo^ e tu, Minerva,
AUor saprai qual sia demenza il farti
Al tuo padre nemica. Nè con Giuno,
Sempre usata a. turbargli ogni disegno.
Tanto s’adira, ei, no, quanto con teco.
Invereconda audace Dea, che ardisci
Contra il Tonante sollevar la lancia.
Disse; e ratta sparì la messaggiera.
Ed a Minerva allur con questi accenti
Giuno si volse: Ohimè! più non si parli.
Figlia di Giove, di pugnar con esso
Per cagion de’ mortali: io noi consento.
Di loro altri si muoja, ^tri si viva.
Come piace alla sorte: e Giove intanto.
Come dispon suo senno e sua giustizia ,
Fra i Trojani e gli Achei tempri il destino.
Sì dicendo, la Dea ritorse indietro
I criniti destrieri, c l’Ore ancelle
Li distaccàr dal giogo, e li legaro
Ai nettarci presepi, ed il hel cocchio
Appoggiaro alla lucida parete.
Si raccolser le Dive in aureo seggio
Con gli altri Dei confuse; e Giove iutanto
Dal Gàrgare all’ Olimpo i corridori
E le fulgide ruote alto spingea.
Giunto alle case de’ Celesti, a luì
Sciolse i corsieri l’inclito Nettunno,
Rimesse il cocchio, e lo coprì d’uu velo.
Giove sul trono si compose, e tutto
Tremò sotto il suo piè l’ immenso Olimpo.
Ma Minerva e Giunon sole in disparte
Sedean, nè motto, nè dimanda a Giove
Ardian veruna indirizzar. S’avvide
De’lor pensieri il nume, c così disse:
Perchè si meste, o voi Minerva c Giuno ?
E’ non si par che molto affaticate
V’ ahhia finor la gloriosa pugna
Mosti. Iliade. ' »
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ILIADE
*». ti2i-cr>u
In esilio de’ Teucri, a cui sì grave
Odio poneste. E v’ è di mente uscito,
Che invitto è il braccio mio? che quanti ha numi
11 ciel , cangiare il mio voler non ponno ?
A voi bensì le delicate membra
Prese un freddo tremor pria che la guen-a
Pur contemplaste, e della guerra i duri
Esperimenti, lo vel dichiaro (e fora
Già seguito l’efletto), che, percosse
Dalla folgore mia, no, non v’avrebbe
11 vostro cocchio ricondotte al cielo.
Albergo degli Eterni. — 11 Dio sì disse;
E in secreto firemean Minerva e Giuuo,
Sedendosi vicine, ed ai Trojani
Meditando nel cor alte sciagure.
Stette muta Minerva, e centra il padre
L’acerbo, che l’ardea, sdegno represse ;
Ma , sciolto all’ ira il fren, Giuno rispose :
Tremendissimo Giove, e che dicesti ?
Ben anco a noi la tua possanza invitta
È manifesta^ ma pietà ne prende
Dei dannati a perir miseri Achei.
Noi certo l’armi lascerem, se questo
È il tuo strano voler ^ ma nondimeno
Qualche ai Greci daremo util consiglio,
Onde non tutti il tuo furor li spegna.
E Giove replicò: Più fiero ancora
Vedi-ai dimani, se t’ aggi-ada, o moglie,
L’onnipotente di Satm'no figlio
Dell’esercito acheo struggere il fioi-c:
Perocché dalla pugna il forte Et torre
Non pria desisterà, che finalmente
L’oziosa si svegli ira d'Achille
11 di che in gran periglio appo le navi
Combatterassi per Pati'ócio ucciso.
Tal de’ fati è il voler: nè de’ tuoi sdegni
Sollecito son io, no, s' anco ai muti
Della terra c del inar confini esti-cini
Andar ti piaccia, nel rimoto esigilo
Di Giapcto c Saturno , che nel cupo
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LIBHO Vili
‘79
I*. 661-700
Tai'taro chiusi nè il superno raggio
Del Sole, nè di vento aura ricrea :
No, se tant’ oltre pure il tuo dispetto
Vagabonda, ti porti, io non ti cui'o^
Poiché d’ogni pudor passasti il segno.
Tacque; nè Ginno osò pui’c d’un detto
Fargli risposta. In grembo al mar frattanto
La splendida cadea lampa del Sole,
L’ atra notte traendo su la terra.
Della luce 1’ occaso i Teucri afflisse ;
Ma pregata più volte e sospirata,
Sovraggiunsc agli Achei 1’ ombra notturna.
Fuor del campo navale Ettore allora
I Trojani ritrasse in su la riva
Del rapido Scaraandro, ed in pianura
Da’ cadaveri sgombra a parlamento
Chiamolli ; ed essi dismontàr dai cocchi ,
E affollati dintorno al gran guerriero
Cura di Giove, a sue parole attenti
Porgean gli orecchi. Una grand’ asta in pugno
Di ben undici cubiti sostiene:
Tutta di bronzo folgora la punta,
E d’oro un cerchio le discorre intorno.
Appoggiato su questa, così disse;
Dàrdani, Teucri, Collegati, udite;
lo poc’ anzi sperai eh’ arse le navi
E distrutti gli Argivi, a Troja avremmo
Fatto ritorno. Ma si bella speme
Ne rapir le tenèbre invidiose.
Che inopportune sul cruento lido
Salvòr le navi e i paurosi Achei.
Obbediamo alle negre ombre nemiche;
Apparecchiam le cene. Ognun dal temo
Sciolga i cavalli, c Uberai sia loro *
Di largo cibo. Di voi parte intanto
Alla città si affretti, e pingui agnello
E giovenchi n’adduca, e di Lieo
E di Cerere il frutto almo c gradito.
Sian di secche boscaglie anco raccolte
Abbondanti cataste, e si cosparga,
l8o ILUDE «. ;oi-;)n
Finché regna la notte c l’ alba arriva,
Tutto di fuochi il campo e il ciel di luce,
Onde dell’ ombre nel silenzio i Greci
Non prendano del mar su 1’ ampio dorso
Taciturni la fuga*, o i legni almeno
Non salgano tranquilli, c la partenza
Senza terror non sia ^ ma nell’ imbarco
O di lancia piagato o di saetta
Vada più d’ uno alle paterne case
A curar la ferita, e rechi ai figli
L’ orror de’ Teucri : c cosi loro insegni
A non tentarli con funesta guerra.
Voi, cari a Giove diligenti araldi.
Per la città frattanto ite, e bandite,
Che i canuti vegliardi e i giovinetti ,
A cui le guance il primo pelo infiora,
Custodiscan le mura in su gli spaldi
Dagli Dei fabbricati. Entro le case
Allumino gran fuoco anco le donne,
E stazion vi sia di sentinelle,
Onde, sendo noi Inngi, ostile insidia
Nell’ inerme città non s’ introduca.
Quanto or dico s’ adémpia ; e non fia vano ,
Magnanimi compagni, il mio consiglio.
Dirò dimani ciò che far ne resta.
Spero ben io, se Giove e gli altri Eterni
Avrcm propizi, di cacciarne lungi
Cotesti cani da funesto fato
Qua su le prore addotti. Or per la notte
Custodiamo noi stessi. Al primo raggio
Del nuovo giorno in tutto punto armati
Desteremo sid lido acre conflitto.
Vedrem se Diomede, questo forte
Figliuolo di Tidéo, respingerammi
Dalle navi alle mura, o s’ io coll’asta
Saprò passargli il fianco, c via portarne
Le sanguinose spoglie. Egli dimani
Manifesto farà, se sua prodezza
Tal sia, che possa di mia lancia il duro
Assalto sostener. Ma se fallace
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LIBHO Vili
Non è mia speme, eì giacerà tra’ primi
Spento con molti de' compagni intorno^
Ei, sì, dimani, all’ apparir del Sole.
Così immortai foss’ io, nè mai vecchiezza
Violasse i mici giorni, ed onorato
Foss’ io del par che Palladc ed Apollo,
Come fatale ai Greci è il di futuro.
Tal fu d’Ettorre il favellar superbo^
E gli fér plauso i Teucri. Immantinente
Sciolsero dal timone i polverosi
Destrier sudati, e colle briglie al carro
Gli annodò ciascheduno. Indi inenaro
Pecore e buoi dalla cittade in fretta.
Altri vien carco di nettareo vino.
Altri di cibo cereale; ed altri
Cataste aduna di virgulti e tronchi.
Rapian l’odor delle vivande i venti
Da tutto il campo, e Io spargeano al cielo;
Ed essi, gonfi di baldanza e in torme
Belliche essisi , dispendean la notte ,
Tutta empiendo di fuochi la campagna.
Siccome quando in cici tersa è la Luna,
E tremole e vezzose a lei dintorno
Sfavillano le stelle, allor che l’aria
È senza vento, ed allo sguardo tutte
Si scuoprono le torri e le foreste
E le cime de’ monti; immenso e puro
L’etra si spande, gli astri tutto il volto
Rivelano ridenti, e in cor ne gode
L’attonito pastor; tali al vederli,
E altrettanti apparian de’ Teucri i fuochi
Tra le navi e del Xanto le correnti
Sotto il muro di Troja. Erano mille.
Che di gran fiamma interrompeano il campo,
E cinquanta guerrieri a ciascheduno
Sedeansi al lume delle vampe ardenti.
Presso i carri frattanto orzo ed avena
I cavalli pascevano, aspettando
Che dal bel trono suo l’Alba sorgesse.
■ bi
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T.IBRO NONO
ARGOMENTO
CoaUnutlonf n^l rampo grero. Agimn)noa«, r*r«ollo in a^greio il parlamento dei dori,
propooe la foga, Diomede e Néatore sì oppoogooe. acolte tono poaie aHa guardia del muro.
DutkJio il romrsM, e arrolti da Agamennone a menu i più vrerbi de'r«|>itaaii, fféctorr con-
liglia che ti rerrlù di placare Ackille colle preghiere e roi doni. Agameanone acrouaente. Fe>
oice« inUie cd Ajace TclaoKWiio tono delegati amimeiatori. Seguili da due araldi, euitipre-
tratane ad Achille nel tuo padiglione. Loro parlate, e rifiuto ddreroe. Fentee ^ da lui trat-
tenuto nella sua tenda. LHiam ed Ajace ritornano a render conto della loro ambasciata. Pa-
role di Diomede nel contesto dei capitani. Questi sì rilirauo nelle loro tende a |ireakder tonno.
Queste de’ Teucri eran le veglie. Intanto
Del gelido Terror negra compagna
La Fuga, dagli Dei ne’ petti infusa,
L’acliivo campo possedea. Percosso
Da profonda tristezza era di tutti
I più forti lo spirto^ e in quella guisa,
Che il pescoso Oceano si rabbuffa.
Quando improvviso dalla tracia tana
Di Ponente sorgiunge c d’ Aquilone
L’impetuoso sofllo^ allo s’ estolle
L’onda, c si sparge di moli’ alga il lido’.
Tale è l’intcma degli Achei tempesta.
Sovra ogni altro 1’ Alride addolorato ,
Di qua, di là s’aggira, cd agli araldi
Comanda di ehiamar tutti in segreto
Ad uno ad uno i duci a parlamento. '
Come fùro adunali, e mesti in volto
S’assiscro, levossi Agamennone.
Lagrimavn .simile a cupo fonte,
Che tenebrosi da scoscesa rupe
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albo
ILIADE* LIBRO IX
83
Versa i suoi rivi^ e, dal profondo seno
Messo un sospiro, cominciò : Diletti
Principi Argivi, in una ria sciagura
Giove m' avvolse. Dispietato! ei prima
Mi promise e giurò che, al suol prostrate
D'Ilio le mura, glonoso in Argo
Avrei fatto ritorno^ ed or mi froda
Indegnamente, e dopo tante in guerra
Estinte vite, di partir m’impone
Inonorato. Il piacimento è questo
Del prepotente nume, ehe già molte
Spianò cittadi eccelse, c molte ancora
Ne spianerà^ ehè immenso ò il suo potere.
Dunque al mio detto obbediam tutti: al vento
Diam le vele, fuggiamo alla diletta
Paterna terra ^ che dell'alta Troja
Lo sperato conquisto è vana impresa.
Ammutir tutti a queste voci, c In cupo
Lungo silenzio si restar dolenti
I figli degli Achei. Lo ruppe alfine
II bellicoso Diomede, e disse:' ■
Atridc, al torto tuo parlar col vero
Libero dir, che in libero consesso
Lice ad ognun, risponderò. Tu m'odi
Senza disdegno. Osasti, e fosti il primo.
Alla presenza degli Achei pur dianzi
Vituperargli, e imbelle dirmi, c privo
D'ogni coraggio: e l’udir tutti. Or io
Dico a te di rimando, che se Giove
L’un ti diò de’ suoi doni, l’onor sommo
Dello scettro su noi, non ti concesse
L’ altro , più grande che lo scettro , il core.
Misero! e speri sì codardi e fiacchi,
Come pur cianci, della ùrecia i figli?
Se 11 cor ti sprona alla partenza, parti:
Sono aperte le vic^ le numerose
Navi, che d’Argo ti seguir, son pronte;
Ma gli altri Achivl rimarran qui fermi
Air eccidio di Troja; c se pur essi
Fuggiran sulle prore al patrio Udo,
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i84
ILfADE
6t>too
Noi resteremo a guerreggiar: noi Juc,
Stèndo e Diomede, insin che giunga
Il dì supremo d’Dion^ chè noi
Qua ne venimmo col favor d' un Dio.
Tacque^ e tutti mandar di plauso un grido,
Del Tidide ammirando i generosi
Sensi; c di Pilo il vencrabil veglio,
Surto in piedi, dicca: Nelle battaglie
Forte ti mostri, o Diomede, c vinci
Di senno insieme i coetani eroi.
Nè biasmar nè impugnar le tue pai-ole
Potrà qui nullo degli Achei ; ma pure ,
Benché retti e prudenti e di noi degni.
Non ferir giusto i tuoi discorsi il segno.
Giovinetto se’ tu sì, che il minore
Fisser potresti de’ miei Ggli. Io dunque.
Che di te più d’assai vecchio mi vanto,
Dironne il resto; nè il mio dir veruno
Biasmerà, non lo stesso Agamennone.
È senza patria, senza leggi e senza
Lari chi la civile orrenda guerra
Desidera. Ma giovi or della fosca
Diva dell’ ombre rispettar l’ impero.
S’apprestino le cene, ed ogni scolta
Vegli al fosso del muro, e questo sia
De’ giovani il pcnsier. Tu, sommo Atride,
Come a capo s’addice, accogli a, mensa
I più provetti: e ben lo puoi; chè piene
Le tende hai tu del buon lieo , ebe ognora
Pel vasto mai- ti recano veloci
L’achive prore dalle tracie viti.
Nulla all’uopo ti manca, ed al tuo cenno
Tutto obbedisce. Congregati i duci.
Apra ognun la sua mente , e tu secónda
II consiglio miglior; chè di consiglio
Utile e saggio or fa mestier davvero.
Imminente alle navi è l’inimico,
Pien di fuochi il suo campo. E chi mirarli
Può senza tema? Questa fia la notte.
Che l’esercito perda, o lo conservi.
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r. lOI-I^O LIBRO rx |85
Disse; e tutti obbedirò. Immantinente
Uscir di rilucenti armi vestite
Le sentinelle. PTeran sette i duci:
Il Nestoride prence Trasimcde;
Di Marte i figli, Ascàlafo e Jalmeno;
Mer'ion, Deipi'ro ed Àfaréu
Con Licomede di Creonte; c cento
Giovani prodi conducea ciascuno
Di lunghe picche armati. In ordinanza
Si difilàr tra il fosso e il muro ; e quivi
Destaro i fuochi, e apposero le cene.
Nella tenda regai l’Àtride intanto
Convita i duci, di vivande grate
Li ristaura; e sì tosto che de’ cibi
E del bere in ciascun tacque il desio,
Il buon Nestorre, di cui sempre liscia
Ottimo il detto, cominciò primiero
A svolgere dal petto un suo consiglio,
E in questo saggio ragionar l’ espose :
Agamennóne, glorioso Atride,
Da te principio pretfderan le mie
Parole, in te si finiranno, in te
Di molte genti impcrador, cui Giove,
Per la salute de’ soggetti, il carco
Delle leggi commise e dello scettro.
Principalmente quindi a te conviensi
Dir tua sentenza, ed ascoltar l’altrui,
E la porre ad efietto, ove da pura
Coscienza proceda, e il ben ne frutti;
Chè il buon consiglio, da qualunque ei vegna.
Tuo lo farai coll’ eseguirlo. Io dunque
Ciò che acconcio a me par, dirò palese;
Nè verun penserà miglior pensiero
Di quel ch’io penso e mi pensai dal punto
Che dalla tenda dell’ irato Achille
Via menasti, o gran re, la giovinetta
Brisè'ide, sprezzato il nostro avviso.
Ben io, lo sai, con molti e caldi preghi
Ti sconfortai dall’opra; ma tu, spinto
Dall’altero tuo cor, onta facesti
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l8G ItUDE ,, ,4,., do
Al fortissimo eroe, dagrimmortali
Stessi onorato, e il premio gli rapisti
De’ suoi sudori, e ancor lo ti ritieni.
Or tempo egli è di consultar le guise
Di blandirlo e piegarlo o con eletti
Doni o col dolce favellar che tocca.
Tu parli il vero, Agamennón rispose;
Parli il vero, pur troppo, enumerando
I miei torti, 0 buon vecchio. Errai, noi nego:
Val molte squadre un valoroso, in cui
Ponga Giove il suo cor, siccome in questo,
Per lo cui solo onor doma gli Achei.
Ma se ascoltando un mal desio l’oflesi.
Or vo’ placarlo, c il presentar di molti
Onorevoli doni, c a voi qui tutti
I.i dirò: sette tripodi, non anco
Tocchi dal foco; dieci aurei talenti:
Due volte .tanti splendidi lebcli;
Dodici velocissimi destrieri,
Usi nel corso a riportarmi i primi
Premj: c di tanti già mi fòr l’acquisto.
Che povero per certo e di ricchciie
Desideroso non sana chi tutti
Li possedesse. Donerogli in oltre
Di suprema beltà sette captivc
Lesbie donzelle, a meraviglia speric
Nell’ opre di Minerva, c da me stesso
Traseelte il di che Lesbo ei prese. A queste
Aggiungo la rapita a lui poc'anzi
Briseidc; c farò giuro solenne,
Ch’unqua il suo letto non calcai. Ciò tutto
Senza indugio fia pronto. Ove gli Dei
Ne concedano poscia il porre al fondu
La trojana città, primiero ei vada.
Nel partir delle spoglie, a ricolmarsi
D’oro e bronzo le navi, c si trascclga
Venti bei corpi di dardanic donne.
Dopo l’argiva F.h'na le più belle.
Di più: se d’Argo riveder n’è dato
Le care .sponde, ei genero sarammi
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LIBRO 11
187
r. i8i-3>0
Onorato e diletto al par d’Oreste,
Ch'unico germe a me del miglior sesso
Ivi s’ educa alle dovizie in seno.
Ho di tre figlie nella reggia il fiore,
Crisotemi, Laddice, Ifianassa.
Qual più d’esse il talenta, a sposa ci prenda
Senza dotarla, ed a Peléo la meni.
Doterolla io medesmo , e di tal dote ,
Qual non s’ ebbe giammai altra donzella ;
Sette città, Cardamile ed Endpe,
Le liete di bei prati Ira ed Antéa,
L’inclita Fere, Epéa la bella, e Pédaso
D’alme viti feconda; elle son poste
Tutte quante sul mar verso il confine
Dell’arenosa Pilo, e dense tutte
Di cittadini , che di greggi c mandre
Ricchissimi, co’ doni al par d’un Dio
L’onoreranno, e di tributi opimi-
Faran bello il suo scettro. Ecco di quanto
Gli farò dono, se depor vuol l’ira.
Placar si lasci: inesorato è il solo
Pluto, e per questo il più abborrito iddio.
Rammenti ancora, che di grado c d’anni
Io gli vo sopra; lo rammenti, c ceda.
Potentissimo Atride Agamennòne,
Riprese il veglio cavalier, pregiati
Sono i doni, che appresti al. re Pelidc.
Senza dunque indugiar, alla sua tenda
Si mandino i legati. Io stesso, o sire.
Li nomerò, nè alcun mi fia ritroso:
Primamente Fenice, al sommo Giove
Carissimo mortale; c capo ei sia
Dell’imbasciata. Il seguirà col grande
Ajace il divo Ulisse, c degli araldi
N’andran Hodio ed Euribate. Frattanto
Date l’acqua alle mani, e comandate
Alto silenzio, acciò che salga a Giove
La nostra prece, c la pietà ne svegli.
Disse; c a tutti fu caro 11 suo consiglio.
Dicr le linfe alle mani i banditori;
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i8B
lUÀOE
V. 321-9^
Lesti i donzelli coronSr di liete
Spume le tazze, c le portare in giro;
FI libato e gustato a pien talento
Il devoto licore, uscir veloci
Dalla tenda rogai gli ambasciadori;
E molti avvisi porgea lor per via
Il buon veglio, girando a ciascheduno.
Principalmente di Lacrte al figlio.
Le parlanti pupille, e a tentar tutte
Le vie gli esorta d’ammansar quel fiero.
Del risonante mar lungo la riva
Avviarsi i legati, supplicando
Dall’imo cor l'Enosigco Nettunno,
Perchè d’ Achille la grand’ alma ei pieghi.
Alle tende venuti ed alle navi
De’Mirmidóni, ritrovar l’eroe,
Che ricreava colla cetra il core.
Cetra arguta c gentil, che la traversa
Avea d’argento, e spoglia era del sacco
Della città d’Eezi'on distrutta.
Su questa, degli eroi le gloriose
Ceste cantando, raddolcia le cure.
Solo a rincontro gli sedea Patròclo,
Aspettando la fin del bellicoso
Canto in silenzio riverente. Ed ecco
Dall’Itaco precessi all’improvviso
Avanzarsi i legati, c al suo cospetto
Rispettosi sostar. Alzasi Achille
Del vederli stupito, ed abbandona
Colla cetra lo seggio^ alzasi ci pure
Di Menézio il buon figlio^ e, lor porgendo
Il Pclide la man: Saivcte, ci dice.
Voi mi giungete assai graditi; al certo
Vi trae grand’uopo: benché irato, io v’amo
Sovra tutti gli Achei. — Così dicendo.
Dentro la tenda interior li guida.
In alti scanni fa sederli sopra
Porporini tappeti, ed a Patroclo,
Che accanto gli venia: Recami, disse,
O mio diletto, il mio maggior cratere,
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r. i6i.3<» LIBRO IX 1 8^
E mesci del più puro, ed apparecchia
Il suo nappo a ciascun: sotto il mio tetto
Oggi entrar generose anime care.
Disse; e Patroclo del suo dolce amico
Alla voce obbedì. Su l' ignee vampe
Concavo bronzo di gran seno ei pose,
E dentro vi tuffò di pecorella
E di scelta capretta i lombi opimi
Con esso il pingue saporoso tergo
Di saginato porco. Intenerite
Così le carni, Automedonte in alto
Le sollevava; e con forbito acciaro
•Acconciamente le incidea lo stesso
Divino Achille, e le infiggea ne’ spiedi.
Destava intanto un grande foco il 6gliu
Di Menòzio, e conversi in viva bragia
I crepitanti rami, e già del tutto
Queta la fiamma, delle brage ei fece
Ardente un letto, c gli schidion vi stese;
Del sacro sai gli asperse; e, tolte alfine
Dagli alari le carni abbrustolate,
Sul desco le posò; prese di pani
Un nitido canestro, e su la mensa
Distribuilli; ma le apposte dapi
Spartia lo stesso Achille, assiso in faccia
Ad Ulisse col tergo alla parete.
Ciò fatto, ingiunse al suo diletto amico
Le sacre oficrte ai numi; c quei nel foco
Le primizie gettò. Stesero tutti
AUor le mani all’ imbandito cibo.
Come fur sazi, fc degli occhi Ajace
Al buon Fenice un cotal cenuo: il vide
Lo scaltro Ulisse; e ricolmato il nappo ,
Al grande Achille propinollo, e disse:
Salve, Achille; poc’anzi entro la tenda
D’Atride, ed ora nella tua di lieto
Cibo noi certo ritroviam dovizia;
Ma chi di cibo può sentir diletto
Mentre sul capo ci veggiam pendente
Un’orrenda sciagura, c sul periglio
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190
iLllDE
5oi-3’|0
Delle navi si trema? E periranno,
Se tu, sangue diviii, non ti rivesti
Di tua fortezza, e non ne reehi aita.
Gli orgogliosi Trojani e gli alleati
Imminente all’ armata e al nostro muro
Han posto il campo, e mille fuochi accesi,
E fan minaccia d’avanzarsi arditi,
E le navi assalir.' Giove co’ lampi
Del suo favor gli affida^ Ettore, i truci
Occhi volgendo d’ ogni parte , e multo
Delle sue forze altero e del suo Giove,
Terribilmente infuria, e non rispetta
Nè mortali nè Dei (tanto gl’ invade
Furor la mente), e della nuova aurora
Già le tardanze accusa, e freme, e giura
Di venirne a schiantar di propria mano
Delle navi gli aplustri , ed a scagliarvi
Dentro le fiamme, e incenerirle tutte,
E tutti tra le vampe istupiditi
Ancidere gli Achivi. Or io di forte
Timor la mente contristar mi sento.
Che le costui minacce avversi numi
Non mandino ad effetto, c che non sia
Delle Parche decreto il dover noi
Lungi d’Ai-go perir su queste rive.
Ma tu, deh! sorgi, c benché tardi, accorri
A preservar dall’inimico assalto
I desolati Achei. Se gli abbandoni.
Alto cordoglio un d'i n’avrai, nè al danno
Troverai più riparo. A tempo adunque
L’antivieni prudente, ed allontana
DaU'argolica gente il giorno estremo.
Ricordati, mio caro, i saggi avvisi
Del tuo padre Peléo, quando di Ftia
Inv'iotti all' Atridc. Amato figlio
(11 buon vecchio dicea). Minerva c Giuno,
Se fia lor grado, ti darau fortezza^
Ma tu nel petto il cor superbo alh'ena^
Chè cor più bello è il mansueto^ c tienti
(Onde più sempre c giovani e canuti
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LIBRO IX
■9'
. 34l-38g
T’onorino gli Achei), tienti remoto
Dalla feconda d'ugni mal Contesa.
Questi del veglio i bei ricordi furo:
Tu gli obbl'iasti. Teli sovvenga adesso,
E la trista una volta ira duponì.
Ti sarà, se lo fai, largo di cari
Doni l’Atride. Nella tenda ei dianzi
L’ impromessa ne fcce^ odili tutti:
Sette tripodi intatti, e dieci d’oro
Talenti, c venti splendidi Icbeti^
Dodici velocissimi destrieri.
Usi nel corso a riportarne i primi
Premj: e già tanti n’acquistar, che brama
Più di ricchezze non avrìa chi tutti
Li possedesse. Ti largisce inoltre
Sette d’ alma beltà lesbie donzelle ,
D’ago esperte e di spola, c da lui stesso
Per lor suprema leggiadria trascelte
11 dì che Lesbo tu espugnavi. A queste
La £glia aggiunge di Briséo, giurando.
Che intatta, o prence, la ti rende. E tutte
Pronte son queste cose. Ove poi Troja
Ne sia dato atterrar, tu primo andrai.
Nel partir della preda, a ricolmai-ti
D’oro e di bronzo i tuoi navigli, e dieci
Captive e dieci ti scerrai, tenute
Dopo l’ argiva Eléria le più belle.
Di più: se d’Argo rivedrem le rive.
Tu genero sarai del grande Atride,
E in onoranza e nella copia accolto
D’ogni cara dovizia al par del suo
Unico Oreste. Delle tre, che il fanno
Beato genitor alme fanciulle.
Crisotemi, Laódice, Ifianassa,
Prendi quale vorrai senza dotarla:
Dotcralla lo stesso Agamennduc
Di tanta dote e tal, eh’ altra giammai
Regai donzella la .simil non s’ebbe:
Sette città, Cai'damile ed Enópe,
Ira, Pédaso, Antéa, Fere ed Epéa,
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ILIADE
V. 38i>4io
Tutte belle marittime contrade
Verso il pilio confin, tutte frequenti
D’abitatori, a cui di molte mandre
S’alza il muggito, c che di bei tributi
T’onoreranno al par d’un Dio. Ciò tutto
Daratti Atridc, se lo sdegno acqueti.
Ghè se lui sempre e i suoi presenti abboni ,
Abbi almeno pietà degli altri Achei
Là nelle teude costernati e chiusi.
Che t’avranno qual nume, ed alle stelle
La tua gloria alzeran. Vien dunque, e spegni
Questo Ettdr, che furente a te si para,
E vanta, che nessun di quanti Achivi
Qua navigare, di valor l’eguaglia.
Divino senno, Laerziade Ulisse,
Rispose Achille, senza velo, e quali
11 cor li detta, e proveralli il fatto,
M’è d’uopo palesar dell’alma i sensi.
Onde cessiate di garrirmi intorno.
Odio al par delle porte atre di Fiuto
Colui, ch’altro ha sol labbro, altro nel core;
Ma ben io dirò netto il mio pensiero.
Nè il grande Atride Agamennòn, nè alcuno
Me degli Achivi piegherà. Qual prezzo.
Qual ricompensa delle assidue pugne?
Di chi poltrisce e di chi suda in guerra
Qui s’uguaglia la sorte: il vile usurpa
L’onor del prode, e una medesma tomba
L’infingardo riceve e l’operoso.
Ed io, ebe tanto travagliai, che a tanti
Rischi di Marte la mia vita espusi.
Che guadagni, per dio! che guiderdone
Su gli altri ottenni? In vero il meschinello
Augcl son io, che d’esca i suoi provvede
Piccioli implumi, e sé medesmo obblia.
Quante, senza dar sonno alle palpebre,
Trascorse notti ! quanti giorni, avvolto
In sanguinose pugne, ho combattuto
Per le ree mogli di costor! Conquisi,
Guerreggiando sul mar, dodici altere
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WBBO '* «93
Cittadi^ nc conquisi undici a piede
Dintorno ai campi d'Ilì’on^ da tutte
Molte asportai pregiate spoglie: e tulle
All'Atride le cessi, a lui che inerte
Rimasto indietro, nell’ avare navi
Le rieevea superbo, e, dividendo
Altrui lo peggio , riserbossi il meglio;
O s’alcnn dono agli altri duci ei fenne.
Noi si ritolse almeno. Io sol del mio
Premio fui spoglio, io solo; egli la donna
Del mio cor si ritiene, e ne gioisce.
A che mai questa degli Achei co’ Teucri
Cotanta guerra? a che raccolse Atride
Qui tant’arml? Non forse per la bella
Elena? Ma l’amor delle consorti
Tocca egli forse il cor de’ soli Atridi?
Ogni buono, ogni saggio ama la sua,
E tienla in pregio, siccom’io costei
Carissima al mio cor, quantunque ancella.
Or ch’egli dalle man la mi rapio
Con fatto iniquo, di piegar non tenti
Me da sue frodi ammaestrato assai.
Tcco, IHisse, c co’suoi re tanti ei dunque
Consulti il modo di sottrar l’armata
Alle fiamme nemiche. E quale ha d’ uopo
Ei del mio braccio? Senza me già fece
Di gran cose. Innalzalo ha un alto muro;
Lungo il muro ha scavato un largo c cupo
Fosso, e nel fosso un gran palizzo infisse.
Mlrabil opra! che dal fiero Etlorre
Noi fa sicuro ancor, da quell’ Eltorre ,
Che, mentre io parvi fra gli Achei, scostarsi
Non ardia dalle mura, o non giugnea.
Che sino al faggio delle porte Scec.
Sola una volta ei là m’attese, e a stento
Potè sottrarsi all'asta mia. Ma nullo
Più conflitto vogl’io con quel guerriero,
Nullo ; e , offerti dimani al sommo Giove
E agli alti'i numi i sacrifici, tratte
Tutte nel mare le mie carchc navi.
Mosti. Iliade. i3
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ILIADE
V. i^fìl^oo
S), dimani vedrai, se te ne cale,
Coll’aurora spiegar sull’ Ellesponto
I miei legni le vele, ed esultanti
Tutte di lieti remator le sponde.
Se di prospero corso il buon Nettunno
Cortese mi sarà, la terza luce
Di Ftia porrammi su la dolce riva.
Ivi molta lasciai propria ricchezza.
Qua venendo in mal punto; ivi molt’ altra
JVe reco in oro, e in fulvo rame, e in terso
Splendido ferro, e in eleganti donne.
Tutto tesoro a me sortito. Il solo
Premio ne manca, che mi diè 1’ Atride,
E , re villano , mcl ritolse ei poscia.
Torna dunque all’ingrato, e gli riporta
Tutto che dico, e a tutti in faccia, ond’anco
Negli altri Achei si svegli ima giust’ira
E un avvisato diffidar dell’ arti
Di quel franco impudente, che pur tale
Non ardirebbe di mirarmi in fronte.
Digli, che a parte non verrò giammai
Nè di fatto con lui , nè di consiglio ;
Che mi deluse; che mi fece oltraggio;
Che gli basti l'aver tanto potuto
Sola una volta, e che mal fonda in vane
Ciancc la speme d’un secondo inganno.
Digli, che senza più turbarmi, corra
Alla ruina, a cui l’incalza Giove,
Che di senno il privò; digli, che abborro
Suoi doni, e spregio come vii mancipio
II donator. Nè s’egli e dieci c venti
Volte gli addoppi!, nè se tutto ei m’offra
Ciò ch’or possiede, e ciò eh’ un di venirgli
Potn'a d'altronde, c quante entran ricchezze
In Orcomcno e nell’egizia Tebe
Per le cento sue porto e li dugento
Aurighi co’lor carri a ciascheduna;
Mi fosse ci largo di tant’oro alfine
Quanto di sabbia e polve si calpesta,
Nè cosi pur si speri Agamennòne
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LIBBO IX
La mia mente iiiehiuar prima clic lutto
Pagato ei m'abbia dell’ offesa il fio.
Non vo’la figlia di costui. Fos/ella
Pari a Minerva nell’ingegno, e il vanto
Di beltà contendesse a Citeréa,
Non prenderolla in mia consorte io mai.
Serbila ad altro Àcheo, che al grand’ Àtridu
Più di grado s’adegui e di possanza.
A me, se salvo raddurranmi i numi
ÀI patrio tetto, a me scerrà lo stesso
Peléo la sposa. Han molte Eliade c Ftia
Figlie di regi assai possenti; e quale
Di lor vorrò, legittima e diletta
Moglie farolla^ e mi godró con essa
Nella pace, a cui stanco il cor sospira.
Il paterno retaggio. E parmi in vero.
Che di mia vita non pareggi il prezzo
Nè tutta l’opulenza in Ilio accolta
Pria della giunta degli Achei, nè quanto
Tesor si chiude nel marmoreo tempio
Del saettante Apollo in sul petroso
Balzo di Pilo. Racquistar si ponno
E tripodi e cavalli e armenti e greggi^
Ma l’alma che passò del lal>bro il varco.
Chi la racquista? chi del freddo petto
La riconduce a ravvivar la fiamma ?
Meco io porto (la Dea madre mcl dice)
Doppio fato di morte. Se qui resto
A pugnar sotto Troja, al patrio lido
M’è tolto il ritornar, ma d’immortale
Gloria l’ acquisto mi farò. Se riedo
Al dolce suol natio, perdo la bella
Gloria, ma il fiore de’ miei dì non fia
Tronco da morte innanzi tempo, ed io
Lieta godrorami e diuturna vita.
Questa m’eleggo, e gli altri tutti esorto
A rimbarcarsi, e abbandonar di Troja
L’impossibil conquista. 11 Dio de’ tuoni
Su lei stese la mano, e rincorarsi
I suoi guerrieri. Itene adunque^ c come
195
Digilized bji|^GoogIe
«£)6 ILIADE ...541.580
Di legati è dover, le mie risposte
Ai prenci achivi riferendo, dite.
Che B preservar le navi e il campo argivo
Lor fa mestiero ruminar novello
Miglior partito ; chè il già preso è vano.
Incsorata è l’ira mia. Fenice
Qui rimanga, e riposi: al nuovo giorno
Scguirammi, se il vuole, alla diletta
Patria. Di forza noi trarrò giammai.
Disse 4 e l’alto parlare e l’aspro niego
Tutti li fece sbalorditi e muti.
Ruppe alfìn quel silenzio il cavaliero
Veglio Fenice; c, sul destin tremando
Delle argoliche navi, ed ai sospiri
Mescendo i pianti, così prese a dire:
Se in tuo pensiero è fissa, inclito Achille,
La tua partenza, se nell’ira immoto
Di ninna guisa allontanar non vuoi
Gli ostili incendi dalla classe achea.
Come, ahi! come poss’io, diletto figlio,
Qui restar senza te? Teco mandommi
Il tuo canuto genitor Peléo
Quel giorno che all’ Atridc Agamennone ,
Invìotti da Ftia, fanciullo ancora
Dell’arte ignaro dell’acerba guerra,
E dell’ arte del dir, che fama acquista.
Quindi ci teco spedimmi, onde di questi
Studi erudirti, e farmi a te nell’ opre
Della lingua maestro e della mano.
A niun conto vorrei dunque, mio caro.
Dispiccarmi da tc, no, s’anco un Dio,
Rasa la mia vecchiezza, mi prometta
Rinverdir le mie membra , e ritornarmi
Giovinetto qual era allor ebe il suolo
D’ Eliade abbandonai, l’ira fuggendo
E un atroce imprecar del padre mio,
Amintorc d’Ormeno. Era di questa
Ira cagione un’avvenente druda.
Ch’egli, sprezzata la consorte, amava
Follemente. Abbracciò le mie ginocchia
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>. 58i>0ao
LIBRO IX
'97
La tradita mia madre, e supplicommi
Di mischiarmi in amor colla rivale,
E porle in odio il vecchio amante. 11 feci.
Reso accorto di questo il genitore.
Mi maledisse, ed invocò sul mio
Capo l’ orrende Eumenidi, pregando.
Che mai concesso non mi fosse il porro
Sul suo ginocchio un figlio mio. L' udirò
n sotterraueo Giove e la spietata
Proserpina, e il feral voto fu pieno.
Carco allor della sacra ira del padre.
Non mi sofferse il cor di più restarmi
Nelle case paterne. E servi e amici
E congiunti mi fean con caldi preghi
Dolce ritegno^ ed in allegre mense
Stornar volendo il mio pensier, si diero
A far macco d’ agnello e di torelli,
À rosolar sul foco i saginati
Lombi suini, a tracannar del veglio
L’ anfore in serbo. Nove notti al fianco
Mi fur essi così con veglie alterne
E con perpetui fuochi, un sotto il portico
Del ben chiuso cortil, l’altro alle soglie
Della mia stanza nell’andron. Ma quando
Della decima notte il bujo venne,
L’useio sconfissi, c della stanza evaso.
Varcai d’un salto della corte il muro:
Nè de’ custodi alcun, nè dell’ ancelle
Di mia fuga s’avvide. Errai gran pezza
Per l’ellade contrada ^ e giunto ai campi
Della feconda pecorosa Ftia,
Trassi al cospetto di Peléo. M" accolse
Lietamente il buon sire, e mi dilesse
Come un padre il figliuol, ch’unico in largo
Aver gli nasca nell’età canuta;
E di popolo molto e di molt’oro
Fattomi ricco, l’ultimo confine
Di Ftia mi diede ad abitar, commesso
De’Dolopi il governo alla mia cura.
Son io, divino Achille, io mi son quegli.
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Che ti crebbi qual sci, che caramente
T’amai: nè tu volevi bambinello
II- con altri alla mensa, nè vivanda
Domestica gustar, ov’io non pria
Adagiato t’avessi e carezzato
Su’ mici ginocchi, minuzzando il cibo,
E porgendo la beva, che, dal labbro
Infantil traboccando, a me sovente
Irrigava sul petto il vestimento.
Così molto soffersi a tua cagione,
E consolava le mie pene il dolce
Pensier, che, i Numi a me negando un ligi
Generato da me, tu mi saresti
Tal per amore divenuto , e tale
M’avresti salvo un di da ria sciagura.
Doma dunque, cor mio, doma l’altero
Tuo spirto: disconviene una spietata
Anima a te, che rassomigli i numi^
Chè i numi stessi, si di noi più grandi
D’onor, di forza, di virtù, son miti:
E con vittime e voti c libamenti
E odorosi olocausti il supplicante
Mortai li placa nell’ ciTor caduto ;
Perocché del gran Giove alme dgliuolc
Son le Preghiere, che, dal pianto falle
Rugose c losche, con incerto passo
Van dietro ad Ate, ad emendarla intese.
Vigorosa di piè questa nocentc
Forte Dea le precorre, e, discorrendo
La terra tutta, l'uman germe offende.
Esse van dopo , e degli offesi ban cur.a.
Chi rispettoso queste Dee riceve ,
Ne va colmo di beni ed esaudito^
Chi pertinace le respinge indietro.
Ne spermcnta lo sdegno. Esse del padre
Si presentano al trono, e gli fan prego,
Cb’Ate ratta inseguisea, c al fio suggelli
L’inesorato, che al pregar fu sordo.
Trovin dunque di Giove oggi le figlie
Appo te quell’ onor, eh’ anco de’ forti
V, 66i.yoo
LIBRO IX
99
Piega le menti. Se al tuo piè di molti
Doni l'ofierta non mettesse Atride
Coll’ impromessa di molt’ altri poscia ,
E persistesse in suo rancor, non io
T’esorterei di por giù l’ira, e all’uopo
Degli Àchivi volar, comunque afflitti^
Ma molti di presente egli ne porge.
Ed altri poi ne profferisce, e i duci
Miglior trascelti tra gli Achei t’invia,
E a te stesso i più cari a supplicarti.
Non disprezzarne la venuta e i preghi ,
Onde l’ira, che pria giusta pur era ,
Non tomi ingiusta. Degli andati eroi
Somma laude fu questa, allor che grave
Li possedea cormccio, alle preghiere
Placarsi, nè sdegnar supplici doni.
Opportuno sowiemmi un fatto antico.
Che, quale avvenne, io qui fra tutti amici
Narrerò. Combattean ferocemente
Con gli Etdli i Cureti anzi alle mura
Di Calidone, ad espugnarla questi,
A difenderla quelli : e gli uni e gli altri ,
Gente d’alto valor, con mutue stragi
Si distmggean. Commossa avea tal guerra
Di Diana uno sdegno, e del suo sdegno
Fu la cagione Enéo, che, de’ suoi campi
Terminata la messe, c offerti ai numi
I consueti sacrifici , sola
(Fosse spregio od obblio) lasciato avea
Senza offerte la Diva. Ella di questo
Altamente adirata, un fero spinse
Cinghiai d’Enéo ne’ campi, che, tremendo.
Tutte atterrava col fulmineo dente
Le frattifere piante. Il forte Enidc,
Meleagro alla fin, dalle propinque
Città raccolto molto nerbo avendo
Di cacciatori e cani , a morte il mise ;
Nè minor forza si chiedea : tant’ era
Smisurata la belva, e tanti al rogo
N’avea sospinti. Ma la Dea pel teschio
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aoo
ILIADE
*. 70i^jo
E per la pelle dell’irsuta fera
Tra i Gureti e gli Etóli una gran lite
Suscitò. Finché in campo il bellicoso
Meleagro comparve, andàr disfatti,
Benché molti, i Gureti, e approssimarse
Unqua alle mirra non potean. Ma l’ira,
Ghc anche i più saggi invade, il petto accese
Di Meleagro, c la destò la madre
Altea, che, forte pe’fratelli uccisi
Grucciosa, il Sglio maledisse^ e il suolo
Golle man percotendo , inginocchiata
E forsennata, con orrendi preghi.
Di gran pianto confusi, il negro Fiuto
Supplicava c la rigida moglicra
Di dar morte all’eroe: né dal profondo
Orco fu sorda l’ implacata Erinni.
Del materno furor sdegnato il figlio.
Lungi dall' armi si ritrasse in braccio
Alla bella consorte Glcopatra,
Di Marpissa Evenina c del possente
Ida figliuola, di quell’ Ida, io dico,
Ghc tra’ guerrieri de’ suoi tempi il grido
Di fortissimo avea, tanto che contra
Lo stesso Apollo per la tolta ninfa
Ardi l’arco impugnar. Mutato poscia
Di Glcopatra il nome, i genitori
La chiamaro Alci'on, perché simile
Alla mesta Alci'on gemea la madre.
Quando rapilla il saettante Iddio.
Gon gran furore intanto cran le porte
Di Galidone e le turrite mura
Gombattute e percosse. Eletta schiera
Di venerandi vegli c sacerdoti,
A Meleagro deputati, il prega
Di venir, di respingere il nemico,
A sua scelta offerendo di cinquanta
Jugeri il dono, del miglior terreno
Di tutto il calcdonio almo paese.
Parte alle vili acconcio c parte al solco.
Molto egli pure il gcnitor lo prega.
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9. 7151-780
LIBIO IX
aoi
Dell'adirato figlio alle sublimi
Soglie traendo il senil fianco, e in voce
Supplicante del talamo picchiando
Alle sbarrate porte. Anche le suore,
Anche la madre già pentita, orando,
Chiedean mercede; ed ei più fermo ognora
La ricusava. Accorsero gli amici
I più cari e diletti^ e su quel core
Nulla poteva degli amici il prego:
Finché le porte da sonori e spessi
Golpi battute, lo fér certo alfine.
Che scalate i Cureti avean le mura,
E messo il foco alla città. Piangente
La sua bella consorte allor si fece
A deprecarlo, ed alla mente tutti
D'una presa città gli orrendi mali
Gli dipinse: trafitti i cittadini.
Arse le case, ed in catene i figli
Strascinati e le spose. Si commosse
All'atroce pensier l'alma superba^
Prese l'armi, volò, vinse, e gli Etóli
Salvò; ma solo dal suo cor sospinto.
Quindi alcun dono non ottenne, e il tardo
Beneficio rimase inonorato.
Non imitar cotesto esempio, o figlio.
Nè vi ti spinga dèmone maligno;
Che il soccorso indugiar, finché le navi
S'incendano, maggior onta sana.
Vieni; imita gli Dei; gli ofierti doni
Non disdegnar. Se li dispregi, e poscia
Volontario combatti, egual non fia.
Benché ritorni vincitor, l’onore.
Qui tacque il veglio; e brevemente Achille
In questi detti replicò: Fenice,
Caro alunno di Giove , ed a me caro
Padre, di questo onor non ho bisogno.
L'onor, ch’io cerco, mi verrà da Giove;
E qui pure davanti a queste antenne
L'avrò fin che vitale aura mi spiri.
Fin che il piè mi sorregga. Altra or vo’dirti
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20a
ILIADE
i>. 781 -8>o
Cosa, che in mente riporrai. Per farti
Grato all’Àtride non venir con pianti,
Nò con lagni a turbarmi il cor più mai.
Non amar contra il giusto il mio nemico,
Se l’amor mio t’è caro, e meco offendi
Chi m'offende^ chè questo ti sta meglio.
Del mio regno partecipa, c diviso
Sia teco ogni onor mio. Riporteranno
Questi le mie risposte, e tu qui dormi
Sovra morbido letto. Ai nuovo sole
Consulterem se starci, 0 andar si debba.
Disse; e a Patróclo fe degli occhi un cenno
D'allestire al buon veglio un colmo letto,
Onde gli altri a lasciar tosto la tenda
Volgessero il pensiero. In questo mezzo
Vólto ad Ulisse il gran Telamonide:
Partiam , diss' egli ; chè per questa via
Parmi, che vano il ragionar riesca.
Benché ingrata, n'è forza il recar pronti
La risposta agli Achei, che impazienti,
E forse ancora in assemblea seduti.
L’attendono. Feroce alma superba
Chiude Achille nel petto : indegnamente
L'amistà de’ compagni egli calpesta.
Nè ricorda l’onor, che gli rendemmo
Su gli altri tutti. Dispietato ! 11 prezzo
Qualcuno accetta dell’ucciso figlio,
0 del fratello; e l’uccisor, pagata
Del suo fallo la pena , in una stessa
Città dimora col placato offeso.
Ma inesorata ed indomata è l’ira,
Che a te pose nel petto un dio nemico ;
Per chi? per una donzclletta! c sette
Noi te n’oifriamo a maraviglia belle,
E molt’ altre più cose. Or via, rivesti
Cor benigno una volta. Abbi rispetto
Ai santi dritti dell’ospizio almeno;
Ch’ospiti tuoi noi siamo, e dal consesso
Degli Achei ne venimmo, a te fra tutti
1 più cari ed amici. — Illustre figlio
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«». 8ai*8Co LIBRO IX
Di Telamone, gli rispose Achille,
Ottimo io sento il tuo parlar*, ma l'ira
Mi rigonfia qualor penso a colui.
Che in mezzo degli Achei mi vilipese
Come un vii vagabondo. Andate , e netta
La risposta ridite. Alcun pensiero
Non tenterammi di pugnar, se prima
11 Pri'amide bellicoso Ettorre
Fino al quartier de’Mirmidóni il foco
E la strage non porti. Ov’egli ardisca
Assalir questa tenda e questa nave.
Saprò la furia rintuzzarne, io spero.
SI disse; e quegli, alzato il nappo e fatta
La libagion, partirsi; e taciturno
Li precedeva di Laerte il figlio.
A' suoi sergenti intanto ed all’ ancelle
Patroclo impone d’apprestar veloci
Soffice letto al buon Fenice; e, pronte
Quelle obbedendo , steser d’ agnelline
Pelli uno strato; vi spiegàr di sopra
Di finissimo lino una sottile
Candida tela, e su la tela un’ampia
Purpurea coltre; c, qui ravvolto, il vecchio.
Aspettando l’ aurora , si riposa.
Nel chiuso fondo della tenda ei pure
Ritirossi il Pelide, ed al suo fianco
Lesbia fanciulla di Forbanlc figlia
Si coi-có la gentil Diomedòa.
Dormi Patrdclo in altra parte; e a lato
Ifi gli giacque, un’elegante schiava,
Che il Peh'dc donògli il dì che l’alta
Sciro egli prese, d’Enieo cittade.
Giunti i legati al padiglion d’Atride,
Sursero tutti, e con aurate tazze
E afibllate dimande i prenci acbivi
Gli accolsero. Primiero interrogolli
Il re de’ forti , Agamennón : Preclaro
Della Grecia splendor, inclito Ulisse,
Parla; vuol egli dalle fiamme ostili
Servar l’armata? o, d’ira ancor ripieno
ILliDE
861-900
Il cor superbo, di Tenir ricusa?
Glorioso signor, rispose il saggio
Di Laerte figliuol, non che gli sdegni
Ammorzar, li raccendo egli più sempre,
E te dispregia e i tuoi presenti, e dice,
Che del come salvar le navi e il campo
Co’ duci achivi ti consulti. Aggiunse
Poi la minaccia, che il novello sole
Varar vedrallo le sue navi^ e gli altri
A rimbarcarsi esorta^ che dell’alto
Ilio l’ occaso non vedrem , die’ egli ,
Giammai: la mano del Tonante il copre,
E rincoràrsi i Teucri. Ecco i suoi sensi.
Che questi a me consorti, il grande Ajace
E i saggi araldi, confermar ti ponno.
Il vegliardo Fenice è là rimasto
Per suo cenno a dormir, onde dimani
Seguitarlo, se il vuole, al patrio lido:
Non farà forza al suo voler, se il niega.
D’alto stupor percossi «Ila feroce
Risposta, tutti ammutolirò i duci,
E lunga 'pezza taciturni e mesti
Si restar. Finalmente in questi detti
Proruppe il fiero Diomede: Elccelso
Sire de’prodi , glorioso Atride,
Non avessi tu mai nè supplicato.
Nè fatta ofierta di cotanti doni
All’altero Peh'de. Era superbo
Egli già per sè stesso^ or tu n’hai fatto
Montar l’orgoglio più d’assai. Ma vada,
O rimanga, di lui non più parole.
Lasciam, che il proprio genio, o qualche iddio
Lo ridesti alla pugna. Or secondiamo
Tutti il mio dir: di cibo c di fico.
Fonte d’ogni vigor, vi ristorate,
E nel sonno immergete ogni pensiero.
Tosto che schiuda del raattin le porte
Il roseo dito della bella Aurora,
Metti in punto, o gran re, fanti c cavalli
Nanzi alle navi, e a ben pugnar gl* istiga;
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901-906 tniRO IX 2o5
E combatti tu stesso alla lor testa.
Disse ^ e tutti applaudir, lodando a cielo
L’alto parlar di Diomede i regi;
E, fatti i libamenti, alla sua tenda
S’ incamminò ciascuno. Ivi le stanche
Membra accolser del sonno il dolce dono.
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LIBRO DECIMO
ARCOMBRTO
AgaffieoDonv, inquieto donate U notte, iv^lia i dori, • cootulu eoo loro di nundan aj-
f UDO ad esplunre il campo nemico. Ulisie e Diomede preodooo «pra di lè U carico dell’ im*
pma. Ettuf*, Iiramom di upcre te i Greci, rotti nella prrcedetrle giornata , penriao di fug-
gire e tnacurino le veglie nuiturne , manda aoch* egli un esploratore nel loro campo ; ed è
questi un certo Dolone. Incontro di costui cogli croi greci , a cui egli dà con lena dello sUto
attinie dei Troiani e dei loro alleati. Morte datagli «la Diomede, non ostante la promessa
lattagli da Ulisse di salvargli la vita. 1 due capitani , istrutti da Dolooe , si aTansaoo Suo allo
•quadrone de’ Traci, che sono immeni nel sonno; ne uccidono molti insieme col re loro
chiameto Reso, di cui ria si menano i cavalli ; e fanno ritorno alle nari.
Tutti per l’alta notte i duci achei
Dormi'an sul lido iu sopor molle avvinti^
Ma non l’Atride Agamennòn, cui molti
Toglieano il dolce sonno aspri pensieri.
Quale il marito di Giunon lampeggia ,
Quando prepara una gran piova o grandine ,
O folta neve ad inalbare i campi,
O fracasso di gnerra voratrice^
Spessi cosi dal scn d'Agamennónc
Rompevano i sospiri, e il cor tremava.
Volge lo sguardo alle trojane tende,
E stupisce mirando i molti fuochi,
Ch’ ardon dinanzi ad Ilio , c non ascolta
Che di tibie la voce e di sampogne,
E festivo fragor. Ma quando il campo
Acheo contempla ed il tacente lido,
Svcllesi il crine, al ciel si lagna, cd allo
Geme il egr generoso. Alfin gli parve
Questo il miglior consiglio: ir del Nclidc
Nèstore in traccia a consultarne il senno,
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V. ai*6o
ILIADK, LIBRO X
Onde qualcuna divisar con esso
Via di salute alla fortuna achea. )
Alzasi in questa mente; intorno al petto ‘
La tunica s’avvolge, ed imprigiona ’
Ne’ bei calzari il piede. Indi una fulva
Pelle s’indossa di leon, che larga . ,
Gli discende al calcagno, e l’asta impugna.
Nè di minor sgomento a Menelao
Palpita il petto; e fura agli occhi il sonno
L’ egro pensier de’ periglianti Àchivi ,
Che a sua cagione avean per tanto mare
Portato ad Ilio temeraria guerra.
Sul largo dosso gittasi veloce
Una di pardo maculata pelle;
Ponsi l’elmo alla fronte; e, via brandito
11 giavellotto, a risvegliar s’affretta
L’ onorato , qual nume , e dagli Argivi
Tutti obbedito imperador germano;
Ed alla poppa della nave il trova.
Che le bell’ armi in fretta si vcstia.
Grato ei n’ebbe l’arrivo; e Menelao
A lui primiero: Perchè t’armi, disse.
Venerando fratello? Alcun vuoi forse
Mandar de’ nostri csplorator notturno
Al campo de’ Trojani? Assai tem’io.
Che alcuno imprenda d'arrischiarsi solo
Per lo bujo a spiar l’oste nemica;
Chè molta vuoisi audacia a tanta impresa.
Rispose Agamennón: Fratello, è d’uopo
Di prudenza ad entrambi e di consiglio.
Che gli Argivi ne scampi e queste navi.
Or che di Giove si voltò la mente,
E d’Ettore ha preferti i sacriGci;
Ch'io nè vidi giammai, nè d’altri intesi.
Che un solo in un sol di tanti potesse
Forti fatti operar, quanti il valore
Di questo Ettorre a nostro danno; e a lui
Non fu madre una Dea, nè padre uu Dio.
E temo io ben, che lungamente afflitti
Di tanto strazio piangeran gli Achivi.
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308
lUiDE
■V 61-100
Or tu ranne, c d’Ajace e Idomenéo
Ratto vola alle navi, c li risveglia^
Gfaè a Nèstore io ne vado ad esortarlo
Di tosto alzarsi, c di seguirmi al sacro
Stuol d,:llc guardie, e comandarle. À lui
Pres'Èran, più che ad altri, obbedienza^
Pcroccbè delle guardie è capitano
Trasimède, suo figlio, c Mcrìonc,
D’ Idomenéo l’amico; a’ quai commesso
È delle scolte il principal pensiero.
E che poi mi prescrive il tuo comando?
(Replicò Menelao.) Degg’io con essi
Restarmi ad aspettar la tua venuta?
O, fatta l’imbasciata, a te veloce
Tornar? Rimanti, Agamennón ripiglia;
Tu rimanti colà; chò disviarci
Nell’ andar nc potri'an le molte strade.
Onde il campo è interrotto. Ovunque inUnto
Tavvegna di passar, leva la voce;
Raccomanda le veglie; ognun col nome
Chiama del padre c della stirpe; a tutti
Largo ti mostra d’onoranze, e poni
L’alterezza in obblio. Prendiam con gli altri
Parte noi stessi alla comun fatica;
Perché Giove noi pur fin dalla cuna,
Benché regi , gravò d’ alte sventure.
Cosi dicendo, in via mise il fratello
Di tutto l’uopo ammaestrato; ed esso
A Nèstore avviassi. Ritrovollo
Davanti alla sua nave entro la tenda
Corco in morbido letto. A sé vicine
Armi diverse avea, lo scudo e due
Lungh’astc e il lucid’clmo; c non lontana
Giacca di vario lavorio la cinta,
Di che il buon veglio si fasciava il fianco.
Quando a battaglie sanguinose armato
Le sue schiere mevea; clié non aucorn
Alla trista vecchiezza egli perdona.
All’ apparir d’Atridc, erto ei rizzossi
Sul cubito; c, levala alto la fronte,
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LIBRO X
ioi-i4o
L’interrogò, dicendo: E cbi sei tu,
Che pel campo ne vieni a queste navi
Così soletto per la notte oscura.
Mentre gli altri mortali han tregua e sonno?
Forse alcun de’ veglienti o de’ compagni
Vai rintracciando? Parla, c taciturno
Non appressarti: che ricerchi? — E a lui
Il regnatore Àtride: O degli Achei
Inclita luce. Nèstore Nelide,
Àgamennón son io, cui Giove opprime
D’infinito travaglio; e fia, che duri
Finché avrà spirto il petto e moto il piede.
Vagabondo ne vo, poiché dal ciglio
Fuggemi il sonno, e il rio pensier mi grava
Di questa guerra e della clade achea.
De’Oinai il rischio mi spaventa; inferma
Stupidisce la mente; il eor mi fugge
Da’ suoi ripari; e tremebondo é il piede.
Tu se cosa ne mediti, che giovi
(Quando il sonno s’invola anco a’ tuoi lumi).
Sorgi, e alle guardie discendiam. Veggiamo,
Se da veglia stancate e da fatica
Siensi date al dormir, posta in obblio
La vigilanza. Del nemico il campo
Non é lontano ; né sappiam , s’ ci voglia
Pur di notte tentar qualche conflitto.
Disse; e il gerenio cavalier rispose:
Agamennone, glorioso Atridc,
Non tutti adempirà Giove pietoso
I disegni d’Ettorre e le speranze.
Ben più vero cred’io, che molti affanni
Sudar d’ ambascia gli faran la fronte.
Se destcrassi Achille, e la tenace
Ira funesta scuoterà dal petto.
Or io volonteroso ecco ti seguo :
Andiannc; risvcgliam dal sonno iduci
Diomede cd Ulisse, ed il veloce
Ajace d’Oiléo, c di Filco
II forte figlio; e si spedisca intanto
Alcun di tutta fretta a richiamarne
Mosti. Iliade.
'4
aio
Pur l'altro Ajace, e Idomenco, che lungi
Àgli estremi del campo hanno le navi.
Ma quanto a Menelao, benché ne sia
D'onor degno ed amico, io non terrommi
Di rampognarlo (ancor che debba il franco
Mio parlare adirarti), c vergognarlo
Farò del suo poltrir, tutte lasciando
A te le cure , or eh' è mestier di ressa
Con tutti i duci e d’ogni umil preghiera,
Come crudcl necessità dimanda.
Ben altra volta (Agamennón rispose )
Ti pregai d’ ammonirlo, o saggio antico^
Chè spesso ci posa, e di fatica è schivo^
Per pigrezza non già, nè per difetto
D'accorta mente, ma perchè mici cenni
Meglio aspettar, che antivenirli, ci crede.
Pur questa volta mi precorse, e innanzi
Mi comparve improvviso^ ed io l’ho spinto
A chiamarne i guerrieri, che tu cerchi.
Andiamo chè tutti fra le guardie, avanti
Alle porte del vallo, congregati
Li b'overem^ chè tale è il mio comando.
E Nèstore a rincontro: Or degli Achei
Niun ritroso a lui Ila, nè disdegnoso
O comandi, od esorti. — In questo dire
La tunica s’avvolge intorno al petto ^
Al terso piede i bei calzari annoda ;
Quindi un’ ampia s’ affibbia c porporina
Clamide doppia, in cui Gorìa la felpa.
Poi recossi alla man l’acuta c salda
Lancia, e verso le navi incamminossi
De’ loricati Achivi. E primamente
Svegliò dal sonno il sapiente Ulisse,
Elevando la vocc^ e a lui quel grido
Feri l’orecchio appena, che veloce
Della tenda n’ usci con questi accenti :
Chi siete, che soletti errando andate
Presso le navi per la dolce notte?
Qual vi spinge bisogno? — O di Laerte
Magnanimo Ggliuol, prudente Ulisse,
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LIBRO X
21 I
(Gli rispose (li Pilo il cavaliero)
Non isdegnarti, c del dolor ti caglia
De’ travagliali Achei : vieni ^ chè un altro
Svegliarne è d’ uopo , e consultar con esso
O la fuga o la pugna. — A questo detto
Rientrò l'itacense nella tenda;
Sul tergo si gittò lo scudo, e venne.
Proseguirò il cammin quindi alla volta
Di Diomede, c lo trovar di tutte
L’ armi vestito , e fuor del padiglione.
Gli dormiano dintorno i suoi guerrieri
Profondamente, e degli scudi al capo
S’ avean fatto origlier. Fitto nel suolo
Stassi il calce dell’ aste, e il ferro in cima
Mette splendor da lungi, a simiglianza
Del baleno di Giove. Esso l’eroe
Di bue selvaggio sulla dura pelle
Dormi'a disteso, ma purpureo e ricco
Sotto il capo regale era un tappeto.
Giuntogli sopra, il cavalicr toccuUo
Colla punta del piè, lo spinse; e, forte
Garrendo, lo destò: Sorgi, Tidide:
Perchè ne sfiori tutta notte il sonno?
Non odi, che i Trojani in campo stanno
Sovra il colle propinquo, e che disgiunti
Di poco spazio dalle navi ei sono?
Disse; è quei si destò , balzando in piedi
Veloce come lampo; e, a lui rivolto.
Con questi accenti rispondea: Sei li'oppo
Delle fatiche tollerante, o veglio.
Nè ozioso giammai. A risvegliarne
Di (piest’ora i re duci inopia forse
’lTha di giovani achei pronti alla ronda?
Ma tu sei veglio infaticato c strano.
E Nèstore di nuovo: Illustre amico.
Tu verace parlasti e generoso.
Padre io mi son d’egregi figli, e duce
Di molti prodi, che potrian le veci
Pur d’ araldo adempir. Ma grande or preme
Necessità gli Àchivi, e morte e vita
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a 1 2
ILIADE
V. 2»i-a6o
Stanno sul taglio della spada. Or vanne
Tu, che giovine sci, vanne, e il veloce
Chiamami Ajacc e di Filéo la prole.
Se pietà senti del mio tai-do piede.
Così parla il vegliardo. E Diomede
Soli’ omero si getta una rossiccia
Capace pelle di lion, cadente
Fino al tallone, ed una picca impugna.
Andò l’eroe, volò, dal sonno entrambi
Li destò, li condusse-, c tutti in gruppo
S’ avviar delle guardie alle caterve:
Nè delle guardie abbandonato al sonno
Duce alcuno trovàr, ma vigilanti
Tutti ed armati e in compagnia seduti.
Come i 6di molossi al pecorile
Fan travagliosa sentinella, udendo
Calar dal monte una feroce belva ,
E stormir le boscaglie; un gran tumulto
S’ alza sovr’ essa di latrati e gridi,
E si rompe ogni sonno ; così questi ,
Rotto il dolce sopor su le palpebre.
Notte vegliano amara, ognor del piano
Alla parte conversi, ove s’udisse
Nemico calpestio. Gioinne il veglio,
E confortolli , e disse : Vigilate
Così sempre, o miei figli, c non si lasci
Niun dal sonno allacciar, onde il Trojano
Di noi non rida. Cosi detto, il varco
Passò del fosso, c lo scguièno i regi
A consiglio chiamati. A lor s’aggiunse
Compagno Merione, e di Nestorre
L’inclito figlio, convocati anch’ essi
Alla consulta. Valicato il fosso.
Fermarsi in loco dalla strage intatto.
In quel loco medesmo, ove sorgiunto
Ettore dalla notte aHa crudele
Uccisione ilcgli Achei fin pose.
Quivi seduti, cominciar la somma
A parlar delle cose; e in questi detti
Nèstore aperse il parlamento: Amici,
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LIBRO T
r. 96i*3oo
Hawi alcuna tra voi anima ardita
E in sè sicura, che furtiva ir voglia
' De’ fier Trojani al campo, onde qualcuno
De' nemici vaganti alle trinciere
Far prigioniero? o tanto andar vicino,
Che alcun discorso de' Trojani ascolti,
E ne scopra il pensier? se sia lor mente
Qui rimanersi ad assediar le navi,
O alla città tornarsi , or che domata
Han l'achiva possanza? Ei forse tutte
Potria raccor tai cose, c ritornarne
Salvo ed illeso. D'alta fama al niondo
Farebbe acquisto, e n'ottem'a bel dono.
Quanti son delle navi i capitani.
Gli daranno una negra pecorella
Coll'agnello alla poppa ^ e guiderdone
Alcun altro non v'ha, che questo adegui.
Poi ne' conviti e ne' banchetti ei fia
Sempre onorato, desiato e caro.
Disse; e tutti restar pensosi c muti.
Ruppe l'alto silenzio il bellicoso
Diomede, e parlò: Saggio Nelide,
Quell' audace son io: me la fidanza,
Me l'ardir persuade al gran periglio
D' insinuarmi nel dardanio campo.
Ma se meco verranno altro guerriero,
Securtà cresccrammi ed ardimento.
Se due ne vanno di conserva, l'uno
Fa l'altro accorto del miglior partito.
Ma d'un solo, sebben veggente c prode.
Tardo è il coraggio c debole il consiglio.
Disse; e molti volean di Diomede
Ir compagni: il volean ambo gli Ajaci,
11 volea Merion; più ch'altri, il figlio
Di Nestore il volea; cbiedcalo ancb'esso
L’Atride Menelao; cbiedea del pari
Penetrar ne' trojani accampamenti
D forte Ulisse; perocché nel petto
Sempre il cor gli volgca le ardite imprese.
Mosse allor le parole il grande Atride:
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1LUDB
3oi -B'io
Diletto Diomede, a tuo talento
Un compagno ti scegli a sì grand’uopo,
Qual ti sembra il miglior. Molti nc vedi
Presti a seguirti; nè verun rispetto
La tua scelta governi; onde non sia
Che lasciato il miglior, pigli il peggiore:
Nè li freni pudor, nè riverenza
Di lignaggio, nè s’altri è re più grande.
Cosi parlava, del fi'atcllo amato
Paventando il periglio: e fca risposta
Diomede cosi: Se d’un compagno
Mi comandate a senno mio l’ eletta ,
Come scordarmi del divino Ulisse,
Di cui provato è il cor, 1’ alma costante
Nelle fatiche, c che di Palla è amore?
S’ ei meco ne verrà , di mezzo ancora
Alle fiamme uscirem: cotanto è saggio.
Non mi lodar nè mi biasmar, Tididc,
Soverchiamente (gli rispose Ulisse);
Chè tu parli nel mezzo ai consci Argivi.
Partiam: la notte se ne va veloce;
Delle stelle il languir l’alba n’avvisa;
Nè dell’ ombre riman, che il terzo appena.
D’ armi orrende , ciò detto , si vestirò.
A Diomede, che il suo brando avea
Obbliato alle navi, altro ne diede
Di doppio taglio, cd il suo proprio scudo
Il forte Trasimede. Indi alla fronte
Una celata gli adattò di cuojo
Taurin compatta, senza cono e cresta,
Che barbuta si noma, e copre il capo
De’ giovinetti. Merione a gara
D’una spada, d’un arco e d’un turcasso
Ad Ulisse fe dono, e su la testa
Un morion gli pose aspro di pelle ,
Da molte lasse nell’ interno tutto
Saldamente frenato, e nel di fuore
Di bianchissimi denti rivestito
Di zannuto cinghiai, tutti in ghirlanda
Con vago lavorio disposti e folti.
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Grosso feltro il cncuzzulo guamia.
L’avea furato in Eleona un giorno
Àutólico ad Amintore d’Ormcno,
Della casa rompendo i saldi muri;
Quindi il ladro in Scandéa diello al Ciléi-io
Amfidamante; AmBdamantc a Molo
Ospitai donamento^ e questi poscia
Al 6glio Meri'on, che su la fìvnte
Alfin lo pose dell' astuto Ulisse.
Racchiusi nelle orrende arme gli eroi
Partir, lasciando in quel recesso i duci.
E da man destra intanto su la via
Spedì loro Minerva un airone.
Nè già questi il vedean ; chè agli occhi il vieta
La cieca notte, ma n'udian lo strido.
Di quell’augurio l’Itacense allegro,
A Minerva drizzò questa preghiera:
Odimi, o figlia dell’ Egioco Giove,
Che l’ opre mie del tuo nume proteggi ,
Nè t’è veruno de’ mici passi occulto;
Or tu benigna più che prima, o Dea,
Dell’ amor tuo ra’ affida, e ne concedi
Glorioso ritorno e un forte fatto,
Tale, che renda dolorosi i Teucri.
Pregò secondo Diomede, e disse;
Di Giove invitta armipotente figlia,
Odi adesso me pur: fausta mi segui
Siccome allor che seguitasti a Tebe
Il mio divino genitor Tidéo,
De’ loricati Achivi ambasciadore
Attendati d’Asopo alla riviera.
Di placido messaggio egli a’ Tebani
Fu portator; ma fieri fatti ci fece
Nel suo ritorno col favor tuo solo;
Chè nume amico gli venivi al fianco.
E tu propizia a me pur vieni, o Dea,
E salvami. Sull’ara una giovenca
Ti ferirò d’un anno, ampia la fronte,
Ancor non doma, ancor del giogo intatta:
Questa darotli, e avrà dorato il corno.
ai6 ILliDK ». 38l4>o
Così pregaro^ e gli esandi'a la Diva.
Implorata dì Giove la possente
Figlia Minerva, proseguir la via
Quai due lìoni, per la notte oscura,
Per la strage, per l’armi e pe’ cadaveri
Sparsi in morta di sangue atra laguna.
Nè d'altra parte ai forti Teucri Ettorre
Permette il sonno^ ma de’ prenci e duci
Chiama tutti i migliori a parlamento;
E, raccolti, lor apre il suo consiglio:
Chi di voi mi promette un’ alta impresa
Per grande premio, che il farà contento?
Darogli un cocchio, e di cervice altera
Due corsieri , i miglior dell’ oste achea ,
(Taccio la fama, che n’avrà nel mondo).
Questo dono otterrà chiunque ardisca
Appressarsi alle navi, e cauto esplori
Se sian, qual pria, guardate, o pur, se domo
Da nostre forze l’inimico or segga
A consulta di fuga, e le notturne
Veglie trascuri affaticato e stanco.
Disse; e il silenzio li fe tutti muti.
Era un certo Dolone inira’ Trojani,
Uom , che di bronzo e d’ oro era possente ,
Figlio d’Eumede banditor famoso,
Deforme il volto, ma veloce il piede,
E fra cinque sirocchie unico e solo.
Si trasse innanzi il tristo, e così disse:
Ettore, questo cor l’ incarco assume
D’avvicinarsi a quelle navi, e tutto
Scoprir. Lo scettro mi solleva , e giura ,
Che l'eneo cocchio c i corridori istcssi
Del gran Pch'dc mi darai: nè vano
Esploratore io ti sarò: nè vota
Fia la tua speme. NcH’acheo steccato
Penetrerò ; mi spingerò fin dentro
L’agamcnuónia nave, ove a consulta
Forse i duci si stan di pugna o fuga.
Sì disse; e l’altro sollevò lo scettro,
E giurò : Testimon Giove mi sia ,
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. fi. 4ti-46o LiBso X ai7
Giore il tonante di Ginnon marito,
Che da que’ bei corsieri altri tirato
Non Terrà de’ Trojani, c che tu solo
Glorioso n’andrai. — Fu questo il giuro,
Ma sperso all’aura; e da quel giuro intanto
Incitato Dolone, in su le spalle
Tosto l’arco gittossi, e la persona
Della pelle vesti di bigio lupo;
Poi chitise il brutto capo entro un elmetto,
Che d’ispida faina era munito.
Impugnò un dardo acuto; ed alle navi.
Per non più ritornarne apportatore
Di novelle ad Ettorre, incamminossi.
Lasciata de’ cavalli e de’ pedoni
La compagnia, Dolon spedito e snello
Battea la strada. Se n’ accorse Ulisse
Alla pesta de’ piedi , e a Diomede
Sommesso favellò: Sento qualcuno
Venir dal campo, nè so dir se spia
Di nostre navi, o spogliator di morti.
Lasciam, che via trapassi, e gli saremo
Ratti alle spalle, e il piglierem. Se avvegna,
Ch’ei di corso ne vinca, tu coll’asta
Indefesso l’incalza, e verso il lido
Serralo si, che alla città non fugga.
Uscir di via, ciò detto, e s’appiattaro
Tra’ morti corpi; ed egli incauto e celere
Oltrepassò. Ma lontanato appena.
Quanto è un solco di mule (che de’ buoi
Traggono meglio il ben connesso aratro
Nel profondo maggese), gli fur sopra;
Ed egli, udito il calpestio, ristette.
Qualcun sperando, che de’ suoi venisse
Per comando d’ Ettorre a richiamarlo.
Ma giunti d’asta al tiro e ancor più presso.
Li conobbe nemici. Allor dier lesti
L’uno alla fuga il piè, gli altri alla caccia.
Qual due d’aguzzo dente esperti bracchi
O lepre o capriol pel bosco incalzano
Senza dar posa, ed ei precorre e bela;
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jjl8 ILIADE I». ^6i-5tK> •
Tali Ulisse e il Tidi'de all’ infelice
Si stringono inseguendo, e precidendo
Sempre ogni scampo. E già nel suo fuggire
Verso le navi sul momento egli era
Di mischiarsi alle guardie, allor che lena
Crebbe Minerva e forza a Diomede^
Onde niun degli Achei vanto si désse
Di ferirlo primiero, egli secondo.
Alza l’asta l’eroe: Ferma, gridando,
0 ch’io di lancia ti raggiungo, e uccido.
Vibra il telo in ciò dir, ma vibra in fallo
A bello studio: gli strisciò la punta
L’ òmero destro, e conficcossi in terra.
Ristette il fuggitivo , c di paura
Smorto tremando, della bocca usci'a
Strìder di denti, ebe batteauo insieme.
L’ aggiungono anelanti i due guerrieri.
L’afferrano alle mani*, ed ei, piangendo,
Grida; Salvate questa vita, ed io
Riscatterolla. Ho gran ricchezza in casa
D’oro, di rame e lavorato ferro.
Di questi il padre mio, se nelle navi
Vivo mi sappia degli Achei , faravvi
Per la mia libertà dono infinito.
Via, fa cor, rìspondea lo scaltro Ulisse;
Nè veruno di morte abbi sospetto,
Ma dinne, c sii verace: Ed a qual fine
Dal campo te ne vai verso le navi
Tutto solingo pel notturno bujo
Mentre ogni altro mortai nel sonno ba posa?
A spogliar forse estinti corpi? o forse
Ettor ti manda ad isp'iar de’ Greci
1 navili, i pensieri, i portamenti? ni
O tuo genio ti mena e tuo diletto? •
E a lui tremante di terror Dolone :
Misero! mi travolse Ettore il senno,
E in gran disastro mi cacciò, giurando.
Che in don m’avrebbe del famoso Achille
Dato il cocchio e i desti'icrì a questo patto.
Ch'io di notte traessi all’ inimico
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LIBRO Y
501.5^0
319
Ad esplorar, se, come pria, gnardate
Sien le navì^ o se voi , dal nostro ferro
Domi, leniate del fuggir eonsiglio.
Schivi di veglie, e di fatica oppressi.
Sorrise Ulisse, c replicò: Gran dono
Certo ambiva il tuo cor, del grande Achille
I destrier. Ma domarli c cavalcarli
Uom mortale non può, tranne il Pelide,
Cui fu madre una Dea. Ma questo ancora
Contami, e non mentire: Ove lasciasti.
Qua venendoti , Ettorre ? ove si stanno
I suoi guerrieri arnesi ? ove i cavalli ?
Quai son de’ Teucri le vigilie e i sonni?
Quai le consulte? Bloccheran le navi?
0 in Ilio torneran, vinto il nemico?
Gli rispose Dolon: Nulla del vero
Ti tacerò. Co’ suoi più saggi Ettorre
In parte da rumor scevra e sicura
Siede a consiglio al monumento d’IIo.
Ma le guardie, 0 signor, di che mi chiedi.
Nulla del campo alla custodia è fissa;
Che quanti in Ilio han focolar, costretti
Son cotesti alla veglia, e a far la scolta
S’esortano a vicenda. Ma nel sonno
Tutti giaccion sommersi i collegati.
Che , da diverse rcgion raccolti ,
Nè figli avendo nè consorte al fianco,
Lasciano ai Teucri delle guardie il peso.
Ma dormon essi co’ Trojan confusi
(Ripiglia Ulisse), o segregati? Parla;
Ch'io vo’ saperlo. — E a lui d’Cumcde il figlio:
Ciò pure ti sporrò schietto e sincero.
Quei della Caria, ed i Peonj arcieri,
1 Lelegi, i Caucòni ed i Pclasghi
Tutto il piano occupar, che al mare inchina;
Ma il pian di Timbra i Licj e i Misj alteri
E i frigi cavalieri, e con gli equestri
Lor drappelli i Meonj. Ma dimando
Tante perchè? Se penetrar vi giova
Nel nostro campo, ecco il quarticr de’ Traci,
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lao
ILIiDE
r. S4l.S8o
Alleati novelli, che divisi
Stansi ed estremi. Han dace Reso, il Gglio
D’ Biondo; e a lui vid’io destrieri
Di gran corpo ammirandi e di bellezza,
Una neve in candor, nel corso un vento.
Monta un cocchio costui tutto commesso
D'oro e d’argento, e smisurata e d’oro
(Maraviglia a vedersi!) è l’armatura.
Di mortale non già, ma di celeste
Petto sol degna. Che più dir? Traetemi
Prigioniero alle navi, o in saldi nodi
Qui lasciatemi avvinto infin che pure
Vi ritorniate: e siavi chiaro a prova.
Se fu verace il labbro o menzognero.
Lo guatò bieco Diomede, e disse:
Da che ti spinse in poter nostro il fato,
Dolon, di scampo non aver lusinga.
Benché tu n’abbia rivelato il vero.
Se per riscatto o per pietà disciolto
Ti mandiam, tu per certo ancor di nuovo
Alle navi verresti esploratore,
O inimico palese in campo aperto.
Ma se (pii perdi per mia man la vita,
Più d’Argo ai figli non sarai noccnte.
Disse; e il meschino già la man stendea
Supplice al mento ; ma calò di forza
Quegli il brando sul collo, e ne recise
Ambe le corde. La parlante testa
Rotolò nella polve. Allor dal capo
Gli tolsero l’elmetto, e l’arco e l’asta
E la lupina pelle. In man solleva
Le tolte spoglie Ulisse; e a te. Minerva
Predatrice, sacrandole, si prega: . t: >
Godi di (pieste, o Dea; chè te primiera
De’ Celesti in Olimpo invocheremo;
Ma di nuovo propizia ai padiglioni
Or tu de’ traci cavalier ne guida.
Disse; e le spo^ie su la cima impose
D’un tamarisco; e, canne c ramoscelli ;
Sterpando intorno, e di lor fatto un fascio.
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, ,58i-6m WB1»0 X a*i
Segnai lo tnelle, che per l’ombra incerta
Nel loro ritornar lo sguardo avvisi.
Quindi inoltràr, pestando sangue ed armi^
E fnr tosto de’ Traci allo squadrone.
Dormiano infranti di fatica , e stesi !
In tre file, coll’ armi al suol giacenti
A canto a ciascheduno. Ognun de’ duci •
Tiensi dappresso due destrier da giogo ^
Dorme Reso nel mezzo; e a lui vicino
Stansi i cavalli colle briglie avvinti
All’estremo del cocchio. Avvisto Q primo i
Si fu di Reso Ulisse, e a Diomede ,>
L’additò: Diemede, ecco il guerriero;
Bieco i destrier, che dianzi n’avvisava
Quel Dolon, che uccidemmo. Or tu fuor metti
L’usata gagliardia; chè qui passarla i
Neghittoso ed armato onta sarebbe.
Sciogli tu quei cavalli, o a morte mena
Gostor; chè de’ cavalli è mia la cura.
Disse; c spirò Minerva a Diomede
Robustezza divina. A dritta, a manca
Fora, taglia ed uccide, e degli uccisi
II gemito la muta aria feria.
Corre sangue il terren. Come bone,
Sopravvenendo, al non guardato gregge
Scagliasi, c capre e ugnelle empio diserta;
Tal nel mezzo de’ Traci è Diomede.
Già dodici n’avea trafitti; c quanti
Colla spada ne miete il valoroso.
Tanti n’aflerra dopo lui d’un piede
Lo scaltro Ulisse, e fuor di via li tira,
Nettando il passo a’ bei destrieri, ond’elli,
Alla strage non usi, in cor non tremino,
Le morte salme calpestando. Intanto
Piomba su Reso il fier Tidide , e priva
Lui tredicesmo della dolce vita.
Sospirante lo colse ed affannoso;
Perchè per opra di Minerva apparso
Appunto in quella gli pendea sul capo.
Tremenda vis'ion, d’Enidc il figlio.
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lUàDE
¥. 6ai^6o
Scioglie Ulisse i destrieri, c colle briglie
Accoppiati, di mezzo a quella torma ■
Via li mena, e coll’arco li percuote^; ,
(Chè tor dal cocchio non pensò la sferza);
E d’un fischio fa cenno a Diomede.
Ma questi in mente discorrea più arditi
Fatti, c dubbiava, se dar mano al cocchio
D’armi ingombro si debba, e pel timone
Trarlo; o se imposto alle gagliarde spalle
Via sci porti di peso; o se prosegua
D’ altri più Traci a consumar le vite.
In questo dubbio gli si fece appresso
Minerva, e disse: Al partir pensa, o figlio
Dell’invitto Tidéo ; riedi alle navi,
Se tornarvi non vuoi cacciato in fuga,
E che svegli i Trojaui un Dio nemico.
Udì l’eroe la Diva; c ratto ascese
Su l’uno de’ corsier, su l’altro Ulisse,
Che via coll’ arco li tempesta , e quelli ,
Alle navi volavano veloci.
Il signor del sonante arco d’ argento
Stavasi Apollo alla vedetta; c, vista
Seguir Minerva del Tidide i passi.
Adirato alla Dea, misebiossi in mezzo
Alle turbe trojane, e Ipocoontc
Svegliò, de’ Traci consiglierò, e prode
Gonsobrino di Reso. Ed ei, balzando
Dal sonno, c de’ cavalli abbandonalo
Il quartiere mirando, e palpitanti
Nella morte i compagni, c lordo tutto
Di sangue il loco, urlò di doglia, e forte
Chiamò per nome il suo diletto amico;
E un trambusto levossi c un allo grido
Degli accorrenti Troi, che l’arduo fatto '
Dei due fuggenti contemplar stupiti.
Giungean questi frattanto ove d’Etlorrc
Aveau l’incauto esploratoi'e ucciso.
Qui ferma Ulisse de’ corsieri il volo;
Balza il Tidide a tcira, e, nelle mani
Dcll’ilaco gucrricr le sanguinose
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LIBRO X
¥. 661-700
Spoglie’ deposte, rapido rimonta,
E flagella i cursicr, cho verso il mai'c
Divorano la via volonterosi.
Primo udinne il romor Nestore, e disse :
O amici, o degli Achei principi c duci.
Non so se falso il cor mi parli , o vero^
Pur dirò: mi ferisce un calpestio
Di correnti cavalli. Oh fosse Ulisse!
Oh fosse Diomede, che veloci
Gli adducessero a noi tolti a’Trojani!
Ma mi turba timor, che a questi prodi
Non arvegna fra’ Teucri un qualche danno.
Finite non avea queste parole.
Che i campioni arrivar. Balzavo a terra ^
E con voci di plauso e con allegro
Toccar di mani gli accogliean gli amici.
Nèstore il primo interrogolli : O sommo
Degli Àchivi splendore, inclito Ulisse,
Che destrieri son questi ? ove rapiti ?
Nel campo forse de’ Trojani? o diclli.
Fattosi a voi d’incontro, un qualche iddio?
Sono ai raggi del Sol pari in candore
Mirabilmente^ ed io, che sempre in mezzo
A’ Trojani m’avvolgo, c, benché veglio
Guerrier, restarmi neghittoso aborro.
Io nè questi, nè pari altri corsieri
Unqua vidi, nè seppi. Onde per via
Qualcun mi penso degli Dei v’apparve,
E ven fe dono^ perocché voi cari
Siete al gran Giove, adunator di. nembi,
E alla figlia di Giove, alma Minerva.
Nèstore, gloria degli Achei, rispose
L’accorto Ulisse, agevolmente un Dio
Potria darli, volendo, anco migliori;
Chè gli Dei ponno più d'assai. Ma questi.
Di che chiedi, son traci c qua di poco
Giunti: al re loro c a dodici de’ primi
Suoi compagni diè morte Diomede,
E tredicesmo un altro n’uccidemmo,
Dai teucri duci esplorato!’ spedito
aa3
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Del nostro campo. — Così detto, spinse,
Giubilando, oltre il fosso i corridori;
E fcstcggianli lo seguir gli Achivi.
Giunto al suo regio padiglion, legolli
Con salda briglia alle medesme greppie,
Ove dolci pascean biade i corsieri
Dlomedéi. Ulisse all’alta poppa
Le spoglie di Dolon sospende, e a Palla
Prepararsi comanda un sacrificio.
Tersero quindi entrambi alla marina
L’abbondante sudor, gambe lavando
E collo e fianchi. Riforbito il corpo,
E ricreato il cor, si ripurgaro
Nei nitidi lavacri. Indi, odorosi
Di pingue oliva, si scdeano a mensa,
Pieni i nappi votando, ed a Minerva
Libando di Lieo l’almo licore.
LIBRO UNDECIMO
ARGOMENTO
La Diirardu «Ita il grì<lo di ga^ra. Agamennone & armare c nmdiKe alla baliaglia la
ad^iere. Pugna duLbiou da prima. Agamenaooe prevale. Giove rpediare Iride ad Ettore per
ordinargli di »Urti io dùpaite Bnchè uoa ve^a AgameoooDe ritirar» Crrito alle nari. Morta
d’tfidamante e di Coooe. Prodeaaa di Ettore, vitto Agamennone ferito. Diomede ed Vliue
gli H oppongocw. Paride ferùee Diomede, che è cottreUo a ritinrà. llUase, ctroanddlD dai
Trojani, li rhpioge da aè. Uedde Seco, da cui era alalo ferito. E protetto da Ajace e eoo*
dotto da Menelao fuori della mitctiia. Macaone, ferito da Paride, viene ricondotto da
atore nclb tua tenda. Ettore abaragUa il campo greco , mentre io altra parta Ajace fe ttrage
di Trujani. Ritinta dì Ajace. Achille, parendogli di vedere Macaone, che parta ferito,
manda Pitroclo, il quale a* accerti ehi tu queireroe. Pilrudo, aLboccato» con Nestore, h da
lui pregalo a tentare d* indurre Achille a combattere pet Greci , o ad accoaaentire almeno,
eh’ egli tietu venga rìvetUto delle armi dell' amico in loro toecono. Pitrocb , ritorando ,
Kooànu io Euripilo ferito da Paride; lo mena alla ma (coda , e oc medica la piaga.
Dal croceo letto di Titon l'Àurora
Sorgea, la terra illuminando e il cielo;
E yér le navi achee Giove spedia
La Discordia feral. Scotea di guerra
L'orrida insegna nella man la Dira;
E tal d’ Ulisse s'arrestò su l'alta
Capitana, che posta era nel mezzo,
Donde intorno mandar potea la voce
Fin d'Ajace e d'Achille al padiglione.
Che, nella forza e nel gran cor securi,
Sottratte ai lati estremi avean le prore.
Qui ferma, d’un acuto orrendo grido
Empi l'achive orecchie; e tal ne' petti
Un vigor suscitò, tale un desio
Di pugnar, d' azzuffarsi e di ferire.
Che sonava nel cor dolce la guerra
Più che il ritorno al caro patrio lido.
Alza Atride la voce, e a tutti impone
Di porsi in tutto punto; e d'armi ci puro
' Folgoranti si vèste. E pria circonda
Moni. Iliade.
i5
ILIADE
Di calzari le gambe, ornati e stretti
D’argentee 6bbie. Una lorica al petto
Quindi si pon, ebe Cinira gli avea
Un di mandata in ospitai presente^
Perocché quando strepitosa in Cipro
Corse la fama, ebe 1’ acbiva armata
Verso Troja spiegar dovea le vele,
Gratificar di quell' usbergo ci volle
L’amico Àgamennón. Di bruno acciaro
Dieci strisce il cingean, dodici d'oro.
Venti di stagno. Lubrici sul collo
Stendon le spire tre cerulei draghi,
Simiglianti alle pintc iri, che Giove
Suol nelle nubi colorar, portento
Ài parlanti mortali. Indi la spada
Agli òmeri sospende, rilucente
D’aurate bolle, e la vcsti'a d’argento
Larga vagina col pendaglio d’ oro.
Poi lo scudo imbracciò, che vario e bello
E di facil maneggio tutto cuopre
n combattente. Ha dieci fasce intorno
Di bronzo, e venti di forbito stagno
Candidissimi colmi, c un altro in mezzo
DI bruno acciar. Su questo era scolpita ,
Terribile gli sguardi, la Gorgone
Col Terrore da lato e con la Fuga,
Rilievo orrendo. Dallo scudo poscia
Una gran lassa dipendea d’argento,'
Lungo la quale azzurro c sinuoso
Serpe un drago a tre teste, che ritorte
D'una sola cervice eran germoglio.
Quindi al capo diè l’elmo adorno tutto
Di lucenti chiavelli, irto di quattro
Coni e d’equine setole con una
Superba cresta, che di sopra ondeggia
Terribilmente. Àlfin due lance impugna
Ma.ssicce, acute, le cui ferree punte
Mettean baleni di lontano. lutante
Giuno e Palla, onorando il grande Àtridc,
Dicr di sua mossa con fragore il segno.
!■. 6i loo
LIBRO XI
aa7
All’auriga ciascuno allur cuiiiaiula,
Clic parati in bcll’ortlinc sostegna
Alla fossa i dcstricr, mentre a gran passi
Chiuse nell’ armi le pedestri schiere
Procedono al nemico. Ancor non vedi
Spuntar l’aurora, e d’ogni parte immenso
Romor già senti. Come tutto giunse
L’esercito alla fossa, immantinente
Pur cavalli e pedoni in ordinanza:
Questi primieri, e quei secondi. Intanto
Giove dall’alto romoreggia, e piove
Di sangue una rugiada, annunziatrice
Delle molte, che all’Orco in quel conflitto
Anime generose avria sospinto.
D’altra parte i Trojani in su l’altezza
Si schierano del poggio. In mezzo a loro
S’aflaccendano i duci; il grande Ettorre,
D’Anchise il figlio, che venia qual nume
Da’ Trojani onorato j il giusto e pio
Polidamante; e i tre antenórei figli,
Polibo, io dico, ed il preclaro Agenore,
Ed Acamantc, giovinetto, a cui
Di celeste beltà fioria la guancia.
Maestoso fra tutti Ettor si volve
Coll’ cgual d’ ogni parte ampio pavese.
E qual di Sirio la funesta stella
Or senza vel fiammeggia, ed or rientra
Nel bujo delle nubi^ a tal sembianza
Or nelle prime file, or nell’ estreme
Ettore comparia, dando per tutto
Provvidenza e comandi; e tutta d’arme
Rilucea la persona , e fulgorava
Come il baleno dell’ Egioco Giove.
Qual di ricco padron nel campo vanno
I mietitori, con opposte fronti
Falciando l’orzo od il frumento; in lunga
Serie recise cadono le bionde
Figlie de’ solchi, o in un momento ingombra
Di manipoli tutta è la campagna;
Così Teucri ed Achei, gli uni su gli altri
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ILIIDE
t'. 10l-l4o
aiS
Imiendo, si mietono col ferro
In mutua strage. Immemore ciascuno
Di vii fuga, e gnerrier centra guerriero,
Pugnan tutti del pari, e si van contra
Coll’impeto de’ lupi. A riguardarli
Sta la Discordia, e della strage esulta,
À cui sola de’ numi era presente.
Sedeansi gli altri taciturni in cielo
In sua magion ciascuno , edificata
Su gli ardui gioghi del sereno Olimpo.
Ivi ognuno in suo cor fremca di sdegno
Contro l’alto de’ nembi addensatore.
Che dar vittoria a’ Troi volea^ ma nullo
Pensicr si prende di quell’ira il Padre,
Che in sua gloria esultante e tutto solo
In disparte sedea, Troja mirando
E l’achce navi, c il folgorar dell’ armi,
E il ferire e il morir de’ combattenti.
Finché il mattin processe, e crebbe il sacro
Raggio del giorno, d’ambe parti eguale
Si mantenne la strage. Ma nell’ora.
Che in montana foresta il Icgnajuolo
Pon mano al parco desinar, sentendo
Dall’assiduo tagliar cerri ed abeti
Stanche le braccia e fastidito il core,
E dolce per la mente e per le membra
Serpe del cibo il naturai desio.
Prevalse la virtù de’ forti Argivi,
Che, animando lor file e compagnie,
Sbaragliar le nemiche. Agamennóne
Saltò primier nel mezzo, e Fianorre,
Pastor di genti, uccise j indi Oiléo,
Suo compagno ed auriga. Era dal carro
Costui sceso d'un salto, e gli vem'a
Dirittamente contro. A mezza fronte
Coll’acuta asta lo colpi l’Atride.
Non resse al colpo la celata^ il ferro
Penetrò l’elmo e l’osso, e tutto interna-
-mente di sangue gli allagò il ccrébro:
Cosi r audace assalitor fu domo.
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LIBRO ZI
2»9
i8o
Rapi d’ambo le spoglie Agamcnndne,
E nudi il petto li lasciò supini.
Andò poscia lUretto ad assalire
Due di Priamo figliuoli, Iso ed Antifo:
L’uu frutto d’ Imenèo; l’altro d’Amore.
Vernano entrambi sul medesmo cocchio
I fratelli: reggeva Iso i destrieri:
Antifo combattea. Sul balzo d’Ida
Arcali un giorno sopraggiunti Achille,
Mentre pascean le greggie, e di pieghevoli
Vermene avvinti, e poi disciolti a prezzo.
Ed or l’Atride Agamennòn coll’ asta
Spalanca ad Iso tra le mamme il petto;
Piede di brando Antifo nella tempia,
E lo spiomba dal cocchio. Immantinente
Delle bell’ armi li dispoglia entrambi;
Chè ben li conoscea dal dì, che Achille
Dai boschi d’Ida prigionicr li trasse
Seco alle navi; ed ei notonne i volti.
Come quando un h'on , nel covo entrato
D’agil cerva, ne sbrana agevolmente
I pargoli portati, e li maciulla
Co’ forti denti, mormorando, e sperde
L’ anime tenerelle; la vicina
Misera madre, non che dar soccorso.
Compresa di terror fugge veloce
Per le dense boscaglie, c trafelando
Suda al pensier della possente belva;
Cosi nullo de’ Troi poteo da morte
Salvar que’ due; ma tutti anzi le spalle
Conversero agli Achivi. Assatse ei dopo
Ippoloco e Pisandro, ambo figliuoli
Del bellicoso Antimaco, di quello,
Che da Paride compro per molt’oro
E ricchi doni, d’Elena impedia
II rimando al marito. I figli adunque
Di costui colse al varco Agamennòne,
Sovra un medesmo carro ambo volanti,
E turbati e smarriti; chè pel campo
Sfrenaronsi i destrieri, e dalla mano
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a3o
ILIADE
Le scorrevoli briglie cran cadute.
Come fton fu loro addosso , e quelli
S’inginocchiàr, dal carro supplicando:
Lasciane vivi, Atride, e di riscatto
Gran prezzo n’otterrai. Molta risplcndc
Nella magion d’Antimaco ricchezza,
D’oro, di bronzo e lavorato ferro.
Di questo il padre ti darà gran pondo
Per la nostra riscossa, ov’egli intenda
Vivi i suoi figli nelle navi achee.
Così piangendo supplicar con dolci
Modi', ma dolce non rispose Atride:
Voi d’Antimaco figli? di colui.
Che nel trojano parlamento osava
D’ Ulisse e Menelao, venuti a Troja
Ambaseiatori, consigliar la morte?
Pagherete voi dunque ora del padre
L’indegna offesa. — SI dicendo, immerge
L’asta in petto a Pisandro, e giù dal carro
Supin lo stende sul terren. Ciò visto.
Balza Ippoloco al suolo , e lui secondo
Spaccia i’Atride^ coll’acciar gli pota
Ambe le mani, e poi la testa, e lungi
Come paleo la scaglia a rotolarsi
Fra la turba. Lasciati ivi costoro ,
Fubninando si spinge nel più caldo
Tumulto dolla pugna, e l’accompagna
Molta mano d' Achei. Fan strage i fanti
De’ fanti fuggitivi, i cavalieri
De’ cavalier. Si volve al cicl la polve
Dalle sonanti kampc sollevata
De’ fervidi corsieri ; e Agamennone
Sempre insegue ed uccide, c gli altri accende.
Come quando s’appiglia a denso bosco
Incendio struggitor, cui gruppo aggira
Di fiero vento e d’ogni parte il gitta;
Cadono i rami dall’invitta fiamma
Atterrati c combusti; a questo modo
Sotto l’Atridc Agamennón le teste
Cadcan de’ Teucri fuggitivi; c molti
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LIBRO XI
1-260
Colle chiome sul collo fluttuanti
Deslricr traean pel campo i voti carri,
Sgominando le file, ed il governo
Desiderando de’ lor primi aurighi.
Ma quei giacean già spenti, agli avoltoi
Gradita vista, alle consorti orrenda.
Fuori intanto dell’ armi e della polve,
Delle stragi, del sangue e del tumulto
Condusse Giove Ettòr. Ma gl’ inseguiti
Teucri dritto al sepolcro del vetusto
Dardanid’llo verso il caprifico
La piena fuga dirigean, bramosi
Di ripararsi alla cittade: e sempre
Gl’ incalza Atride, e orrendo grida, e lórda
Di polveroso sangue il braccio invitto.
Giunti alfine alle Scee, quivi sostàrsi
Vicino al faggio, ed aspettar l’arrivo
De’ compagni pel campo ancor fuggenti,
E simiglianti a torma d’atterrite
Giovenche, che lion di notte assalta.
Alla prima, che abbranca, ei figge i duri
Denti nel eolio, e, avidamente il sangue
Succhiatone, n’incanna i palpitanti
Visceri; e tale gl’inseguia l’Atride,
Sempre il postremo atterrando, e quei sempre
Spaventati fuggendo: e giù dal cocchio
Altri cadca boccone, altri supino
Sotto i colpi del re, che innanzi a tutti
Oltre modo coll’asta infuriava.
E già in cospetto gli veni'an dell’ alto
Ilio le mura, e vi giungea; quand’ecco
Degli uomini il gran padre e degli Dei
Scender dal cielo , e maestoso in cima
Sedersi dell’acquosa Ida, stringendo
La folgore nel pugno. Iri a sè chiama,
L’ali-dorata messaggiera; e; Vanne,
Vola, le disse, Iri veloce, e ad Ettore
Porta queste parole. Infin ch’ei vegga
Tra’ primi combattenti Agamennóne
Romper le file furibondo, ci cauto
ILIADE
**. a6i>3<»u
a3i
Stiasi in disparte, c d'animar sia pago
Gli altri a far testa, e oprar le mani. Appena
O di lancia percosso o di saetta
L’Atride il cocchio monterà, si spinga
Ei ratto nella mischia, lo porgerogli
Alla strage la forza, inGn che giunga
Vincitore alle navi, e al dì caduto
Della notte succeda II sacro orrore.
Disse ^ e veloce la veloce Diva
Dal giogo idèo discende al campo, c trova
Stante in piè sul suo carro il bellicoso
Piramide ^ e, appressata: O tu, gli disse.
Che il consiglio d’un Dio porti nel core,
Ettore, le parole odi, che Giove
Per me ti manda. InGn che Agamennone
Vedrai tra’ primi infuriar, rompendo
De’ guerrieri le Gle, il piè ritira
Tu dal conflitto, e fa, che col nemico
Pugni il resto de’ tuoi. Ma quando el d’ asta
O di strale ferito darà volta
Sopra il suo cocchio, allor t’avanza. Avrai
Tal da Giove un vigor , eh’ anco alle navi
La strage spingerai, Gnchè la sacra
Ombra si stenda su la morta luce.
Disse; e sparve. L’eroe balza dal cocchio
Risonante nell’ armi; e, nella mano
Palleggiando la lancia, il campo scorre,
E raccende la pugna. Allor destossi
Grande conflitto. Rivoltai'o i Teucri
Agli AchivI la faccia, e di rincontro
Le lor falangi rinforzàr gli AchivI.
Venuti a fronte, rinnovossi il cozzo,
E primiero si mosse Agaanennónc
Innanzi a tutti, di pugnar bramoso.
Muse dell’alto Olimpo abitatrici.
Or voi ne dite chi primicr si spinse,
O trojano guerriero od alleato.
Contro il supremo Atride. IGdamantc,
D’Antèuore Ggliuolo, un giovinetto
D’altere forme c di gran cor, nudritu
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301-3^0 LIBRO XI
Nell’opima di greggi odrbia terra.
L’educò bambinetto in propria casa
Della bella Teano il genitore,
Gisséo, l’avo materno^ e, maturati
Di gloriosa pubertate i giorni,
Sposo aUa figlia il diè. Ma cólta appena
D’Imen la rosa, al talamo strappollo
Da dodici navigli accompagnato
Della venuta degli Achei la fama.
Quindi lasciate alla percopia riva
Le sue navi, pedone ad Ilio ei venne,
E primo si piantò contro l’Atride.
Giunti al tiro dell’asta, Agamennòne
Vibrò la sua , ma in fallo. Ifidamante
Appuntò l’avversario alla cintura
Sotto il torace, e colla man robusta
Di tutta forza l’asta sospingea;
Ma non valse a forame il ben. tessuto
Cinto, e spuntossi nell’argentea lama
L’acuta punta, come piombo fosse.
A due mani l’ afferra allor l’Atridc
Con ira di hone^ a sè la tira;
Gliela svelle dal pugno; e, traUo il brando,
Lo percuote alla nuca, e lo distende.
Sì cadde, e chiuse in ferreo sonno i lami.
Miserando garzoni venne a difesa
Del patrio suolo, e vi trovò la morte;
Nè gli compose i rai la giovinetta
Consorte, nè di lei frutto lasciava.
Che il ravvivasse: e sì l'avea con molti
Doni acquistata; perocché da prima
Di cento buoi dotolla, e mille in oltre
Madri promise di lanute torme.
Che numerose gli pasceva il prato.
Spoglia Atride l’ucciso, e le beffarmi
Ne porta ovante Ira le turbe achee.
Come vide Coon morto il fratello,
(D’Antenore era questi il maggior figlio,
E guerriero di grido), una gran nube
Di dolor gl’ ingombrò la mente e gli occhi.
■<34 ILIADE ...
Pensi in agguato con un darilo in mano
AI re (li costa, e vibra. A mezzo il braccio
ConGccossi la punta sotto il cubito,
E trapassollo. Inorridì del colpo
L’Atride regnatore ma non per questo
Abbandona la pugna; anzi più Gero,
Colla salda dagli Euri asta nudrita,
Avventossi a Coon, che frettoloso
Dell' amato fratello IGdamante
D’un piè traca la salma, alto chiedendo
De' più forti l’aita. Lo raggiunge
In quell'atto l'Atride; c sotto il colmo
Dello s(nido gli caccia impetuoso
La zagaglia, e l' atterra. Indi sul corpo
D' IGdamante il capo gli recide.
Così n' andar, compiuto il fato, all'Orco
Per man d'Atride gli antendrci Ggli.
Finché fu calda la ferita, il sire
Coll'asta, colla spada e con enormi
Ciotti la pugna seguitò; ma come
Stagnossi il sangue e s'aggelò la piaga.
D'acerbe doglie saettar sentissi.
Qual traGggc la donna, aì partorire,
L'acuto strale del dolor, vibrato
Dalle Gglie di Giuno alme Ilitic,
D'amare Gttc apportatrici; c tali
Eran le punte ebe ferian l'Atridc.
Salì dunque sul carro, ed all'auriga
Comandò di dar volta alla marina;
E, cruccioso elevando .alto la voce:
Prenci, amici, gridava, e voi valenti
C.apitani de' Greci, allontanate
Dalle navi il conGitto, or che di Giove
Non consente il voler, ch'io <pii compisca.
Combattendo co' Teucri, il giorno intero.
Disse; e l'aui'iga Gagcllò i destrieri
Verso le navi; e quei volàr, spargendo
Le belle chiome all'aura; c, il petto aspersi
D' alta spuma e di polve, in un baleno
Fuor del campo ebber tratto il re ferito.
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V.
UBRO XI
a35
Come dall' armi ritirarsi il vide,
Dii un alto grido Ettorrc; c, rincorando
Trojani e Licj e Dàrdani, tonava;
Uomini siate, amici, e richiamate
L’antica gagliardia: lasciato ha il campo
Quel fortissimo duce, e a me promette
L’Olimpio Giove la vittoria. Or via;
Gli animosi cornipedi spingete
Dirittamente addosso ai forti Achivi,
C acquisto fate d’ immortai corona.
Disse; c in tutti destò la forza e il core.
Come buon cacciator centra un l'ione
0 silvestre cignale il morso aizza
De’ fìer molossi; così l’ira instiga
De’ magnanimi Troi contro gli Achivi
Il Pr'iamide Marte: cd ei tra’ primi
Intrepido si volvc, e nel più folto
Della mischia coll’impeto si spinge
Di sonante procella, che dall’alto
Piomba c solleva il ferrugineo flutto.
Allor chi pria, chi poi fu messo a morte
Dal Pr'iamide eroe, quando a lui Giove
Fu di gloria cortese? Asséo da prima j
Autònoo, Opite, e Dòlope di Clito,
Ofeltio ed Agclao, Esimno ed Oro
E il bellicoso Ippónoo. Fur questi
1 danai duci, che il Trojano uccise:
Dopo lor, multa plebe. Come quando
Di Ponente il soffiar Tumide figlie
Di Noto aggfra, e con rapido vortice
Le sbatte irato; il mar gonfiati c crebri
Vulve i flutti, e dal turbo in larghi sprazzi
Sollevata diflondesi la spuma;
Tal Ettore cader confuse e spesse
Fa le teste plebee. Disfatta intera
Allor saria seguita, e colla strage
De’ fuggitivi ineluttabil danno.
Se con questo parlar l’accorto Ulisse
Non destava il valor di Diomede:
Magnanimo Tidide, c qual disdetta
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23G
rLlAOB
•. ^2|.^6o
Della nostra virtù ci toglie adesso
La ricordanza? or su; ti metti, amico,
Al mio fianco, e tien fermo: onta sarebbe
Lasciar, che piombi su le navi Ettorre.
E Diomede di rincontro: Io certo
Rimarrò, pugnerò; ma vano il nostro
Sforzo sarà; cbè la vittoria ai Teucri
Dar vuole, non a noi, Giove nemico.
Disse; e coll’asta alla sinistra poppa
Timbréo percosse, e il riversò dal carro.
Ulisse uccise Molion, guerriero
D’apparenza divina, e valoroso
Del re Timbréo scudiero. E, spenti questi,
SI cacclàr nella turba, simiglianti
A due cinghiali di gran cor, che II cerchio
Sbarattano de’ veltri; c impetuosi
Voltando faccia, sgominaro i Teucri ,
Sì che fuggenti dall’ettórco ferro
Preser conforto e respirar gli AchivI.
Combattean 6*3 le turbe alti sul carro,
Fortissimi campioni, i due figliuoli
Di Mcrope Percòsio. Il genitore,
Celebrato indovino, avea dell’ armi
Il funesto mestier loro interdetto.
Non l’ obbedirò i figli, e la possanza
Seguir del fato, che traeali a morte.
Coll’asta in guerra sì famosa entrambi
Gl’ investì Diomede, c colla vita
Dell’ armi li spogliò, mentre per mano
Cadean d’ Ulisse Ippòdamo c Ipirdco.
Contemplava dall’ Ida i combattenti
DI Saturno il gran figlio, c nel suo senno
Equilibrava tuttavia la pugna,
E l’orror della strage. Infuriava
Pedon tra’ primi battaglianti il figlio
Di Peone, Agastrófo, c non avea
L’incauto eroe dappresso i suoi corsieri.
Onde all’uopo salvarsi ; chò in disparte
Lo scudi cr li tenea. Mirollo, c ratto
L’assalse Diomede, e all’ anguinaglia
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LIBRO XI
Lo feri di tal colpo, che l’uccise.
Cader lo vide Ettorre; e tra le file
Si spinse, alto gridando, e lo seguiéno
Le trojane falangi. Al suo venire
Turbossi il forte Diomede; e, volto
Ad Ulisse , dicea ; Ci piomba addosso
Del furibondo Ettorre la mina.
Stiam saldi, amico, e sosteniam lo scontro.
Disse; e drizzando alla nemica testa
La mira , fulminò l’ asta vibrata,
E colse al sommo del cimier; ma il ferro
Fu respinto dal ferro, e non ofiese
La bella fi'onte dell’eroe; cbè il lungo
Triplice elmetto l’impedì, fatato
Dono d’ Apollo. Sbalordì del colpo
Ettore, e lungi riparò tra’ suoi.
Qui cadde su i ginocchi, puntellando
Contro il suol la gran palma, c tenebroso
Su le pupille gli si stese un velo.
Ma mentre corre a ricovrar Tidide
La fitta nella sabbia asta possente.
Si riebbe il caduto; e, sopra il carro
Balzando, nella turba si confuse
Novellamente, ed ischivò la morte;
Perocché il figlio di Tidéo coll’asta
Un’altra volta l’assalia, gridando:
Cane trojan, di nuovo tu la scappi
Dalla Parca, che già t’avea raggiunto.
Gli è Febo che ti salva, a cui, dell’armi
Entrando nel fragor, ti raccomandi.
Ma se verrai per anco al paragone.
Ti spaccerò, s’io pure ho qualche Dio.
Qualunque intanto mi verrà ghermito.
Sconterà la tua fuga. — E sì dicendo.
L’ucciso figlio di Peon spogliava.
Ma della ben chiomata Elena il drudo,
Alessandro, tenea contro il Tidide
Lo strale in cocca, standosi nascoso
Dirctro al cippo sepolcral, che al santo
Dardanid’Uo, antico padre, eresse
a3S
ILIADE
9. Soi«^o
De’ Teucri In pietà. Curvo l’ eroe ,
Di dosso al morto Agàstrofo traca
n variato usbergo, cd il brocchiero
Ed il pesante elmetto, allor che l’altro
Lento la corda, e non invan. Veloce
n quadrello volò; nell' ima parte
Del destro piò s'infisse; e, trapassando,
Gonficcossi nel suolo. Usci d'agguato.
Sghignazzando il fellone; e; Sei ferito,
Glorioso gridò: Ve’ s’io t’ho còlto
Pur finalmente! Oh t’avess’io trafitta
Più vltal fibra, e tolta l’alma! Avrebbe
Dairafianno dell’ armi respirato
D popolo trojaiio, a cui se’ orrendo.
Come il leone alle belanti agnclle.
Villan, cirrato arciere, e di fanciulle
Vagheggiator codardo (gli rispose
Nulla atterrito Diomede), vieni
In aperta tenzon; vieni, e vedrai
A che l’arco ti giova, c la di strali
Piena faretra. Mi graffiasti un piede,
E sì gran vampo meni? Io de’ tuoi colpi
Prendo il timor, che mi darebbe il fuso
Di femminetla, o di fanciul lo stecco;
Che non fa piaga degl’imbelli il dardo.
Ma ben altro è il ferir di questa mano.
Ogni puntura del mio telo è morte
Del mio nemico, e pianto de’ suoi figli
E della sposa che le gote oltraggia;
Mentre di sangue il suol quegli arrossando,
Imputridisce, e intorno gli s’accoglie.
Più che di donne, d’avoltoi corona.
Così parlava. Accorso intanto Ulisse,
Di sò gli fea riparo : cd ci , seduto
Dell’ amico alle spalle, il dardo acuto
Sconficcassi dal jiiedc. Allor gli venne
Per tutto il corpo un dolor grave c tanto.
Che angosciato nell’alma c impaziente
Montò sul cocchio, cd all’auriga impose
Di portarlo, volando, alle sue tende.
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LIBRO XI
1-580
Solo rimase di Laerte il figlio^
Chè la paura avea tutti sbandati
Gli Argivi^ ond’cgli addolorato e mesto
Seeo nel chiuso del gran cor dicca:
Misero, che farò? Male, se in fuga
Mi volgo per timor: peggio, se solo
Qui mi coglie il nemico ora che Giove
Gli altri Achei sgominò. Ma quai pehsicri
Mi ragiona la mente? Ignoro io forse.
Che nell' armi il vii fugge, e resta il prode
A ferire o a morir morte onorata?
Mentre in cor queste cose egli discorre,
Di sentati Trojani ecco venirne
Una gran torma, che l’accerchia. Stolti!
Chè il proprio danno si chiudean nel mezzo.
Come stuol di molossi c di fiorenti
Giovani intorno ad un cinghiai s’addensa
Per investirlo, ed ei da folto vepre
Sbocca aguzzando le fulminee sanne
Tra le curve mascelle; d'ogni parte
Impelo fassi, c suon di denti ascolti,
E della belva si sosticn l’assalto,
Benché tremenda irrompa e spaventosa;
Tali intorno ad Ulisse furiosi
S’aggruppano i Trojani. Alto ci sull’asta
Insorge, e primo all’ómcro ferisce
Il buon Dciopitc; indi Toone
Mette a morte ed Ennomo,c dopo questi
Chersidamantc nel saltar che fca
Dal cocchio a terra. Gli cacciò la picca
Sotto il rotondo scudo all’umbilico,
E quei, riverso nella polve, strinse
Colla palma la sabbia. Abbandonati
Costor, coll’asta avventasi a Caropo,
D’Ippaso figlio, c dell’illustre Soco
Fratcl germano; c lo ferisce. Accorre
Il deiforme Soco in sua difesa;
E, all’Itacense fattosi vicino.
Fermasi, c parla: Artefice di frodi
Famoso, c sempre infatigato Ulisse,
ILIADE
581-020
Oggi 0 palmn otterrai d’ entrambi i figli
D’Ippaso; e, spenti, n’avrai l’armi: o cólto
Tu dal mio telo perderai la vita.
Vibrò, ciò detto, e lo colpì nel mezzo
Della salda rotella. Il violento
Dardo lo scudo traforò; ficcossi
Nella corazza, e gli stracciò sul fianco
Tutta la pelle: non permise al ferro
L’addentrarsi di più Palla Minerva.
Conobbe tosto, che letal non era
n colpo Ulisse; e, retrocesso alquanto:
Sciagurato, rispose al suo nemico.
Or sì che morte al varco ti raggiunse.
Mi togliesti, egli è vero, il poter oltre
Pugnar co’ Teucri; ma ben io t’ affermo.
Che questa di tua vita è l’ultim’ora,
E cbe tu, dalla mia lancia qui domo.
La palma a me darai, lo spirto a Pluto.
Disse; e l’altro fuggiva. ÀI fuggitivo
Scaglia Ulisse il suo cerro, e a mezzo il tergo
Si glielo pianta, cbe gli passa al petto.
Diè d’armi un suono nel cadere, e il divo
Yincitor l’insultò: Soco, del forte
Ippaso cavaliero audace figlio.
Morte t’ba giunto innanzi tempo, e vana
Fu la tua fuga. Misero! nè il padre
Gli occhi tuoi chiuderà, nè la pietosa
Madre, ma densi a te gli scaveranno
Gli avoltoi, dibattendo le grandi ali
Su la tua fronte; e me spento di tomba
Onoreranno i generosi Achei.
Detto ciò, dalla pelle e dal ricolmo
Brocchier si svelse del possente Soco
H duro giavellotto; c, nel cavarlo,
Diè sangue, c forte dolorossi il fianco.
Visto il sangue d’Ulisse, i coraggiosi
Teucri, l’un l’altro inanimando, mossero
Per assalirlo; ma l’accorto indietro
Si ritrasse, e i compagni ad alta voce
Chiamò. Tre volte a tutta gola ci grida.
r.6ll-«6o LtBSO XI a^l
Tre volte il marzio Menelao l' intese^
E ad Ajace converso: Àjace, ei disse,
Telamdnio, regai seme divino,
Sento all’orecchio risonarmi il grido
Del sofferente Ulisse^ e tal mi sembra.
Qual se, solo rimasto, ei sia da’ Teucri
Nel forte della mischia oppresso e chiuso.
Corriamo chè giusto è l’aitarlo: solo
Fra nemici potrebbe il valoroso
Grave danno patirne, e cesterìa
La sua morte agli Achei molti sospiri.
Si mise in via, ciò detto, e lo seguiva
Quel magnanimo, tale al portamento.
Che un Dio detto l’avresti: e il caro a Giove
disse ritrovar da densa torma
Accerchiato di Teucri. A quella guisa,
Che affamate s’attruppano le linci
Dintorno a cervo di gran coma, a cui
Fisse lo strale il cacciator nel fianco,
E il ferito fuggi dal feritore
Finché fu caldo il sangue e lesto il piede;
Ma domo alfine dallo strai nel bosco
Lo dismembran le linci; allor, se guida
Colà fortuna un ficr lion, disperse
Sfrattano quelle, ed ei fa sua la preda;
Molta turba cosi di valorosi
Teucri intorno al pugnace astuto Ulisse
Aggirasi; ma, l’asta dimenando.
L’eroe tien lungi la fatai sua sera.
E comparir tremendo ecco d' Ajace
Il torreggiante scudo; eccolo fermo
Dinanzi a quell’oppresso, e scombujarsi
Chi qua chi là per lo spavento i Teucri.
Per man lo prende allora il generoso
Minor Atride, e fiior dell’ armi il tragge.
Finché l’auriga i corridor gli adduca.
Ma il Telamónio eroe, centra i Trojani
Irrompendo, il Priamide bastardo
Doride uccide; e poi Pandoco, e poi
Lisandro fiede c Piraso e Pilarte.
Mosti. Iliade.
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2^2 ILIADE V. 66|'70o
E come quando ruinoso un fiume ^
Cui crebbe l’invernai pioggia di Giove,
Si devolve dal monte alla pianura,
E, molte aride querce e molti pini
Rotando, spinge una gran torba al mare;
Tal, cavalli tagliando e cavalieri,
L’illustre Àjace furioso insegue
Per lo campo i Trojani; e non per anco
N’aveva Ettoire udita la mina,
Cb’ei della zuffa sul sinistro corno
Pugnava in riva allo Scamandro, dove
Q cader delle teste era piu spesso,
E infinito il clamor dintorno al grande
Nèstore e al marzio Idomenéo. Qui stava
Ettore, e oprava orrende cose, e densa
Colla lancia e col carro distruggeva
La gioventude aebea. Nè ancor per tanto
Avrìan gli Argivi abbandonato il campo,
Se il bel marito della bella Elèna,
Alessandro, ritrar non fea dall’ armi
n bellicoso Macaon, ferendo
L’illustre duce all’ òmero diritto
Con trisulca saetta. Di quel colpo
Tremàr gli Acbivi, e si scorar, temendo
Che, inclinata di Marte la fortuna.
Non vi restasse il buon guerriero ucciso.
Onde a Nèstore vólto Idomenèo:
Eroe Neli'de, ei disse, alto splendore
Degli Acbivi, t’afiretta; il carro ascendi,
E Macaone vi raccogli, e ratto
Sferza i cavalli al mar, salva quel prode;
Ch’egli vai molte vite, e non ha pari
Nel cavar dardi dalle piaghe, e spargerle
Di balsamiche stille. — A questo dire
Montò l’antico cavaliero il cocchio
Subitamente; vi raccolse il figlio
D’Esculapio, divin. medicatore;
Sferzò i destrieri, e quei volaro al lido
Volonterosi e dal desio chiamati.
Vide in questa de’ Teucri lo scompiglio
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LIBRO XI
<^43
I». 70i*7.'|0
Cebriun, clic d'EUom; al fianco stava;
E, rivolto a quel duce: Elltorc, ui disse,
Noi di Danai qui stiamo a far macello
Nel corno estremo dell’orrenda mischia,
E gli altri Teucri intanto in fuga vanno,
Cavalli e battaglicr cacciati e rotti
Dal Telamónio Ajace: io ben lo scemo
All’ ampio scudo che gli copre il petto.
Drizziamo il carro a quella volta; ch’ivi
Più feroce de’ fanti c cavalieri
È la zuffa , e più forti odo le grida.
Cosi dicendo , col flagcl sonoro
I ben chiomati corridor percosse,
Che, sentita la sferza, a tutto corso
Fra i Troiani e gli Achei traean la biga,
Cadaveri pestando ed elmi e scudi.
Era tutto di sangue orrido e lordo
L’asse di sotto c l’ambito del cocchio.
Cui l’ugna de’ corsieri e la veloce
Ruota spargean di larghi sprazzi. Anela
II teucro duce di sfondar la turba,
E spezzarla d’ assalto. In un momento
Gli Achivi sgominò, sempre coll’asta
Fulminando; e scorrendo entro le file.
Colla lancia, col brando e con enormi
Macigni le rompea. Solo d’Ajacc
Evitava lo scontro. Ma l’Eterno
AltO'sedente al cor d’Ajacc incusse
Tale un terror, che attonito ristette,
E paventoso si gittò sul tergo
La settemplice pelle; e, nel dar volta.
Come una fiera si guatava intorno
Nel mezzo della turba , e tardi e lenti
Alternando i ginocchi, all’inimico
Ad or ad ora converti'a la fronte.
Come fulvo leon, che dall’ovile
Vien da’ cani cacciato e da’ pastori.
Che de’ buoi gli firastomano la pingue
Preda, la notte vigilando intera;
Famelico di carac ei nondimeno
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a44
ILIADE
Dritto si scaglia, e in van, chè dall’ ardite
Destre gli piove di saette un nembo
E di tizzi e di faci, onde il feroce
Atterrito rifugge, e in sul mattino
Mesto i campi traversa, e si rinselva;
Tale Ajace da’ Teucri, in suo cor tristo
E di mal grado assai, si diparti'a.
Delle navi temendo. E quale intorno
Ad un pigro somier, che nella messe
Si ficcò, s’arrabattano i fanciulli,
Molte verghe rompendogli sul tergo ^
Ed ei pur segue a cimar l’alta biada.
Nè de’ lor colpi cura la tempesta^
Chè la forza è bambina, e appena il ponno
Allontanar poiché satolla ha l’epa;
Non altrimenti i Teucri e le coorti
Collegate inseguian senza riposo
Il gran Telamom'de , e colle basse
Lance nel mezzo gli ferìan Io scudo.
Ma memore l'eroe di sua virtude.
Or rivolta la faccia, e le falangi
Respinge de’ nemici, or lento i passi
Move alla fuga: e si potette ci solo,
Che di sboccarsi al mar tutti rattenne.
Ritto in mezzo ai Trojan! ed agli Achivi
Infuriava, e sostcnea di strali
Una gran selva sull’immenso scudo,
E molti a mezzo spazio e senza forza.
Pria che il corpo gustar, pcrdcano il volo,
Desiosi di sangue. In questo stato
Lo mirò d’Evemon l’inclito figlio,
Eun'pilo; ed a lui, che sotto il nembo
Degli strali languia, fatto dappresso,
A vibrar cominciò l’asta lucente,
E il duce Apisaon , di Fausia figlio ,
Nell’epate percosse, e gli disciolse
De’ ginocchi il vigor. Sovra il caduto
Eun'pilo awentossi, e le bell’ armi
Di dosso gli traea. Ma come il vide
Paride, il drudo di beltà divina,
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•. ;8i-8io LIBRO XI >4^
Del morto Apisaon l’armi rapire,
Mise in cocca lo strale, e d’aspra punta
La destra coscia gli ferì. Si franse
11 calamo pennuto', e tal nell’anca
Spasmo destò, che ad ischivar la morte
Gli fu mestieri ripararsi a’ suoi.
Alto gridando: O amici, o prenci achiri.
Volgetevi', sostate; liberate
Da morte Ajace; egli è da’ teli oppresso,
S\ ch’io pavento, ohimè! che piè non abbia
Scampo l’eroe: correte; circondate
De’ vostri petti il Telamónio figlio.
Cosi disse il ferito; e quelli a gara.
Stretti inclinando agli òmeri gli scudi,
C Faste sollevando, al grande Ajacc
Si fèr dappresso; ed ei venuto in salvo
Tra’ suoi, di nuovo la terribil faccia
Converse all’inimico. In colai guisa,
Come fiamma, tra questi ardea la zuffa.
Di sudor molli intanto c polverose
Le cavalle nelée fuor della pugna
Traean, col duce Macaon, Nestorre.
Lo vide il divo Achille, e lo conobbe,
Mentre ritto si stava in su la poppa
Della sua grande capitana, e il fiero
Lavor di Marte, e degli Achei mirava
La lagrimosa fuga. Incontanente
Mise un grido, e chiamò dall’alta nave
Il compagno Patròclo: e questi appena
Dalla tenda l’udi, che fuori apparve
In marz'ial sembianza; e da quel punto
Eibbe inizio fatai la sua sventura.
Parlò primiero di Menézio il figlio:
A che mi chiami, a che mi brami, Achille?
O mio diletto nobile Patròclo,
Gli rispose il Pelide, or sì che spero
Supplicanti e prostesi a’ miei ginocchi
Veder gli Achivi; che suprema c dura
Necessità li preme. Or vanne, o caro;
Vanne, e chiedi a Nestòr chi quel ferito
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ILIADE
9. 8ii*86o
Sia, eh’ ci ritragge «lalla pugna. Il vidi . ^
Ben io da tergo, e Macaon mi parve,
D’Esciilapio il Cgliuo4 ma del guerriero
Non vidi il volto; ehè veloci innanzi
JVIi passar le cavalle, e via sparirò.
Disse; e Patroclo, obbctliente al cenno
Dell’ amico diletto , già eorrca
Tra le navi e le tende. E quelli intanto
Del buon Neb'dc al padiglion venuti
Dismontaro, e l’auriga Eurimedonte
Sciolse dal carro le nelce puleilrc,
Mentr’cssl al vento asciugano sul lido
Le tuniche sudate, c delle membra
Rinirescano la vampa; indi raccolti
Dentro la tenda s’ adagiar su i seggi.
Apparecchiava intanto una bevanda
^a ricciuta Ecaméde. Era costei
Del magnanimo Àrsi'noo una Bgliuola ,
Che il buon vecchio da Ténedo condotta
Àvea quel dì, che la distrusse Achille;
E a lui , perchè vincea gli altri di senno ,
Fra cento eletta la donàr gli Achivi.
Trass’ella innanzi a lor prima un bel desco
Su piè sorretto d’un color, che imbruna;
Sovra il desco un tagUer pose di . rame ,
E fresco miei sovresso, e la cipolla
Del largo bere in-itatrice, e il bore
Di sacra polve cercai. V aggiunse
Un bellissimo nappo, che recato
Aveasi il veglio dal paterno tetto.
D’aurei chiovi trapunto, a doppio fondo.
Con quattro orecchie, e intorno a ciascheduna
Due beventi colombe, auree pur esse.
Altri a stento l’avria colmo rimosso;
L’alzava il veglio agevolmente. In questo
La simile alle Dee presta donzella
Pramnio vino versava; indi, tritando
Su le spume caprin latte rappreso,
E spargendovi sovra un leggici- nembo
Di candida farina, una bevanda
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UBKO XI
r. 86i-goo
Uscir ne fece di coUl mistura,
Che apprestata e libata, ai due guerrieri
La sete estinse, e rinfrancò le forze.
Diersi, ciò fatto, a ricrear, parlando,
Gli affaticati spirti; e sulla soglia
Bieco apparir Patróclo, e soffermarsi
In sembianza di nume il giovinetto.
Nel vederlo, levossi il vecchio in piedi
Dal suo lucido seggio, e l’introdusse,
Presol per mano, e di seder pregollo.
Egli all’invito resistea, dicendo:
Di seder non m’è tempo, egregio veglio,
Nè obbedirti poss’io. Tremendo, iroso
È colui, che mi manda a interrogarti
Del guerrier, che ferito hai qui condotto.
Or io mel so per me medesmo, e in lui
Ravviso il duce Macaon. Ritorno
Dunque ad Achille relator di tutto.
Sai quanto, augusto veglio, ei sia stizzoso,
E a colpar pronto l’innocente ancora.
Disse; e il gerenio cavalier rispose:
E donde avvien, che de’ feriti Achivi
Sente Achille pietà? Nè ancor sa quanta
Pel campo s’innalzò nube di lutto.
Piagati altri da lungi, altri da presso,
Nelle navi languiscono i più prodi.
Di saetta ferito è Diomede,
D’asta l’inclito Ulisse e Agamennòne,
Eurìpilo di strale nella coscia,
E di strale egli por questo, che vedi
Da me condotto. Il prode Achille intanto
Ninna si prende nè pietà nè cura
Degl’infelici Achivi. Aspetta ei forse,
Che, mal grado di noi, la fiamma ostile
Arda al lido le navi, e che noi tutti
L’un su l’altro cadiam trafitti e spenti?
Ahi che la possa mia non è più quella,
Gh’ agili un tempo mi facea le membra!
Oh quel fior m’avess’io d’anni e di forza,
Ch’io m’ebbi allor che per rapiti armenti
x47
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ILIADE
»• 901-9^0
Tra noi sursc e gli Eiléi fiera contesa!
Io predai con ardita rappresaglia
Del nemico le mandre, e l’ebese
Ipirochide Itimonéo distesi.
Combattca de’ suoi tauri alla difesa
L'uom forte, e un dardo di. mia mano uscito
Lui tra’ primi percosse^ e, al suo cadere,
L’agreste torma si disperse in fuga.
Noi molta preda n’ adducemmo e ricca :
Di buoi cinquanta armenti, ed altrettante
Di porcelli, d’aguellc e di caprette,
Distinte mandre, e cento oltre cinquanta
Fulve cavalle, tutte madri, e molte
Col poledro alla poppa. Ecco la preda,
Che noi di notte nc menammo in Pilo.
Gioì Neléo, vedendo il giovinetto
Figlio guerrier di tante spoglie opimo.
Venuto il giorno, la sonora voce
De’ banditor chiamò tutti cui fosse
Qualche compenso dagli Elei dovuto.
Di Pilo i capi congregarsi^ e grande
Sendo il dovere degli Elei, fu tutta
Scompartita la preda, e riutegrate
L’ antiche offese; perciocché la forza
D' Ercole avendo desolata un giorno
La nostra terra, e i più prestanti uccisi,
E di dodici figli di Neléo
Prodi guerrier rimasto io solo in Pilo
Con altri pochi oppressi, i baldanzosi
Elei, di nostre disventurc alteri.
N’insultar, ne fér danno. Or dunque in serbo
Tenne il vecchio per sé di tauri intero
Un armento trascelto, e un’ampia greggia
Di ben trecento pecorelle, insieme
Co’ mandriani: giusta ricompensa
Di quattro egregi corridoi', mandali
In im col caiTO a conquistargli un tripode
Nell’ olimpica polve , e dall’ eleo
Rege rapiti, rimandando spoglio
De’ bei corsieri il doloroso auriga.
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LIBRO ZI
>49
». 94*-9^
Di qnesti oltraggi il TeccUo padre irato,
Larga preda si tolse, e al popol diede.
Giusta il dovuto, a ripartirsi il resto.
Mentre intenti ne stiamo a queste cose,
E ollriam per tutta la città solenni
Sacrifici agli Eterni, ecco nel terzo
Giorno gli Elèi con tutte de' lor fanti
E cavalli le forze in campo uscire.
Ed ambedue con essi i Moboni,
Giovinetti ancor sori ed inesperti
Negl’impeti di Marte. Su l’Alféo
In arduo colle assisa è una cittade.
Trioessa nomata, ultima terra
Dell’arenosa Pilo. Desiosi
Di porla al fondo, la cingean d’assedio.
Ma come tutto superavo il campo.
Frettolosa e notturna a noi discese
Dall’Olimpo Minerva ad avvisarne
Di pigliar l’armi^ e congregò le turbe
Per la cittade, non già lente e schive.
Ma tutte accese del desio di guerra.
Non mi assentiva il genitor Neléo
L’uscir con gli altri armato^ e perchè destro
Nel fiero Marte ancor non mi credea,
Occultommi i destrieri. Ed io pedone
V’andai scorto da Pallade, e tra’ nostri
Cavalier mi distinsi in quella pugua.
Sul fiume Minieo, che presso Arena
Si devolve nel mar, noi squadra equestre
Posammo ad aspettar l’ alba divina ,
Finché n’avesse la pedestre aggiunti.
Riunito l’esercito, movemmo
Ben armati ed accinti, e sul merigge
D’Àlféo giungemmo all’ onde sacre. Quivi
Propiziammo con opime ofierte
L’ onnipossente Giove ^ al fiume un toro
Svenammo, un altro al gran Nettunno, e intatta
A Palla una giovenca. Indi pel campo.
Preso a drappelli della sera il cibo.
Tutti nc demmo, ognun coll’ armi indosso,
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aSo ILIADE ». 981-10»
Lungo il fiume a dormir. Stringean frattanto
D’assedio la cittade i forti Elèi,
D’ espugnarla bramosi. Ma di Marte
Ebber tosto davanti una grand’opra.
Brillò sul volto della terra il Sole^
E noi Minerva supplicando e Giove,
Appiccammo la zufia. Aspro fu il cozzo
Delle due genti, ed io primiero uccisi
(E i corsieri gli tolsi) il bellicoso
Mulio, gener d’Augia, del quale in moglie
La maggior figlia possedea, la bionda
Agaméde, cui nota era, di quante
L’almo sen della terra erbe produce.
La medica virtù. Questo io trafissi
Coll’asta, e lo distesi, e, dell’ucciso
Salito il cocchio, mi cacciai tra’ primi.
Visto il duce cader de’ cavalieri.
Che gli altri tutti di valor vincea.
Si sgomentaro i generosi Elei ,
E fuggir d’ogni parte. Io, come turbo.
Mi serrai loro addosso, e di cinquanta
Carri fei preda, e intorno a ciascheduno
Mordeaii la polve dal mio ferro ancisi
Due combattenti. E messi a morte avrei
Gli Attóridi pur anco, i due medesmi
Molioni, se fuor della battaglia
Non li traea, coprendoli di nebbia.
Il gran rege Nettunno. Al nostro ardire
Alta vittoria allor Giove concesse^
Perocché per lo campo, tutto sparso
Di scudi e di cadaveri, tant’ oltre
Gl' inseguimmo uccidendo, e raccogliendo
Le bell’ armi nemiche, che spingemmo
Fino ai buprasj solchi i corridori.
Fino all’ olenio sasso , ed alla riva
D’Alcsio, al luogo, che Calon si noma.
Qui fér alto, per cenno di Minerva,
I vincitori^ c qui l’estremo io spensi.
Da Buprasio frattanto i nostri prodi
Riconduceano a Pilo i polverosi
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r. toji-106» IJ»*0 M aSi
Carri, e dar lande si sentla da tnUi
A Giove in cielo, ed a Ncstorre in terra.
Tal nelle pugne apparve il valor mio.
Ma del valor d’Acbille il solo Achille
Cedrassi; e quando consumati ahi! tutti
Vedrà gli Achivi, piangerà, ma indarno.
Caro Patroclo, nel pensier richiama
Di Menézio i precetti, onde il buon veglio
T’accompagnava il giorno, che da Ftia
Ti spediva all’Atride Agamennone.
Fummo presenti, e gli ascoltammo interi
Il divo Ulisse ed io Nestorre, entrambi
Al regai tetto di Peléo venuti
A far eletta di guerrieri achei.
Ivi l’eroe Menézio e te vedemmo
D’Achille al fianco. Il cavalier PeUo,
Venerando vegliardo, entro il cortile
Al fulminante Giove ardea le pingui
Cosce d’un tauro, e sull’ ardenti fibre
Negro vino da nappo aureo versava.
Voi vi stavate preparando entrambi
Le sacre carni, e noi giungemmo in quella
Sul limitar. Stupì, levossi Achille;
Per man no prese, e n’introdusse; in seggio
Nc collocò; ne pose innanzi i doni
Che il santo dritto dell’ospizio chiede.
Ristorati di cibo e di bevanda,
Io parlai primamente, e v’esortava
L’uno e l’altro a seguirne; e il bramavate
Voi fortemente. E quai de’ due cannti
Furo allora i conforti? Al figlio Achille
Raccomandò Pelòo l’oprar mai sempre
Da prode, e a tutti di valor star sopra.
Ma vólto a te l’Attóride Menézio:
Figlio, il vecchio dicca, ti vince Achille
Di sangue, e tu lui d’anni; egli di forza,
Tu di consiglio. Con prudenti avvisi
Dunque il governa e l’ammonisci, e all’uopo
T obbedirà. Tal era il suo precetto ;
Tu l’obblYasti. Or via;l’adempi adesso.
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ILUDB
1061-1100
a5i
Parla all'amico bellicoso, e tenta
Siiaderlo. Chi sa? Qualche buon Dio
Animerà le tue parole, c l’alma
Toccherà di quel fiero. Ài cor va sempre
L’ammonimento d'un diletto amico.
Chè s’ei paventa in suo segreto un qualche
Vaticinio , se alcuno a lui da Giove
La madre ne recò, te mandi almeno
Co’ MIrmidóni a confortar gli Àchivi
Nella battaglia, e l’armi sue ti ceda.
Forse ingannati dall’aspetto i Teucri
Ti crederan lui stesso, e fuggiranno,
E gli egri Achei respireranno: è spesso
Di gran momento in guerra un sol respiro.
E voi freschi guerrieri agevolmente
Respingerete lo stanco nemico
Dalle tende c dal mare alla cittadc.
Sì disse il saggio; e tutto si commosse
Il cor nel petto di Patróclo. Ei corse
Lungo il lido ad Achille; c giunto all’alta
Capitana d’ Ulisse, ove nel mezzo
Ài santi altari si tenea ragione
E parlamento, d’ Evemonc il figlio,
Euripilo, scontrò, che di saetta
Ferito nella coscia e vacillante
Dalla pugna partia. Largo il sudore
Gli discorrea dal capo e dalle spalle,
E molto sangue dalla ria ferita.
Ma intrepida era l’alma. Il vide, e n’ebbe
Pietade il forte Meneziade; e a lui,
Lagrimando , si volse : Oh sventurati
Duci Achei! così dunque, ohimè! lontani
Dai cari amici e dalla patria terra
De’ vostri corpi saziar di Troja
Dovevate le belve? Eroe divino
Euripilo, rispondi: Sosterranno
Gli Achei la possa dell’immane Ettorrc,
O cadran spenti dal suo ferro? — Oh diva
Stirpe, Patróclo! (Euripilo rispose)
Nullo è più scampo per gli Achei, se scampo
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V. iioi*it3i
LIBRO XI
>53
^on ne danno le navi. I più gagliardi
Tutti giaccion feriti, e ognor più monta
De’ Trojani la forza. Or tu cortese
Conservami la vita. Alla mia nave
Guidami, e svelli dalla coscia il dardo;
Con tepid’onda lavane la piaga,
E su vi spargi i farmaci salubri.
De’ quali è grido che imparata hai l’arte
Dal Peh'de, e il Pelide da Chirone,
De’ Centauri il più giusto. Or tu m’ai'ta;
Chè Podalirio e Macaon son lungi:
Questi, credo, in sua tenda, anch’ ei piagato
È di medica man necessitoso;
L’ altro co’ Teucri in campo si travaglia.
Qual fia dunque la fin di tanti affanni f
Soggiunse di Men<:zio il forte figlio:
E che faremo, Eurìpilo? Gran fretta
Mi sospinge ad Achille a riportargli
Del guardiano degli Achei Nestorre
Una risposta; ma pietà non vuole
Che in questo stato io t’abbandoni. — 11 cinse
Colle braccia, ciò detto, e nella tenda
Il menò, l’adagiò sopra bovine
Pelli dal servo acconciamente stese;
Indi col ferro dispiccò dall’anca
L’acerbissimo strale, e con tepenli
Linfe la tabe ne lavò. Vi spresse
Poi colle palme il leniente sugo
D’uu’amara radice. Incontanente
Calmossi il duolo, ristagnossi il sangue,
Ed asciutta si chiuse la ferita.
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LIBRO DUODECIMO
ARGOMENTO
I Troi^ttì, UKÌati , |wr coa»igìù> di Polidamuilef t oro r«m , vamno la fotu che cir-
conda gli acqmpimeoli dei Greri } e benché cpatcuUtì da ud prodigio celnlc | pure mmI-
gOfw U muraglia. Sarpedoote oe frolla uno dei lorrii. Ajaee r Teucro oyipongonsi a Ini.
Ettore « infrante con uu nufiguo le {orte, mira legiulu dai Tmjani. 1 Gmi fuggouo verto
le navi.
Così dentro alle tende medicava
D’ Euripilo la piaga il valoroso
Meneziade. Frattanto alla rinfusa
Pugnan Teucri ed Achei; nè scampo a questi
E più la fossa ornai, nè l'ampio muro
Che l'armata cingea. L'avcan gli Achivi
Senza vittime eretto a custodire
I navigli e le prede. EdiGcato
Dunque malgrado degli Dei, gran tempo
Non durò. Finché vivo Ettore fue,
E irato Achille , e Troja in piedi , il muro
Saldo si stette; ma de’ Teucri estinte
L'almc piu prodi, e degli Achei pur molte,
E al dccim’anno Ilio distrutto, e il resto
Degli Argivi tornato al patrio lido ,
Decretar del gran muro la caduta
Nctlunno e Apollo, l’impeto sfrenando
Di quanti fiumi dalle cime idee
Si devolvono al mai', Reso, Granico,
Rodio, Carcso, Eptaporo ed Esépo
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j|.6o ILIADE, LIBRO XII 355
E il divino Scamandro e Simoenta
Che volge sotto Tonde agglomerati
Tanti scudi, tant’ elmi e tanti croi.
Di questi rivoltò Febo le bocche
Contro l’ alta muraglia, e vi sospinse
Nove giorni la piena. Intanto Giove,
Perchè più ratto l’ ingojasse il mare.
Incessante piovea. Nettunno istesso
Precorrea le fiumane, e col tridente
E coll’ onda atterrò le fondamenta
Che di travi e di sassi v’ avean posto
1 travigliosi Àchivi^ infin che tutta
Al piano 1’ adeguò lungo la riva
Dell’ Ellesponto. Smantellato il muro,
Fe di quel tratto un arenoso lido,
E tornò le bell’acque al letto antico.
Di Nettunno (piest’era e in un d’ Apollo
L'opra futurSL Ma la pugna intorno
A quel valido muro or ferve e mugge.
Cigolar delle torri odi percosse
Le compàgi, e gli Achei dentro le navi
Chiudonsi domi dal flagel di Giove,
E paventosi dell’ ettoreo braccio.
Impetuoso artefice di fuga^
Perocché pari a turbine l’eroe
Sempre combatte. E qual cinghiale o bieco
Leon, cui fanno cacciatori e cani
Densa corona, di sue forze altero
Volve dintorno i truci occhi, nè teme
La tempesta de’ dardi nè la morte.
Ma generoso si rigira, e guarda
Dove slanciarsi fra gli armati^ e , ovunque
Urta, s'arretra degli armati il cerchio^
Tal fra l’armi s’avvolge il teucro duce,
I suoi spronando a valicar la fossa.
Ma non l’ ardian gli ardenti corridori
Che mettean fermi all’orlo alti nitriti.
Dal varco spaventati arduo a saltarsi
E a tragittarsi^ perocché dintorno
S’aprìan profondi precipizi, e il sommo
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i56
lUADE
^ 6t«lCM>
Margo d' acati pali era mnnito,
Di che folto v’avean contro il nemico
Confitto un bosco gli operosi Achei ,
Tal che passarvi non potean le rote
Di volubile cocchio. Ma bramosi
Ardean d’ entrarvi e superarlo i fanti.
Fattosi innanzi allor Polidamante,
Ad Ettore si disse: Ettore, e voi
Duci trojani e collegati , udite :
Stolto ardire è il cacciar dentro la fossa
Gli animosi cavalli. E non vedete
Il difficile passo e la foresta
D'acute travi che circonda il maro?
Di ninna guisa ai cavalier non lice
Calarsi in quelle strette a far conflitto,
Senza periglio di mortai ferita.
Se il Tonante in sno sdegno ha risoluta
Degli Achei la mina e il nostro scampo ,
Ben io vorrei, che questo intervenisse
Qui tosto, e che dal caro Argo lontani
Perdesser tutti coll’ onor la vita.
Ma se voltano fronte, e dalle navi
Erompendo con impeto, nel fondo
Ne stringono del fosso, allor, cred’io.
Ninno in Troja di noi nunzio ritorna
Salvo dal ferro de’ conversi Achei.
Diam dunque effetto a un mio pcnsicr : sul fosso
Ogni auriga rattenga i corridori;
E noi pedoni , corazzati c densi ,
Tutti in punto seguiam l’ orme d’ Ettorre.
Non sosterranno il nostro urto gli Achivi,
Se l’ora estrema del lor fato è giunta.
Disse; e ad Ettore piacque il saggio avviso.
Balzò dunque dal carro incontanente
Tutto nell’ armi, e balzàr gli altri a gara.
Visto l’esempio di quel divo. Ognuno
Fe precetto all’ auriga di sostarsi
Co’ destrieri alla fossa in ordinanza;
Ed essi in cinque battaglion divisi
Seguirò i duci. Andò la prima squadra
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LIBRO XII
l'. 10l*l4o
Con Ettore e col buon Polidamante-,
Ed era questa il fiore e il maggior nerbo
De’ combattenti , desiosi tutti
Di spezzar l'alto muro, e su le navi
Portar la pugna: terzo condottiero
Li scguia Cebii'on, messo in sua vece
Alla custodia dcll'ettorco carro
Altro men prode auriga. Erano i duci
Della seconda Paride, Alcatóo
Ed Agenorre: della terza il divo
Deifobo ed Eléno ed Asio, il prode
D'Irtaco figlio, cui d’Arisba a Troja
Portarono e dall' onda Selleente
Due dcstrier di gran corpo e biondo pelo.
Capitan della quarta era d’Ancbise
L'egregia prole. Enea, co' due d'Anténore
Pugnaci figli, Archiloco e Acamante.
Degl'incliti alleati è condottiero
Sarpedonte, con Glauco e Asteropéo,
Da lui compagni del comando assunti
Come i più forti dopo sè, tenuto
n più forte di tutti. In ordinanza
Posti i cinque drappelli, e di taurine
Targhe coperti, mossero animosi
Contro gli Achei, sperando entro le navi
Precipitarsi alfin senza ritegno.
Mentre tutti e Trojani ed alleati
Al consiglio obbedian dell' incolpato
Polidamante, il duce Asio sol esso
Lasciar nè auriga nè corsier non volle,
Ma vèr le navi li sospinse. Insano !
Que' corsieri, quel cocchio, ond'egli csnlta ,
Noi terranno alla morte , e dalle navi
In Ilio, no, noi tomeran. La nera
Parca già il copre, e all'asta lo consacra
Del chiaro Deucalide Idomenéo.
Alla sinistra del naval recinto.
Ove carri c cavalli in gran tumulto
Venian cacciando i fuggitivi Achei,
Spius'cgli i suoi corsier verso la porta,
Mosti. Iliade, i]
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a58
ILIADE
r. i^l-iSo
Non già di sbarre assicurata e chiusa,
Ma spalancata e da guerrier difesa
A scampo de' fuggenti. 11 coraggioso
Flagellò drittamente i corridori
A quella voltai e con acute grida
Altri il segm'an, sperandosi, che rotti,
Senza far testa, nelle navi in salvo
Precipitosi fuggirìan gli Achivi.
Stolta speranza! Gustodian la porta
Due fortissimi eroi , germi animosi
De’ guerrieri Lapiti : era 1’ un d’ essi
Polipéte, figliuol di Piritdo^
L’altro, il feroce Leontéo. Sublimi
Stavan quivi costor , sembianti a due
Eccebe querce in cima alla montagna.
Che ferme e colle lunghe ampie radici
Abbracciando la terra, eternamente
Sostengono la piova e le procelle.
Cosi fidati nelle man robuste ,
Ben lungi dal voltar per tema il tergo,
Voltan anzi la fronte i due guerrieri,
D’Asio aspettando la gran furia. Ed esso,
Goll’Asiade Acamante, e con Oreste
E Jameno e Toone ed Enomào
Sollevando gli scudi, il forte muro
Van con fracasso ad assalir. Ma fermi
Sull’ ingresso i due prodi altrui fan core
Alla difesa delle navi. Alfine
Visti i Teucri avventarsi alla muraglia
D’ogni parte, e fuggir con alto grido
Di spavento gli Achivi, impeto fece
L’ ardita coppia^ e fiero anzi le porte
Un conflitto attaccar, come silvestri
Verri ch’odon sul monte avvicinarsi
11 firagor della caccia^ impetuosi
Fulminando a traverso, a sò dintorno
Rompon la selva, schiantano la rosta
Dalle radici, c sentir fanno il suono
Del terribile dente, infin che còlti
D’ acuto strale perdono la vita.
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V. iSi-jK) J->»RO XII a5g
Di questi due così sopra i percossi
Petti sonava il luminoso acciaro ,
E così combattean , nelle gagliarde
Destre fidando, e nel valor di quelli
Che di sopra dai merli e dalle torri
Piovean nembi di sassi alla difesa
Delle tende, dei legni e di si stessi.
Cadean spesse le pietre come spessa
La grandine, cui vento impetuoso
Di negre nubi agitator riversa
Sull' alma terra ^ nè piovean gli strali
Sol dalle mani achive, ma ben anco
Dalle trojane; e al grandinar de’ sassi
Smisurati , mettean roco un rimbombo
Gli elmi percossi e i risonanti scudi.
Fremendo allor si battè 1’ anca il figlio
D’Irtaco, e disse disdegnoso: O Giove,
E tu pur ti se’ fatto ora l’amico
Della menzogna? Chi pensar potea
Contro il nerbo di nostre invitte mani
Tal resistenza dagli Achei? Ma vèUi,
Che come vespe maculose in erti -
Nidi nascoste , a chi dà lor la caccia
S’ avventano feroci , e per le cave
Case e pe’ figli battagliar le vedi.
Così costor, benché due soli, addietro
Dar non vonno che morti o prigionieri.
Così parlava; nè perciò di Giove
Si mutava il pensier; chè al solo Ettorre
Dar la palma volea. Aspro degli altri
All’ altre porte intanto era il conflitto.
Ma dura impresa mi sana dir tutte.
Come la lingua degli Dei, le cose;
Perocché quanto è lungo il saldo muro.
Tutto è vampo di Marte. Alta costringe
Necessità, quantunque egri, gli Achei
A pugnar per le navi: e degli Achei
Tutti eran mesti in cielo i numi amici.
Qui cominciàr la pugna i due Lapiti.
Vibrò la lancia il forte Polipéte,
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36o
XLikVB
V. %%ua6o
E Damaso colpì tra le ferrate
Guance dell’ elmo. L’ elmo non sostenne
La furiosa punta, che, spezzati
I temporali, gli allagò di sangue
Tutto il cerébro, e morto lo distese;
Indi all’ Orco Pilon spinse ed Ormeno.
Nè la strage è minor di Leontéo,
D’Àntimaco figliuolo, anzi di Marte.
Sul confin della cintola ci percotc
Ippomaco coll’asta; indi, cavata
Dal fodero la daga, per lo mezzo
Della turba si scaglia, e pria d’un colpo
Tasta Antifonte che snpin stramazza ;
Poi rovescia Mcnon, Jameno, Oreste,
Tutti l’un sovra l’altro nella polve.
Mentre che Polipète e Leontéo
Delle bell’ armi spogliano gli uccisi.
La numerosa e di gran core armata
Trojana gioventude , impaziente
Di spezzar la muraglia, arder le navi,
Polidamante ed Ettore segui'a,
I «pai repente all’ orlo della fossa
Irresoluti s’ arrestar, dubbiando
Di passar oltre; perocché sublime
Un’aquila comparve, che sospeso
Tenne il campo a sinistra. Il fero augello
Stretto portava negli artigli un drago
Insanguinato, smisurato e vivo.
Ancor guizzante, c ancor pronto all’ofiese,
Sì che vólto a colei che lo gbermia.
Lubrico le vibrò tra il petto e il collo
Una ferita. Allor la volatrice,
Aperta l’ugna per dolor, lasciollo
Cader dall’alto fra le turbe; e, forte
Stridendo, sparve per le vie de’ venti.
Visto in terra giacente il maculato
Serpe, prodigio dell’ Egioco Giove,
Inorridirò i Teucri; e, fatto avanti
All’ intrepido Ettór, Polidamante
Sì prese a dir: Tu sempre, ancorché io porti
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LIMO XII
■3oo
Ottimi avvisi in parlamento , o duce ,
Hai pronta contro me qualche rampogna^
Nè pensi che non lice a cittadino
Nè in assemblea tradir nè in mezxo all’ armi
La verità, servendo all’ augumento
Di tua possanza. Dirò firanco adunque
Ciò che il meglio or mi sembra. Non si vada
Coll’ armi ad assalir le navi achee.
n certo evento che n’ attende, è scritto
Nell’ augurio comparso alla sinistra
Dell’esercito nostro, appunto in quella
Che si volea travalicar la fossa ^
Dico il volo dell’aquila, portante
Nell’ ugna un drago sanguinoso, immane
E vivo ancor. Gom’ ella cader tosto
Lasciò la preda, pria che al caro nido
Giungesse, e pasto la recasse a’ suoi
Dolci nati^ così, quando n’ accada
Pur de’ Greci atterrar le porte e il muro
E fame strage, non pensar per questo
Di ritoraarae con onor; chè indietro
Molti Trojani lasceremo ancisi
Dall’ argolico ferro , combattente
Per la tutela delle navi. Ognuno
Che ben la lingua de’prodigj intenda
E da’ profani riverenza ottegna.
Questo verace interpretar lima.
Lo guatò bieco Ettorre, e gli rispose:
Polidamante, il tuo parlar non viemmi
Grato all’orecchio, e una miglior sentenza
Or dal tuo labbro m’ attendea. Se parli
Persuaso c davvero, io ti fo certo.
Che l’ ira degli Dei ti tolse il senno ^
Poiché m’esorti ad obbliar di Giove
Le giurate promesse, e all’ ale erranti
Degli augelli obbedir; de’ quai non curo ,
Se volino alla dritta, ove il sol nasce,
O alla sinistra dove muor. Ben calmi
Del gran Giove seguir 1’ alto consiglio;
Gh’ ei de’ mortali e degli Eterni è il sommo
a6a iLUBE ,, 301.340
Imperadoi'e. Augurio ottimo e solo
È il pugnar per la patria. Perchè tremi
Tu dei perigli della pugna? Ov’ anco
Cadiam noi tutti tra le navi ancisi,
Temer di morte tu non dèi; chè cuore
Tu non hai d’aspettar l’ urto nemico,
Nè di pugnar. Se poi ti rimanendo
Lontano dal conflitto, esorterai
Con codarde parole altri a seguire
La tua viltà, per dio! che tu percosso
Da questa lancia perderai la vita.
Si spinse avanti cosi detto; e gli altri
Con alte grida lo seguiéno. Allora
11 Folgorante dall’ idèa montagna
Un turbine destò, che drittamente
Verso le navi sospingea la polve ,
E agli Achivi rapia gli occhi e 1’ ardire.
Ad Ettorre il crescendo ed a’Trojani,
Che, nel prodigio e nelle proprie forze
Confidati , assalir 1’ alta muraglia
Per diroccarla. E già divelti i merli
Delle torri cadean; già le bertesche
Si sfasciano, e le leve alto sollevano
Gli sporgenti pilastri, eccelso e primo
Fondamento alle torri. Intorno a questi
Travagliansi i Trojani, ampia sperando
Aprir la breccia. Nè perciò d’ un passo
S’ arretrano gli Achei ; ma di tatmine
Targhe schermo facendo alle bastite,
Ferìan da qnelle chi venia di sotto.
Animosi dall’ una all’altra torre,
L’acheo valor svegliando, ambo frattanto
Scorrean gli Ajaci; e con parole or dure.
Or blande rampognando i neghittosi:
O compagni, dicean, quanti qui siamo
Primi, secondi ed infimi (chè tutti
Non siamo eguali nel pugnar, ma tutti
Necessari ), or gli è tempo , e lo vedete ,
D’oprar le mani. Non vi sia chi pieghi
Dunque alle navi per timor di vana
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UBRO XII
363
•>J4i-3So
Minaccia ostil; ma procedete aranti,
E l'un l'altro incoratevi, e mertate
Che 1’ Olimpio Tonante vi conceda
Di rùotpinger l’ inimico , e rotto
Iiuegoirlo fin dentro alle sue mura.
Sì sgridando, animàr l’acheo certame.
Come cadono spessi ai dì vernali
I fiocchi della neve, allorché Giove
Versa incessante, addormentati i venti,
I suoi candidi nembi , e l’ alte cime
Delle montagne inalba e i campi erbosi ,
E i pingui seminati e i porti e i lidi;
L'onda sola del mar non sofifre il velo
Delle fioccanti falde, onde il celeste
Nembo ricopre delle cose il volto;
Tale allor densa di volanti sassi
La tempesta piovea quinci da' Teucri
Scagliata, e quindi dagli Àcbivi; e immenso
Sorgea rumor per tutto il lungo muro.
Ma nè i Trojani nè l'illustre Ettorre
N' avrìan le porte spezzato e le sbarre ,
Se alfin contro gli Achei non incitava
Giove 1' ardir del figfio Sarpedonte ,
Quale in mandra di buoi fiero bone.
Imbracciossi 1' eroe subitamente
II bel rotondo scudo , ricoperto
Di ben condotto sottil bronzo, e dentro
V avea l' industre artefice cucito
Cuoi taurini a più doppj, e orlato intorno
D' aurea verga perenne il cerchio intero.
Con questo innanzi al petto, e nella destra
Due lanciotti vibrando, incamminossi
Qual montano bon che , stimolato
Da lunga fame e dal gran cor, 1' assalto
Tenta di pieno ben munito ovile ;
E quantunque da' cani e da' pastori
Tutti sull' armi custodito il trovi,
Senza prova non soffre esser respinto
Dal pecorile, ma vi salta in mezzo,
E vi fa preda , o da veloce telo
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i64
ILÌADE
*• 38i-4so
Di man pronta riccTe aspra ferita.
Tale il divino Sarpedon dal forte
Suo cor quel muro ad assalir fu spinto,
E a spezzarne i ripari. E, vólto a Glauco,
D' Ippóloco figlinol : Glauco , gli disse ,
Perchè siam noi di seggio e di vivande
E di ricolme tazze innanzi a tutti
Nella Licia onorati, cd ammirati
Pur come numi? Ond’è che lungo il Xanto
Una gran terra possediam d'ameno
Sito, e di biade fertili e di viti?
Certo acciocché primieri andiam tra’ Licj
Nelle calde battaglie , onde alcun d’ essi
Gridar s’ intenda : Gloriosi e degni
Son del comando i nostri re; squisita
È lor vivanda, e dolce ambrosia il vino.
Ma grande il core, c nella pugna i primi.
Se il fuggir dal conflitto, o caro amico.
Ne partorisse eterna giovinezza.
Non io certo vorrei primo di Marte
I perigli ailrontar, ned invitarti
A cercar gloria ne’ guerrieri aiGinni.
Ma mille essendo del morir le vie.
Nè scansar nullo le potendo, andiamo:
Noi darem gloria ad altri , od altri a noi.
Disse; nè Glauco si ritrasse indietro.
Nè ritroso il segtù. Con molta mano
Dunque di Licj s’avviàr. Li vide
Rovinosi e diritti alla sua torre
Affilarsi il Petide Menestéo,
£ sgomentossi. Girò gli occhi intorno
Fra gli Achivi, spiando un qualche duce
Che lui soccorra e i suoi compagni insieme.
Scorge gli Ajaci che indefessi c fermi
Sostenean la battaglia, e avean dappresso
Teucro, pur dianzi della tenda uscito.
Ma non potea far loro a venm modo
Le sue grida sentir : tanto è il fragore.
Di che 1’ aria rimbomba alle percosse
Degli scudi, degli elmi e delle porte
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LIBBO XII
365
Tutte a un tempo assalite, onde spezzarle
E spalancarle. Immantinente ei dunque
Manda ad Àjace il banditor Toota ^
E: Va, gli dice, illustre araldo^ vola;
Chiama gli Àjaci, chiamali ambedue;
Chè questo è il meglio in sì grand’ uopo. Un’ alta
Strage qui veggo già imminente. I duci
Del lido stuol con tutta la lor possa
Qua piombano, e mostràr già in altro incontro
Gh’ eili son nelle zuffe impetuosi.
S’ambo gli eroi ch’io chiedo, in gran travaglio
Si trovano di guerra , almen ne vegna
n forte Ajace Telamdnio, e il segua
Teucro coll’arco di ferir maestro.
Corse l’araldo obbediente; e, ratto
Per la lunga muraglia traversando
Le file degli Achei, giunse agli Ajaci;
E con preste parole: Ajaci, ci disse.
Incliti duci degli Argivi, il caro
Nobile figlio di Petéo vi prega
D’accorrere veloci, ed aitarlo
Alcun poco nel rischio, in che si trova.
Pregavi entrambi per lo meglio. Un’ alta
Strage gli è sopra; perocché di tutta
Forza si vanno a rovesciar sovr’esso
I licj capitani , e di costoro
L’impeto è noto nel pugnar. Se voi
Siete in gran briga voi medesmi, almeno
Vien tu, forte figliuol di Telamone,
E tu. Teucro, signor d’arco tremendo.
Tacque; ed il grande Telamdnio figlio
Al figlio d’ Oiléo si volse, e disse:
Tu, Ajace, e tu, forte Licomede,
Qui restatevi entrambi, ed infiammate
L’ acheo coraggio alla battaglia. Io volo
Colà allo scontro del nemico ; e , data
La chiesta aita, subito ritorno.
Parti 1’ eroe, ciò detto; ed il germano
Teucro il seguiva, e Pandìon portante
L’ arco di Teucro. Costeggiando il muro,
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a66
ILUOE
«'■ 4^>’5oo
Alla torre arriràr di Menestéo;
Ed entrar nella zoSa, appunto in quella
Che a negro turbo simiglianti i duci
Animosi de’ Licj arean de’ merli
Già vinto il sommo. Si scontràr gli eroi
Fronte a fronte, e levossi alto clamore.
Primo l’Ajace Telamònio uccise
Il magnanimo Epicle, un caro amico
Di Sarpedon. Giacca sull’ardua cima
Della muraglia un aspro enorme sasso ,
Tal che niun de’ presenti , anco sul fiore
Delle forze, il potrebbe agevolmente
A due man sollevar. Ma lieve in alto
Levollo Ajace, e lo scagliò. L’ orrendo
Colpo diruppe il bacinetto , e tutte
L’ ossa del capo sfracellò. Dall’ alta
Torre il percosso, a notator simile,
Cadde, e l’alma fuggi. Teucro di poi
Di strale a Glauco il nudo braccio impiaga
Mentre il muro assalisce, e lo costrigne
La pugna abbandonar. Glauco d’un salto
Già dagli spaldi gittasi furtivo.
Onde nessuno degli Achei s’ avvegga
Di sua ferita , e villania gli dica.
Ben se n’ accorse Sarpedonte, ed alta
Dell’ amico al partir doglia il trafisse.
Ma non lentossi dalla pugna; e giunto
Colla lancia il Testòride Alcmeone,
Gliela ficca nel petto, e a sè la tira.
Segue il trafitto 1’ asta infissa , e cade
Boccone, e l’armi risonàr sovr’esso.
Colla man forte quindi il licio duce
Un merlo afferra, a sè lo tragge, e tutto
Lo dirocca. Snudossi al suo cadere
La superna muraglia, e larga a molti
Fece la strada. Allor ristretti insieme
Mossero centra Sarpedonte i due
Telamonidi , e Teucro d’ uno strale
Al petto il saettò. Raccolse il colpo
11 lucente fermaglio dell’ immenso
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LIBBO XII
•>. 50I-S40
Scudo ^ cbè Giove dal suo figlio allora
Allontanò la Parca, e non permise
Che davanti alle navi egli cadesse.
L’assalse Àjace ad un medesmo tempo,
E allo scudo il ferì. Tutto passollo
La fiera punta, ed aspramente il caldo
Guerrier represse. Dagli spaldi adunque
Recede alquanto ei, sì, ma non del tntto^
Ghè il cor pur' anco gli porgea spersmia
Della vittoria^ e, al suo fedel drappello
Rivòltosi, gridò: Licj guerrieri.
Perchè l’ impeto vostro si rallenta?
Benché forte io mi sia, solo poss’ io
Atterrar questo muro , ed alle navi
Aprir la strada? A me v’unite or dunque^
Ghè forza unita tutto vince. — Ei disse;
E vergognosi rispettando i Licj
Le regali rampogne, s’ addensavo
Dintorno al saggio condottier. Dall’ altro
Lato gli Argivi nell’interno muro
Rinforzan le falangi, e d’ambe parti
Gresce il travaglio della dura impresa;
Perocché nè il valor degli animosi
Licj a traverso dell’ infiranto muro
Alle navi potea farsi la strada ,
Nè i saettanti Achei dall’ occupata
Muraglia i Licj discacciar. Ma quale
In poder che comune abbia il confine.
Fan due villan, la pertica alla mano,
Del limite barufia, e poca lista
Di terra è tutto della lite il campo;
Gosi dei merli combattean costoro,
E sovra i merli contrastati un fiero
Spezzar si fea di scudi è di brocchieri
Su gli anelanti petti; e molti intorno
Gadean gli uccisi : altri dal crudo acciaro
Nel voltarsi trafitti il tergo ignudo;
Altri, ed erano i più, da parte a parte
Trapassati le targhe. Da per tutto
Torri e spaldi rosseggiano di sangue
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a68
lUADB
r. 54I-580
E trojano ed acheo; nè fra gli Achei
Nullo ancor segno si vedea di fuga.
Siccome onesta femminetta , a cui
Procaccia il vitto la conocchia, in mano
Tien la bilancia, e vi sospende e pesa
Con rigorosa tnitina la lana.
Onde i suoi figli sostentar di scarso
Alimento^ così de’ combattenti
Equilibrata si tenea la pugna,
Finché l’ora pur venne, in che dovea
Spinto da Giove superar primiero
Ettore la muraglia. Alza ei repente
La terribile voce 5 ed: Accorrete,
Grida, o forti Trojani^ urtate il muro;
Spezzatelo; gittate alfin le fiamme
Vendicatrici nella classe achea.
L’ udirò i Teucri; ed incitati e densi
Avventarsi ai ripari, e sovra il muro
Montar coll’ aste in pugno. Appo le porte
Un immane giacea macigno acuto:
Non r avrian mosso agevolmente due
De’ presenti mortali anche robusti
Per carreggiarlo. A questo diè di piglio
Ettore; ed alto soUevoUo, e solo
Senza fatica l’agitò; che Giove
In man del duce lo rendca leggiero.
E come nella manca il mandriiano
Lieve sostien d’un ariète il vello.
Insensibile peso; a questa guisa
Ettore porta sollevato in alto
L’enorme sasso, e va dirittamente
Contro l’assito, che compatto e grosso
Delle porte muni'a la doppia imposta ,
Da due forti sbarrata internamente
Spranghe traverse, ed uno era il serrarne.
Fattosi appresso, ed allargate e ferme
Saldamente le gambe, onde con forza
n colpo liberar, percosse il mezzo.
Al fulmine del sasso sgangherarsi
I cardini dirotti; orrendamente
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LIBHO XU
». 581-598
Muggir le porte, si spezzàr le sbarre,
Si sfracellò l'assito, e d'ogni parte
Le schegge ne volàr: tale fu il pondo
E l’impeto del sasso, che di dentro
Cadde, e posò. Pel varco aperto Ettorre
Si spinse innanzi , simigliante a scura
Ruinosa procella. Folgorava
Tutto nell' armi di terribil luce^
Scotea due lance nelle man ^ gli sguardi
Mettean lampi e faville; e non 1’ avria,
Quando ei fiero saltò dentro le porte.
Rattenuto verun, che Dio non fosse.
Alle sue schiere allor si volse, e a tutte
Comandò di varcar l’achea trincierà.
Obbedirò i Trojani : immantinente
Altri il muro salir; altri innondavo
Le spalancate porte. Al mar gli Achivi
Fuggono, e immenso ne seguia tumulto.
afig
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LIBRO DECIMOTERZO
ÌRG01IE5TO
Netlmmo, bmmo a eompauioM ^ Greci, preod» ta focma di CiVranU, e Kcmora prioi»
gli A^i , e poi altri capitaaL Idomendo la prove di valore , ed oeeide Otrioodo ed altri.
L' aU ftiiiùtra dei Trojani ^ ooktrelta a eeden , Doa aetacte la resifteoa di Eii« e di Det’
fobo. Ettore , cbe alla destra sosteoevati coatro gli Ajaci , esieodu tribolato dagli arrim
locresi , raduna i tooi ; e , passando alla anùtra , vi raddriata U pugna. La tniirhia sì b
terribile d’ambe le parli.
Poiché Giove appressati ebbe alle navi
Con Ettore i Trojani, ivi in travaglio
Incessante lasciolli^ e, vólti indietro
I iìilgid' occhi, a riguardar si pose
Del Trace, di cavalli agitatore.
La contrada e de'Misj a stretta pugna
Valorosi guerrieri e de' famosi
Ippomolghi, giustissimi mortali,
Cbe di latte nudriti a lunga etadu
Producono i lor di: nè piìk di Troja
Dava un guardo alle mura, in sé pensando.
Che nessun Dio discendere de' Teucri
O de' Greci in aita oso sarebbe.
Nè invan si stava alla vedetta intanto
D re Nettunno, che su 1' alte assiso
Selvose cime della tracia Samo
Contemplava di là l'aspro conflitto^
E tutto l'Ida e Troja, c degli Achei
Le folte antenne si vedea davanti.
Ivi , uscito dell' onde , egli sedea \
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V. at4So
lUÀDE, UBRO XIU
E del cader de’ Greci impietosito,
Contro Giove fremea d’ alto disdegno.
Ratto spiccossi dall’ alpestre vetta ,
E discese. Tremàr le selve e i monti
Sotto il piede immortai dell’ incedente
Irato Enosigéo. Tre passi ei fece 5
E al quarto giunse alla sua meta in Ege,
Ove d’auro corruschi in fondo al mare
Sorgono eccelsi i suoi palagi eterni.
Qui venuto, i veloci oro-criniti
EripedI cavalli al cocchio aggioga.
In aurea vesta si ravvolge tutta
La divina persona; ed , impugnato
L’ aureo flagello di gentil lavoro ,
Monta il carro, e leggier vola su l’onda.
Dagl’imi gorghi uscite a lui d’intorno.
Conoscendo il re lor, l’ ampie balene
Estiltano, e per gioja il mar si spiana.
Cosi rapide volano le rote.
Che dell’ asse nè pur si bagna il bronzo;
E gli agili cavalli a tutto corso
Verso le navi achee portano il Dio.
Fra Ténedo e ira l’ aspra Imbro nell’ imo
S’ apre dell’ alto sale ampia spelonca.
Qui giunto il nume, i corridor sostenne,
E dal temo gli sciolse, e ristorati
D’ ambrosio cibo , gli allacciò di salde
Auree pastoje d’insolubil nodo.
Onde attendan li fermi il redituro
Re lor, che al campo degli Achei s’inilrizza.
Una fiamma sembianti 0 una procella,
Aflbllati, indefessi, e, d’alte grida
L’aria empiendo i TrojanI e furiando,
Seguon d’Ettore i passi, il cor ripieni
Della speranza d’ occupar le navi,
E tra le navi sterminar gli Achei.
Ma, di Calcante presa la sembianza
E la gran voce, raccendea Nettunno
Gli argolìci guerrieri; pria rivolto
Agli Ajaci , gridava : Ah ! vi ricordi ,
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lUADE
¥. 6i-ioo
a7*
Che n campo achlvo col valor si salva,
Non col freddo timor. Non io de’ Teucri,
Che in folla superar 1’ alta muraglia ,
Le ardite mani agli altri posti or temo.
Ove a tutti terran fronte gli Achei ^
Ma qui tem’ io d’assai qualche sinistro.
Qui, dove questo inviperito Ettorre,
Che del gran Giove si millanta figlio ,
Guida i Teucri , e s’ avventa come fiamma.
Ma se in mente a voi pone un qualche iddio
Di contrastargli, e di dar core altrui.
Certo mi fo, che lungi dalle navi
Respingerete il suo iuror, foss’anco
Lo stesso Giove che gl’ infonde ardire.
Così parla Nettunno; e collo scettro
Toccandoli ambidue, per le lor membra
Una divina vigoria diflìise.
Che tutta alleggerendo la persona.
Alle man polso aggiunse , ed ali al piede ^
E, ciò fatto, sparì colla prestezza
Di veloce sparvier , che nella valle
Visto un augello, da scoscesa rupe
Si precipita a piombo su la preda.
Ajace d’ Oiléo s’ accorse il primo
Del portento^ e, al figliuol di Telamone
Di subito converso: Amico, ei disse.
Colui che ne parlò , non egli al certo
È l’indovino augurator Calcante,
Ma qualche dell’Olimpo abitatore
Che ne prese le forme, e ne comanda
Di pugnar per le navi. Agevolmente
Si riconosce un nume^ ed io da tergo
Lui conobbi all’ incesso appunto in quella
Che si partiva, e me 1’ avvisa il core.
Che di battaglia più che mai bramoso
Mi ferve in petto si , che mani c piedi
Brillar mi sento del desio di pugna.
E a me, risponde il gran Telamonide,
A me pur brilla intorno a questa lancia
L’ audace destra, e il cor mi cresce in seno ,
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UBBO XtU
r. 101>l4o
E r impulso de' piè sento di sotto
Si, che pur solo d' azzuilarmi anelo
Coll’ indomito Ettorre. — Era di questi
Tale il discorso, e tal dell’ armi il caldo
Desir che in petto area lor posto il nume.
Nettunno intanto degli Achei ridesta
L’ ultime file che, scorate e stanche
Dal marz'ial travaglio, appo i navigli
Prendean respiro^ e di gran duol cagione
Era loro il veder, che l’alto muro
Avean varcato con tumulto i TeuerL
Piovea lor dalle ciglia a quella vista
Un largo pianto , di scampar perduta
Ogni speranza. Ma col pronto arrivo
Le ravvivò Nettunno^ e pria Letto
E Teucro e Deipiro e Peneléo
E Merione e Antiloco e Toante,
Tutti eroi bellicosi, inanimando;
Oh vergogna! esclamò, cosi combatte
Or dell’ argiva gioventude il fiore ?
Nel valor delle vostre armi io sperava
Salve le navi ^ ma se voi la fiera
Pugna cessate, il di supremo è questo
Della nostra caduta. Oh cielo! oh indegno
Spettacolo , eh’ io veggo, e ch’io non mai
Possibile credea! fino alle navi
Irrompere i Trojani, essi, che dianzi
Non eran osi nè un momento pure
Far fronte ai Greci, e ne fuggian la possa
Come timide cerve, che vaganti
Per la foresta , e imbelli e senza core ,
Son di linci, di lupi e leopardi
L’ ingorde canne a satollar serbate !
Or ecco che lontan dalla cittade
Fino alle navi la battaglia spingono,
Colpa del duce Atride , e noncuranza
De’ guerrier , che con esso incolloriti ,
Anzi che a scampo delle navi armarsi ,
Trucidar vi si fanno. E nondimeno
Benché l’ Atride eroe veracemente
Morti. Iliade.
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ILIADE
Sia di ciò tatto la cagion , per P onta
Ch’egli fece al Peli’de, a noi non lice
A veron patto abbandonar la pugna.
Via, s’emendi l’error: le generose
Alme i lor falli a riparar son preste *,
Nè voi, sendo i più forti, onestamente
n valor vostro rallentar potete;
Ned io col vile che pugnar rieusa ,
50 corrucciarmi, ma con voi mi sdegno
Altamente, con voi, che , fatti or molli
Ed ignavi e codardi, un maggior danno
Vi preparate. In sé ciascuno adunque
n pudor svegli e del disnor la tema.
Grande è il certame che s’ accese: il prode
Ettore è quegli che le navi assalta ,
E le porte già ruppe e l’alta sbarra.
Da questi di Nettunno acri conforti
Incoraggiate le falangi achee
51 strinsero agli Ajaci in si bel cerchio.
Che stupito n’avrìa Marte e la stessa
Minerva, de’ guerrieri eccitatrice.
Questo fior di gagliardi il duro assalto
De’ Trojani e d’ Ettdr fermo attendea ,
Come siepe stipando ed appoggiando
Scudo a scudo, asta ad asta, ed elmo ad elmo,
E guerriero a guerrier, si, che gli eccelsi
Cimier su i coni rilucenti insieme
Confondean l’ onda delle chiome equine.
Cosi densati procedean di punta
Contra il nemico questi forti, ognuno
Nella robusta mano arditamente
Bilanciando il suo telo, e di dar dentro
Tutti vogliosi. Pur primieri i Teucri
Stretti insieme a far impeto , precorsi
Dall’ intrepido Ettdr , pari a veloce
Rovinoso macigno che torrente
Per gran pioggia cresciuto da pelixisa
Rupe divelse e spinse al basso; ei vola
Precipite a gran salti, e si fa sotto
La selva risonar; nè il corso allenta ,
1'. |8|'210
LIBRO xin
Finché giunto alla valle, ivi si quota
Immobile. Cosi, pel campo Ettorre
Seminando la strage , infino al mare
Penetrar minacciava , e senza intoppo
Fra le navi cacciarsi e fi-a le tende.
Ma come a fronte ei giunse della densa
Falange, s’arrestò, vano vedendo
Di spezzarla ogni mezzo : e dì rincontro
L’ appuntar colle lance e colle spade
Si fieri i figli degli Achei, che a fòrza
L’ allontanar. Respinto ei diede addietro.
Ed alto a’ suoi gridò: Trojani e Licj
E Dàrdani , deh ! voi fermo tenete ^
Chè , benché denso , lo squadron nemico
Non sosterrammi a lungo , c all’ urto io spero
Della mia lancia piegherà, se invano,
Non eccitommi il più possente Iddio,
L’ altitonante dì Giunon marito.
Di eiascuno destàr la lena e il core
Queste parole. Àllor di Priamo il figlio
Con grande ardir , Dè'ifobo , si mosse 5
E, davanti portandosi lo scucio
Che tutto il ricopriva , a lento passo
S’ avanzò. Merion di mira il prese
Colla fulgida lancia , e in pieno il colse
Nello scudo taurina ma di forarlo
Non gli successe^ ché alla prima falda
L’ asta sì fianse. Paventando il telo ■;
Del bellicoso Merion, dal petto
Discostossì Dè'ifobo il brocchiero ^
E l’argolico eroe, vista spezzarsi
La lancia, e tolta la vittoria, irato
Si ritrasse fra’ suoi j quindi lunghesso
Le navi ei corse alla ' sua tenda in cerca
D’un riposto lancìon. La pugna intanto
Cresce, ed immenso si solleva il grido.
Il Telamònio Teucro innanzi a tutti
Imbrio distese , acerrimo guerriero ,
Cui Mèntore di ricche equestri razze
Possessor generò. Tenea eostui ,
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ILI IDE
f. 221>26o
Pria dell’ arrivo degli Achei , suo seggio
In Pedéo, disposata la leggiadra
Medcsicaste , del trojano Sire
Spuria figliuola. Ma venuti i Greci,
Rivenne ad Dio ei pure , e fra’ Trojani
Distinto di valor nelle regali
Case abitava, e il re tenealo in pregio
Del par che i figli. A costui 1’ asta infisse
Sotto l’ orecchio il buon Telamonide,
E tosto ne la svelse. Imbrio cadeo ,
A frassino simil, che su la cima
D’una montagna da lontan veduta
Reciso dalla scure al suolo abbassa
Le sue tenere chiome. Cosi cadde
Riverso , e l’ armi gli sonàr d’ intorno.
Di rapirle bramoso immantinente
Teucro accorse ^ ma pronto in lui diresse
La frilgid’ asta Ettór. L’ altro, che a tempo
Del colpo s’ avvisò , scansollo alquanto ,
Ed in sua vece lo raccolse in petto
Il figliuol dell’Attòride Cteato,
Amfimaco , che appunto in quel momento
Entrava nella mischia. Strepitoso
Ei cadde, e sopra gli tonò l’usbergo.
A levar del magnanimo caduto
Dalla fronte il bell’ elmo Ettore vola ;
Ma d’Ajace 1’ aggiunse il fulminato
Splendido telo, che l’ ettoreo petto
Non offese egli , no ; chè tutto quanto
Era nel ferro orribilmente chiuso^
Ma di tal forza gli percosse il colmo
Dello scudo, che pur lo risospinse
Sì , che scostarsi fu mestier dall’ uno
Cadavere e dall’ altro , ed agli Achivi
Abbandonarli. Amfimaco fira’suoi
Fu ritratto da Stichio e Menestéo,
Atenèi condottieri ^ Imbrio da’ forti
Ajaci, simiglianti a due leoni.
Che tolta al dente di gagliardi cani
Una capra talor, fra i densi arbusti
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LIBRO XIII
277
p. 261*300
La portano del bosco alta da terra
Nell’ orrende mascelle. A questa guisa
Sublime fra le braccia i due guerrieri
D’ Imbrio la salma ne portare ^ e a lui ,
Trattegli l’ armi , il 6glio d’ Oiléo ,
Della morte d’Amfimaco sdegnoso ,
Mozza la testa fe volar dal busto ^
Indi fra i Teucri la gittò rotata
Come lubrico globo , e al piè d’ Ettorre
La travolse sanguigna nella polve.
Non fu senz’alto di Nettun disdegno
D’Amfimaco la morte, al Dio nipote.
Risoluto in suo cor de’ Teucri il danno,
Fra le navi e le tende il corniccioso
Nume awiossi ad animar gli Achivi.
Scontrollo Idomenéo , che appunto in quella
Un amico lasciava a lui poc’ anzi
Fuor deUa pugna dai compagni addotto,
E ferito al ginocchio. Ai medicanti
Commessane la cura , il re cretese
Da quella tenda si partia, pur sempre
Desideroso di battaglia. Ed ecco
(Preso il volto e la voce di Toante,
D’Andrémone figliuol , che di Pleiuone
E dell’ eccelsa Calidon signore
Agli Etoli imperava , e al par d’ un nume
Lo riverìa la gente), ecco Nettunno
Farglisi innanzi, e dire: Idomenéo,
Consiglier de’ Cretesi, ove n’andaro
Le minacciate ai Teucri alte minacce
Da’ figli degli Achei 7 — Nullo qui manca
Al suo dover , rispose il gnossio duce ,
Nullo , per mio sentire , e sappiam tutti
Pugnar. Nessimo da vii tema è preso;
Nessun fiaccato da desidia fugge
L’ afianno marzial. Ma del possente
Giove quest’ è la fantasia , che lungi
Dalla patria perire inonorati
Qui debbano gli Achei. Ma tu che fosti
Sempre un forte, o Toante, e altrui se’uso
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578 ILIADE V Joi 3^0
Destar coraggio, se allentar lo vedi,
Segui a farlo, e rinfranca ogni guerriero.
Possa da Troja , replicò Nettuono ,
Non si far più ritorno , e qui de' cani
Rimanersi sollazzo, ognun che cerchi
In questo giorno abbandonar la pugna.
Va, ti tiarma, e vieni , e tenteremo,
Benché due soli , di far tale un fatto ,
Ch'utile tomi. La congiunta forza
Pur degl' imbelli è di momento , c noi
Ancor co' prodi guerreggiar sappiamo.
Disse ^ e mischiassi il Dio nel travaglioso
Mortai conflitto. Rientrò veloce
Nella sua tenda Idomenéo^ di belle
Armi vestissi tutto quanto^ e, tolte
Due lance, s'awi'ò, simile in vista
Alla corrusca folgore che Giove
Vibra dall'alto a sgomentar le genti,
E di lucidi solchi il ciel lampeggia.
Così splendca l' acciaro intorno al [>etto
Del frettoloso eroe. Lungi di poco
Dalla tenda scontroUo il suo fedele
Meri'un che venia d' altr' asta in cerca.
Figlio di Molo , Idomeuéo gli disse ,
Ove curri sì ratto ? c perchè lasci ,
Diletto amico Merìon, la pugna?
Se' tu forse ferito, e qualche punta
Ti tormenta di strale? od a recarmi
Qualche avviso ne vieni? Andiamo ch'io stesso
Non di riposi , ma di pugna ho brama.
Vengo, rispose Merìon, d' un' asta 1
A provedermi , Idomenéo , se alcuna <
Te ne rimase al padiglion. La mia
Allo scudo la ruppi del feroce
Déifobo. — Non una, il re riprese.
Ma venti, se le brami, alla parete
Ne troverai poggiate entro la tenda ,
Tutte belle e trojane, e da me tolte
Ad uccisi nemici, lo li combatto
Sempre dappresso : c cosi d' aste Io feci
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LIBRO XIII
»79
V. 341*380
E (F elmetti e di scudi ombelicati
E di lucidi usberghi un tanto acquisto.
Ed io pur nella tenda e nella nave
Ho molte spoglie de^Trojani in serbo,
Soggiunse Merion^ ma lungi or sono.
E neppur io mi spero in obbbanza
Aver posto il valor ; chè anch’io ne’ campi
Della gloria so starmi in mezzo ai primi,
Quando di Marte la tenzon si desta.
Forse al più degli Achei mal noto in guerra
È il mio valor ^ ma tu il conosci, io spero.
Si, lo conosco, Idomenéo riprese;
Ma che ridirlo or tu? L’agguato è il campo.
Ove in sua chiarità splende il coraggio,
E dal codardo si disceme il prode.
Color cangia il codardo , e il cor mal fermo
Non gli permette di tenersi immoto
Un solo istante; mancagli il ginocchio,
Sul calcagno s’accascia; e, immaginando
Vicino il suo morir, l’alma nel seno
Palpita, e trema dibattendo i denti.
Ma collocato nell’ insidia, il forte
Nè cor cangia nè volto, e della zuffa
n momento sospira. E a noi tenuti
Tra’ più gagliardi , se l’ andar ne tocchi
O’ un agguato al periglio, a noi pur anco
E del tuo braccio e del tuo cor palese
Si farla la virtù. Se nella pugna
Fia che ti colga un qualche telo , al certo
Il tergo , no , ma- piagheratti il petto ,
E diritto corrente all’ inimico ,
E tra’ primieri avvolto , e nel più denso
Della battaglia. Ma non più parole;
Onde a caso qualcun sopravvenendo ,
Di vanitosi cianciatori a dritto
Non ci getti rampogna. Orsù; t’affretta
Nella tenda, c una forte asta ti piglia.
Disse ; e 1’ altro volò ; prese veloce
Una ferrata lancia ; e , la battaglia
Anelando, raggiunse Idomenéo.
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ILIADE
r. 38i-^ao
Qual s’ avanza al conflitto il sanguinoso
Nume dell’ anni, e suo diletto figlio
L’accompagna il Tem>r, che audace e forte
Anco i più Cenni fa tremar; F orrenda
Coppia, lasciati della Tracia i lidi,
Va degli Efiri a guerreggiar le genti
O i magnanimi Flegj , e non ascolta
Più quei che questi , ancor dubbiando a cui
La vittoria inviar; tali nel ferro
Lampeggianti procedono alla pugna.
Condottieri di prodi , Idomenéo
E Mellone , che primier dicea :
Da qual parte in battaglia entrar t’ aggrada,
O Deucaltde valoroso ? a destra ,
0 pur nel centro ? o sosterrem più tosto
La sinistra ? Gli è quivi , a mio parere ,
Che di soccorso ai nostri è più mcstiero.
11 centro ha buoni difensor, rispose
n re di Creta; ha l’uno e Faltro Ajace,
E il più prestante saettier de’ Greci ,
Teucro , gagliardo combattente insieme
A piè fermo. Daran questi ad Ettorre,
Per audace ch’ei sia, molto travaglio
Nella fervida mischia , e costar caro
Gli faranno il tentar di superarne
L’invitta forza, e i minacciati legni
Colle fiamme assalir, se pur lo stesso
Giove non scenda colle proprie mani
A gittarvi gl’ incendj. A mortai uomo
Che sia di frutto cerea! nudrito ,
E cui possa del ferro o delle pietre
Il colpo violar, non fia che mai
Il grande Ajace Telamónio ceda,
Non allo stesso violento Achille,
Che di corso bensì, ma fior noi vince
Nel pugnar di piè fermo. Or noi del campo
Rivolgiamci alla manca; e vediam tosto
Se darem gloria ad altri, od altri a noi.
Volar , ciò detto , alla prefissa meta.
1 Trojani , veduto Idomenéo
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LIBRO XIII
vw 411-460
aSi
Come vampa di foco alla lor volta
Col suo scudier venirne , orrendo ei pnre
Di scintillanti arnesi , inanimando
Sè medesmi a vicenda, ad incontrarli
Mossero tutti dì conserto. Allora
Surse avanti alle poppe aspro conflitto.
A quella guisa che ne' caldi giorni ,
Quando copre le vie la molta polve,
S'alza turbo di vento, che solleva.
Sibilando, di sabbia una gran nnbe^
Tali, ardendo nel cor di porsi a morte
Co' ferri acuti, s’ attaccàr le schiere.
Irto era tutto il campo ( orrida vista 1 )
Di lunghe aste impugnate; e il ferreo lampo
Degli usberghi , degli elmi e degli scudi
Tutti in confuso folgoranti e tersi
Facea barbaglio agli occhi;' e stato el fora
Ben audace quel cor che vista avesse
Tranquillo e lieto la cmdcl contesa.
Cosi divisi di favor li due
Possenti figli di Saturno, acerbe
Ordian gravezze ai combattenti eroi.
Di qua Giove ai Trojani e al forte Ettorre
La vittoria desia; non ch'egli intero
Voglia lo scempio della gente achea.
Ma sol quanto a innalzar del grande Achille
Basti la gloria, ed onorar la madre.
Di là , furtivo da' suoi gorghi uscito ,
Nettunno infiamma colla dia presenza
Degli Argivi II coraggio , e del vederli
Domi dai Teucri doloroso freme
Contro Giove di sdegno. Una è d' entrambi
L’origine divina e U nascimento;
Ma nacque Giove il primo, e più sapea.
Quindi il minor fratello alla scoperta
Oso non era d’ aitarli , e solo
Celatamente ed in sembianza umana
Infondea loro ardire. A questo modo
L’ un nume e l’altro agli uni e agli altri iniqua
D’aspre discordie ordiro una catena
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a8a
ILIADE
V. 461-50D
Che nè «pezzarc si potea nè sciorre,
E che stese di molti al suol la forza.
Quantunque sparso di canizie il crine ,
Con vigor fresco allora Idomenèo,
Fatto ai Greci coraggio , i Teucri assalse ,
E sbaragliolli , ucciso Otrionéo.
Di Càbeso poc’ anzi era costui
Venuto al grido della guerra, e a sposa
La più bella cbiedea , senza dotarla ,
Delle fanciulle pr'iamée, Cassandra;
E l’ alta impresa di scacciar da Troja ,
Lor malgrado , gli Àcfaivi impromettea.
Gli area di questo intenzion già data
n re vecchio e l’assenso; ed, animato
Dalle promesse, il vantator pugnava
Arditamente , ed incedea superbo.
Colla fulgida lancia Idomenèo
L’ adocchiò , lo colpi , gl’ infisse il telo
In mezzo all’ epa, dalle piastre invano
Del torace difesa. Alto fragore
Diè, cadendo, il guerriero; e, l’ insultando ,
Il vincitor si disse ; Otrionéo ,
Se tutte che tu festi al re trojano
Alte promesse, adempirai, su tutti
I mortali pur io terrotti in pregio.
Priamo la figlia ti promise, e noi
Altra sposa t’ ofiriam , la più leggiadra
Delle figlie d’Atride ; e lei qui tosto
Farem d’Argo venir, a questo patto
Che tu di Troia ad espugnar n’aiti
La superba città. Dunque ne segui.
Onde alle navi contrattar le nozze ,
E suoceri n’ avrai larghi e cortesi.
SI dicendo, per mezzo alla battaglia
Strascinollo d' un piede. A vendicarlo
Avanzossi pedon nanzi al suo carro
Asio, e anelanti al tergo gli guidava
II fido auriga i corridor. Mentr’ egli
A ferir d' un bel colpo Idomenèo
Tutto intende il suo cor, questi il prevenne.
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. Soi-54o i-nno XIII ag}
E la lancia gl! spinse nella gola
Sotto il mento, e passoUa. Asio cadeo
Siccome quercia o pioppo od alto pino
Cui sul monte tagliar con raffilate
Bipenni i fabbri a nautic’oso. Ei giacque
Lungo a terra disteso innanzi al cocehio,
E digrignava i denti , e colle mani
Strignea rabbioso la cruenta polve.
Smarrì l' auriga il cor ; nè per sottrarsi
Alla man de' nemici addietro osava
Dar volta al cocchio. Il giunse in quello stato
Antiloco coll'asta, e in mezzo al ventre
Lo trivellò^ che nulla lo difese
L'interzata lorica. Ei dal bel carro
Riversossi anelante ; ed , ai cavalli
Dato di piglio il vincitor , dai Teucri
Li sospinse agli Achei. D'Asio caduto
Dèifobo dolente , colla picca
Si strinse addosso al re di Creta, e trasse.
Previde il colpo , e curvo Idomenéo
Sotto il grand' orbe si raccolse tutto
Dello scudo taurin che di fulgente
Ferro il contorno e doppia avea la guiggia.
Riparalo da questo , egli la punta
Schivò dell' asta ostil che , sorvolando
Veloce, delibò nel suo trascorso
Lo scudo, e secco risonar lo fece.
Nè indarno usc'i dalla man forte il telo ^
Ma l' Ippaside Ipsénore percosse
Sotto i precordj , e 1' atterrò. Gran vanto
Si diè sul morto l' uccisor , gridando :
Asio non giace inulto, e alle tremende
Porte scendendo di Pluton, mi spero
Fia del compagno , eh' io gli do , contento.
Contristò degli Achei quel vanto i petti)
D'Anliloco su gli altri il bellicoso
Cor ne fu tocco) nè lasciò per questo
In abbandon l'amico) anzi, accorrendo.
Lo coprì dello scudo, e lo protesse
Si, che Alastorre e Mecistéo, due cari
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a84
ILI4DE
1^. S^i-58o
Dell'estinto compagni, in su le spalle
Recarselo poterò ed alle navi
Trasportarlo, mettendo alti lamenti.
Non rallentava Idomenéo frattanto
n magnanimo core^ e vie plii sempre
L'in6ammava la brama o di coprire
Qualche Trojano dell' eterna notte ,
O far di sua caduta egli medesmo
Risonante il terren , sol che de' Greci
Allontani l' eccidio. Eira fra’ Teucri
Un caro figlio d’ Esiéta , il prode
Alcatóo, già consorte alla maggiore
Delle figlie d'Anchise , Ippodamia ,
Che al genitor carissima e alla madre.
Onoranda matrona, ogni compagna
Vincea di volto e di prudenza, esperta
In tutte 1' arti di Minerva; ond' ella
D' un de’ più chiari fra gli eroi fu sposa
Di quanti Ilio n’avea nel suo gran seno.
Ma sotto la cretense asta domollo
Nettunno ; e prima gli annebbiò le luci;
Poi per le belle membra gli difluse
Tale un torpor, che nè fuggirsi addietro.
Nè scansarsi potea, ma immoto e ritto
Come colonna o pianta alto chiomata
Starasi; e tale lo colpì nel petto
D' Idomenéo la lancia, e la lorica ,
Della persona inutile difesa ,
Gli traforò. Diè un rauco e sordo suono
Il lacerato usbergo; strepitoso
Alcatòo cadde ; e il battere del core
Fe la cima tremar dell’ asta infissa ,
Ch’ivi alfin tutta si quetò. Superbo
Del glorioso colpo, Idomenéo
Alto sciamò: Déifobo , e' ti sembra,
Che ben s'adegui con tre morti il conto
D’ un solo ? Inane fu il tuo vanto , o folle.
Viemmi a fronte, e vedrai qual io mi regna
Qui rampollo di Giove. Ei primo ceppo
Minosse generò , giusto di Creta
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V. 581^10 LORO xiu a85
Conscrvator, Minosse il generoso
Deucalione, e questi me nell’ampia
Creta di molto popolo signore^
Ed ora a Troja mi portàr le navi
A te fatale e al padre e a tutti i Teucri.
Stette all’acre parlar fra due sospeso
Deifobo , se in cerca retroceda
D’uu valoroso che l’ajnti, o s’egli
Si cimenti pur solo. In tal pensiero
Ir d’Ànchise al figliuol gli parve il meglio ,
E negli estremi lo trovò del campo
Stante e il cor roso di perpetuo cruccio ,
Perchè lui, che tra’ prodi avea gran fama,
Inonorato il re trojan lasciava.
Venne a lui dunque, e cosi disse: Enea,
Chiaro de’ Teucri capitan , se cura
De’ congiunti ti tocca , il tuo cognato
Esanime soccorri. Andiamo la morte
Vendichiam d’Alcatòo, che un di marito
Di tua sorella t’educò bambino,
E eh’ or d’ Idomenèo l’ asta ti spense.
Si commosse 1’ eroe racceso il petto
Del desio della pugna, ed alla volta
D’ Idomenèo volò. Nè già si volse
Come fanciullo in iìiga il re cretese;
Ma fermo stette ad aspettarlo. E quale
Cinghiai che sente le sue forze, aspetta
In solitario loco alla montagna
De’cacciator la turba; alto sul dosso
Arriccia il pelo, e, una terribil luce
Lampeggiando dagli occhi, i denti arruota.
Di sbaragliar le torme impaziente
Degli uomini e de’ cani; in tal sembianza
Fermo si stava Idomenèo , 1’ assalto
Aspettando d’ Enea. Por vólto a’ suoi ,
•\scàlafo chiamonne ed Afarèo
E Dèipiro e Merione e Antiloco,
Mastri di guerra , e gl’ incitò con queste
Ratte parole: Amici, a darmi assalto
Corre il figlio d’Anchise: egli è di stragi
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»S6
ILIiDB
r. 6ai>6G*
Opcrator gagliardo , e, ciò che forma
11 maggior nerbo, ha por degli anni il fiore,
lo son qui solo , nè del par la fresca
Gioventù mi sorride. Ove ciò fosse,
Con questo cor qui tosto glorioso
O lui mia morte, o me la sua farebbe.
Disse; e tutti gli fùr concordi al fianco
Con gf inclinati scudi. Enea , dall' altra
Parte eccitando i suoi compagni, appella
Déifbbo a soccorso e Pari e il diro
Agenore, ebe tutti eran con esso
Condottieri de’ Teucri , e li seguia
Molta man di guerrieri, a simiglianza
Di pecorelle che dal prato al fonte
Van su la traccia del lanoso duce ,
E ne gode il pastor. Tale d’ Enea
Pel seguace squadron l’alma gioisce.
Colle Inngh’astc intorno ad Alcatóo
S’azzniTàr questi e quelli. Intorno ai petti
Orribilmente risonava il ferro
De’ combattenti ; e due guerrier famosi,
D’Ancbise il figlio e il regnator di Creta ,
Pari a Marte ambedue, con dispictato
Ferro a vicenda di ferirsi lian brama.
Trasse primiero Enea; ma, visto il colpo,
L’ avversario scbivollo , e tremolante
Al suol s’infisse la dardania punta,
Invan fuggita dalla man robusta.
Idomcnéo percosse a mezzo il ventre
Enòmào. Spezzò 1’ asta l’ incavo
Della corazza, e gl’intestini incise
Sì, ch’egli cadde nella polve, c strinse
Colle pugna il sabbion. Svelse dal morto
La lancia il vincitor; ma le bell’ armi
Rapirgli non poteo; cbè degli strali
L’ opprimea la tempesta , c non avea
Salde al correr le gambe e al ripigliarsi
L’asta scagliata, ed a schivar l’ ostile.
Quindi a piè fermo ci ben sapea per anco
La morte allontanar; ma dal conflitto
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LIBRO Xlll
¥. 66i«70o
Mal nel bisogno sottraealo il piede.
Deifobo, che caldo il cor di rabbia
Sempre in lui mira, vistolo ritrarsi
A lenti passi, gli avventò, ma indarno
Pur questa volta, il telo che, veloce
Via trasvolando, Àscòlafo raggiunse.
Prole di Marte, e all’ òmero il trafisse.
Ei cadde, e steso brancicò la polve.
Nè del caduto figlio allor veruna
Ebbe notizia il violento Iddio,
Che dal comando di Giove impedito
Stava in quel punto su le vette assiso
Dell’Olimpo, e il copn'a d’oro una nube
Misto agli altri Immortali, a cui vietato
Era dell’ armi il sanguinoso ludo.
Una pugna crudel sul corpo intanto
D’Ascàlafo incomincia. Al morto invola
Dèifobo il bell’ elmo 5 e Merione
Tale sul braccio al rapitor disserra
Di lancia un colpo, che di man gli sbalza
Risonante al terren 1’ aguzzo elmetto.
E qui di nuovo Merton scagliossi
Come fiero avoltojo^ e, dal nemico
Braccio sconfitta dell’ astil la punta ,
Si ritrasse tra’ suoi. Corse al ferito
Il suo german Poh'te^ e, per traverso
L’abbracciando, il cavò dal rio conflitto^
Ed in parte venuto, ove l’auriga
Lungi dall’ armi co’ cavalli il cocchio
In pronto gli tenea, questi il portare
Gemente, afflitto e per la fresca piaga
Tutto sangue la mano, alla cittade.
Cresce intanto la pugna , e al ciel nc .vanno
Immense grida. Enea d’asta colpisce
Nella gola Afaréo Caletorìde,
Che l’ invesU'a di fronte. Riversossi
DaU’ altra parte il capo , e n’ andar seco
L’ elmo e lo scudo , e lui la morte avvolse.
Visto Toone che volgea le terga ,
Antiloco l’ assalta , e al fuggitivo
a8y
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a88
ILIIOE
r. 701*740
Netta incide la vena che pel dosso ,
Quanto è lungo, scorrendo, al collo arriva^
Netta r incide , e resupino ei casca
Nella sabbia, stendendo a' suoi compagni
Ambe le mani. Gli iìi ratto addosso
Àntiloco^ e, delibarmi il dispogliando,
Gli occhi ai Teucri tenea, che, d’ ogni parte
Serrandolo , il lucente ampio pavese
Gli tempestan di dardi; e mai veruno
Di tanti teli disfiorar del fi^o
Di Nèstore il gentil corpo potea;
Ghè da tutti il guardava attentamente
L' Enosigéo Nettunno. Eid il guerriero.
Non che ritrarsi dai nemici, sempre
Coll’asta in moto s’avvolgea fra loro.
Pronto a ferir da lungi e da vicino.
Mentre in cor volge nuovi danni , il vede
L’Asiade Adamante; e, in lui repente
Impeto fatto, colla lancia il fere
A mezza targa. Preservò del Greco
La vita il nume dalle chiome azzurre,
E spezzò la nemica asta , che mezza
Rimase infissa nello scudo a guisa
D’adusto palo, c mezza giacque a terra.
Diede addietro a tal vista il feritore.
Salvandosi fra’ suoi. Ma Merione
Spinse 1’ asta nel ventre al fuggitivo
Fra l’umbilico e il pube, ove del ferro
È mortai la ferita , e lo confisse.
Cadde il confitto su la lancia, e tutto
Si contorcea qual bue cui di ritorte
Funi annodato su pel monte a forza
Strascinano i bifolchi; e tale anch’egli .
Si dibattea; ma il suo penar fu breve;
Chò tosto accorse Merione ; e , svelta
L’ asta dal corpo , l’ acchetò per sempre.
Grande e battuta su le tracie incudi
Alza Elleno la spada , ed alla tempia
Dèipiro fendendo , gli dirompe
L’elmo, e dal capo glielo sbalza iu terra.
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V. 74'-7*» LIBKO TIII aSg
Ruzzolò risonante la celala
Fra le gambe agli Achivi, c fu dii tosto
La raccolse ; ma iicgra eterna notte
Deipiro coperse. Addolorato
Del morto amico il buon minore Alride ,
Contro il regale eroe che a morte il mise ,
Minaccioso avanzossi , alto squassando
L'acuta lancia^ ed Eleno a rincontro
L' arco tese. Affrontarsi ambo i guerrieri ,
Bramosi di vibrar quegli la picca ,
Questi lo strale. Saettò primiero
Di Priamo il figlio , e colpì P altro al petto
Nel cavo del torace. Il rio quadrello
Via volò di risalto ^ e a quella guisa
Che per 1' aja agitato in largo vaglio
Al soffiar dell’ auretta ed alle scosse
Del vagliator sussulta della bruna
Fava o del cece 1’ arido legume ^
Dall’ usbergo cosi di Menelao
Resultò risospinto il dardo acerbo.
Di risposta l’Atridc al suo nemico
Ferì la man che il liscio arco strignea,
E all’ arco stesso la confisse. In salvo
Retrocesse fra’ suoi tosto il ferito ,
Cui penzolava dalla man l’ infisso
Frassineo telo. Glielo svelse alfine
Il generoso Agenore, c la piaga
Destramente fasciò d’ una lanosa
Fionda che pronta il suo scudier gli ^avea.
Al tii'onfante Atride si converse
Pisandro allor di punta ^ e negro fato
A cader lo spigneva in rio certame
Sotto i tuoi colpi, o Menelao. Venuti
Ambo all’ assalto , gittò l’ asta in fallo
11 figliuolo d’Atréo. C(dse Pisandro
Lo scudo ostil^ ma non passollo il telo
Dalla targa respinto c nell’estrema
Parte spezzato^ nondimen gioiniic
Colui nel core, e vincitor si tenne.
Tratto il fulgido brando, allor l'Atride
Mo.sii. Iliade. icj
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ILIADE
i 781*830
390
Àvventossi al nemico^ e questi, all' ombra
Dello scudo, impugnò ferrata e bella
Una bipenne , nel polito e lungo
Manico inserta di silvestre olivo.
Mossero entrambi ad un medesmo tempo.
Al cono dell’ elmetto , irto d’ equine
Chiome, sotto il cimier Pisandro indarno
La scure dechinò \ l’ altro lui colse
Nella fronte, e del naso alla radice.
Crepitò 1’ osso infranto , e sanguinosi
Gli cascàr gli occhi nella polve al piede.
Incurvossi cadendo ^ e Menelao ,
D’ un piè caleato dell’ ucciso il petto ,
L’ armi n’ invola , e glorioso esclama :
Ecco la via , per cui de’ bellicosi
Danai le navi lascerele alfine ,
Perfidi Teucri, ognor di sangue ingordi.
Vi fu poco 1’ aver , malvagi cani ,
Con altra fellonia , con altre offese
Violati i miei lari , e del tonante
Giove ospitai sprezzata la tremenda
Ira , che un giorno svellerà dal fondu
L’ alta vostra città ; poco il rapirmi
Una giovine sposa e assai ricchezza
Da nulla ingiuria offesi , anzi a cortese
Ospizio accolti e accarezzati : or anco
Desio vi strugge di gittar nel mezzo
Delle navi le fiamme, e degli achivi
Eroi far scempio. Ma verrà chi ponga.
Vostro malgrado, a furor tanto il freno.
Giove padre, per certo uomini e Dei
Di saggezza tu vinci, c nondimeno
Da te vien tutto sì nefando eccesso,
D.i te , de’ Teucri difensor , di questa
Sempre d’ oltraggi e d’ ingiustizie amica
Razza iniqua , che mai delle rie zuffe
Di Marte non si sbrama. 11 cor di tutte
Cose alfin sente sazietà , del sonno ,
Della danza, del canto e dell’amore,
Piacer più c.irl che la guerra ; e mai
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™ LIBRO XIII Vt()l
Sazi (li guerra non saranno i Teucri ?
Tolse l’armi, ciò detto, a ipiell’ estinto ,
Di sangue asperse ^ e come in man rimesse
L’ ebbe de' suoi , di nuovo all’ inimico
Volse la faccia nelle prime (Ile.
Fiero 1’ assalse allor di Pileméne
II figlio , Àrpalion , che il suo diletto
Padre alla guerra accompagnò di Troja
Per non mai più redire al patrio lido.
S’avanzò, fulminò l’asta nel colmo
Dello scudo d'Atride ^ e, senza effetto
Visto il suo colpo, s’arretrò, salvando
Fra' suoi la vita, e d’ ogni parte attento
Guatando che noi giunga asta nemica.
Ed ecco dalla man di Mcriione
Una freccia volar che al destro clune
Colse il fuggente , e sotto 1’ osso , accanto
Alla vescica, penetrò diritto.
Caduto sul ginocchio , egli nel mezzo
De’ cari amici spirando giacca.
Steso al suol come verme ^ e in larga vena
II sangue sul terrcn facea ruscello.
Gli fur d’intorno con pietosa cura
I generosi Paflagoni, e lui
Collocato sul carro alla cittade
Conduccan , dolorando. Iva con essi
Tutto in lagrime il padre, e dell' ucciso
Figlio nessuna il consolò vendetta.
Pel morto Arpalion forte crucciossi
Paride che cortese ospite 1’ ebbe
Fra’ Paflagoni un tempo , e dalla cocca
Sfrenò di ferrea punta una saetta.
Era un certo Eucbenòr, dell’ indovino
PolÙde figliuol , uom prode e ricco
E di Corinto abltator, che appieno
Del reo suo fato istrutto, avea di Troja
Veleggiato alle rive. A lui sovente
Detto aveva il buon veglio Polùde ,
Che d’ atro morbo nel paterno tetto ,
O di ferro trojano egli morrebbe
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29«
ILIADE
>. 1^1*900
Fra lu argoliche navi: e, più che morte,
Di tetra infermità l’aspro martire
K degli Achei lo spregio egli temette.
Di Paride lo strai ctjlse costui
Sotto l’ orecchio alla mascella ; e tosto
L’ abbandonò la vita , ed un orrendo
Perpetuo bujo gli coprì le luci.
In questa guisa ardea la pugna, e ancor*
Il diletto di Giove alto guerriero,
Ettore, intesa non avea la strage
Che di sue genti segue alla sinistra
Della battaglia , e che ornai piega U volo
La vittoria agli Achei ; tale è l’ impulso ,
Tale il nerbo e 1’ ardir di che furtivo
Li soccorre Nettunno. A quella parte
Starasi Ettorre , ov’ egli avea da prima
Le porte a forza superato e il muro ,
C rotte degli Achei le dense ille.
Ivi d’Ajace e di Protcsilao
Coronavnn le navi al secco il lido^
E perchè da quel lato era più basso
Edificato il muro, ivi più forte
De' cavalli e de’ fanti era la pugna.
Flj , Beozi , Locrc.si , c colle lunghe
Lor tuniche gl’ lonj c' i chiari Epéi
Ivi eran tutti ^ e tutti a tener lungi
Dalle navi d' Ettorre la rovina
Opravano le mani: e tanti insieme
A rintuzzar dell’ infiammato eroe
Non bastano la furia. Il fior d’Atene
Stassi alle prime file, ed il Petide
Mcncsti'o li conduce , ajutatori
Stichio , Fida c Bìantc. E degli Epéi
Duce Megele e Dracio ed Amfione;
De’ Ftj Medonte e il pugnator Podarce ,
Podarce, nato del Filàcio Ificlo,
-Medonte, d’Oiléo bastarda prole
E d’Ajace fratei , che , dal paterno
Suolo esulando, in Filace abitava,
.Messo a morte il german della matrigna
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LIBRO XIII
■ilio
Eriopide , d’ Qiléo moglicra.
Degli eletti di Ftia questi alla testa,
Giunti ai Beozi, difendean le navi.
Àjace d’ Ollép mai sempre al fianco
Del Telamdnio combattea. Siccome
Due negri buoi d’ una medesma voglia ,
Nella dura maggese il forte aratro
Traggono , c al ceppo delle corna intorno
Largo rompe il sudor , mentre dal solo
Giogo divisi per lo solco eguali
Stampano i passi , e dietro loro il seno
Si squarcia della terra ; a questa immago
Pugnavano congiunti i duo guerrieri.
Molta e gagliarda gioventù seguiva
Il Telamdnio ^ e quando la fatica
E il sudor lo fiaccava, i suoi compagni
Il grave scudo ne prendean. Ma i Locri,
À cui poco durar solca 1' ardire
Nella pugna a piò fermo , d’ Oiléo
L’ audace figlio non seguian. Costoro
Non elmi avean d’equino crine ondanti.
Nè tondi scudi , nè frassinee lance ,
Ma, d’archi solo armati e di ben torte
Lanose fionde, ad Ilio il seguitaro^
E da quest’ archi e queste fiondo in campo
Scagliavano la morte, e de’ Trojan i
Le falangi rompean. Per questo modo ,
Mentre gli Ajaci nella prima fronte
Di bell’ arme precinti alla ruinà
Del fiero Ettór fann’ argine , al lor tergo
Nascosti i Locri , saettando sempre
E frombolando , le ordinanze tutte
Turban de’ Teucri ornai smarriti e rotti.
D’ alta strage percossi allora i Troi ,
Da navi e tende si sarian ritratti
Al ventoso llion, se non volgea
All’animoso Ettdr queste parole
Polidamante : Ettorre, ai saggi avvisi
Tu mal presti l’orecchio. E perchè Giove
Alto ti diede militar favore,
ig4 ILIADE *.
Vuoi tu forse per questo agli altri ir sopra
Di prudenza e consiglio ? Ad un sol tempo
Tutto aver tu non puoi. Di Giove il senno
Largisce a questi la virtù guerriera^
L' arte a quei della danza ; ad altri il suono
R il canto delle musc^ ad altri in petto
Pon la saggezza che i mortai governa
E le città conserva; e sànne il prezzo
Chi la possiede. Or io dirò l'avviso
Che mi sembra il miglior. Per tutto , il vedi ,
Ti cinge il fuoco della guerra. I Teucri ,
Con magnanimo ardir passato il muro ,
Parte coll’ armi già dan volta , c parte
Pugnano ancor , ma pochi incontro a molti ,
R spersi tutti fra le navi. Or dunque
Tu ti ritraggi alquanto, e tutti aduna
Qui del campo ì migliori ^ e , delle cose
Consultata la somma , si decida ,
Se delle navi ritentar si debba
L’assalto, ove pur voglia un qualehe iddio
Dame alfin la vittoria ^ o se più torni
L’ abbandonarle illesi. 11 cor mi turba
Un timor che non paghi oggi il nemico
Il debito di jeri. In quelle navi
Posa un guerricr terribile, che all’ armi
Per mia credenza desterassi in breve.
Piacque ad Ettorre il salutar consiglio ;
R , d’ un salto gittandosi dal carro ,
Gridò: Polidamante, i più gagliardi
Tu qui dunque rattien ^ eh’ io là ne vado
A raddrizzar la pugna; e, dato ai nostri
Buon ordine , farò pronto ritorno.
Disse ; e ratto partì con elevato
Capo, sembiante ad un’ eccelsa rupe ;
E , volando , chiamava alto de' Teucri
E delle schiere collegate i duci ,
Che tosto, udita dell’eroe la voce.
Alla volta correan del Pantoide
Polidamante, del valore amico.
Di Deifoho intanto e del regale
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•1030
LIBRO Xilt
Eleno c deU’As'iade Adamante
E dell’ Irtacid’Asio iva per tutto
Qua e là tra i primi combattenti Ettorrc
Dimandando e cercando. Alfin gli avvenne
Di ritrovarli, ma non tutti ille.si
Nè tutti in vita ; chè domati alcuni
Dal ferro acheo giaeean nanti alle poppe
Cadaveri deformi ; altri tra il muro
Languian feriti di diverso colpo.
Dell’orrendo conflitto alla sinisti'a
Vide egli poscia della bella Argiva
Lo sposo rapitor che i suoi compagni
Confortava alla pugna. Gli fu sopra,
E acerbe gli tonò queste parole :
Ahi ! funesto di donne ingannatore ,
Che di bello non p.orti altro che il viso ,
Dé'ifobo dov’ è? dove son l’ariiii
D’ Eleno, d’Asio, d’ Adamante? dove
Otrionéo? Dal sommo cccd già tutto
Il grand’ Ilio precipita^ e te pure
L’ ultimo danno , o sciagurato , aspetta.
E il bel drudo a rincontro: Ettore, a torto
Tu mi rampogni. In altri tempi io forse
Un trascurato mi mostrai , non oggi.
La madre un vile non mi fe. Dal punto
Che il conflitto attaccasti appo le navi ,
Da quel punto qui fermo e senza posa
Con gli Achei mi travaglio. I valorosi ,
Di che tu chiedi, caddero. Due soli,
Dèifobo ed Eléno, «arabi alla mano
Feriti si partir, sottratti a morte
Certo da Giove. Or dove il cor ti dice.
Guidami : io pronto sognirotti ^ e quanto
Potran mie forze, ti farò, mi spero.
Il mio valor palese. Oltre sua possa.
Benché abbondi il voler, nessuno è forte.
Piegàr quei detti del fratello il core,
E di conserva entrambi ove più ferve
La mischia s’ avvi'àr. Pugnano quivi
E Cebiione e il buon Polidamantc
ILIADE
E il diviii Polifcle e Falce c Ortéo ,
E i Ire d'Ipponon gagliardi figli,
Palmi , Mori ed Ascanio , dal glebosu
Suol d’Ascaiiia venuti il dì precesso,
E spinti all' armi dal voler de' numi.
Come di venti impetuosi un turbo
Dal tuon di Giove generato piomba
Su la campagna, c con fracasso orrendo
Sovra il mar si diffonde^ immensi c spessi
Bollono i fluiti di canuta spuma,
E con fiero mugghiar 1' un l' altro incalza
Al risonante lido \ a questa guisa
In ristretti drappelli, e gli uni agli altri
Succedenti i Trojani e scintillanti
Tutti nell’ armi ne venian su l’ orme
De’ condottieri , e precoiTcali Ellorre ,
Non minor del ten’ibilc Gradivo.
Un tessuto di cuoi tondo broccliiero.
Di molte piastre rinforzato , il prode
Tiensi davanti ^ ed alle tempie intorno
Tutto lampeggia l'agitato elmetto.
Sicuro all’ombra del suo gran pavese
Passo passo ci s’ avanza , c d’ ogni parte
Forar si studia le nemiche file ,
E sgominarle. Ma de’ petti achei
Non si turba il coraggio; e, mossi Ajacc
I larghi passi, a provocarlo il primo :
.Accostati , gli disse : e che pretendi
Tu, fier spavaldo? sgomentar gli Achivi ?
Non siam nell’ arte manial fanciulli ;
E chi ne doma, non se’ tu, ma Giove
Con funesto flagello. Se le navi
Strugger li speri, a rintuzzarti pronte
E noi pur anco abbiani le mani , e tutta
Struggeremo noi pria la tua superba
Cittade. A te predico io poi , che 1’ ora
Non è lontana, che tu stesso in fuga
Manderai preghi a Giove c a tutti i Divi,
Che siau di penna di sparvier più ratti
1 corridori che, difTusc al vento
»•. io6i*io65
LIBftO XIII
»97
Le belle chiome, porteranti a Troja
Entro un nembo di polve. — Avea quel fiero
Ciò detto appena, che alla dritta in alto
Un' aquila comparve. Alzàr le grida,
Fatti più franchi a quell’ augurio , i Greci ;
Ma non fu tardo alla risposta Ettorre :
Stupida massa di carname, Ajace
Millantator, che parli? Eterno figlio
Cosi foss’ io di Giove e dell' angusta -
Giuno, e onorato al par di Palla c Febo,
Come m’ accerto che funesto a tutti
Vi sarà questo giorno: e tu fra’ morti,
Tu medesmo cadrai, se di mia lancia
T’ avrai 1’ ardire d’ aspettar lo scontro.
Rotto da questa e qui disteso il tuo
Vizzo corpaccio, di sua pingue polpa
Gli augci di Troja farà sazi e i cani.
Cosi detto s’ avanza^ e con immenso
Urlo animosi gli van dopo i Teucri.
Dall’ altro lato memori gli Achivi
Della virtù guerriera, e del più scelto
Fiore di Troja intrepidi all’ assalto ,
Misero anch’ essi un alto grido ; e d' ambi
Gli eserciti il clamor feria le stelle
E i raggianti di Giove almi soggiorni.
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LIBRO DECIMOQUARTO
ARGOvsirro
Nc>tor« f udito 0 finMMO dt* cnmfaaUouti , càct dalla nu lauda , a »’ invia par coonaltarn
eoa AganMamma tul perirolo de* Groci. Agamaoueno i nuovamaola di parrre rba *i tonti
la fuga. Uliua ù oppone. Diomada contiglia ai duci di moatrani , beoctic feriti , ai goar*
rieri, e Kwimcnia il coraggio. Nettuaoo ioanimiace ì Giuri. Frattasto Giunone , ottenuto
il cioto di Venere, presentai a Giove sull' Ida j ed invocata I* assùtensa del dio Soobu ,
giunge ad addonnenlare il marito. Dorante il tonno di Giove , Nettunno MxeofTe i Greci ,
i quali fanno orrenda strage dei Trojani. Ettore i ferito eoo un seseo da Ajaec Tdamdnio.
L* eroe è portato wnivivo voreo di Tro^.
De' combattenti udi 1’ alto fracasso
Nèstore in quella che nna colma tazza
Accostava alle labbra; e, d'Escnlapio
Rivolto al figlio: Oh, che mai fia, diss' egli,
Divino Macaoni Presso alle navi
Dell' usato maggiori odo le grida
De' giovani guerrieri. Alla vedetta
Vado a saperne la cagion. Tu siedi
Intanto, e bevi il rubicondo vino.
Mentre i caldi lavacri t'apparecchia
La mia bionda Ecamède, onde del sangue.
Di che vai sozzo, dilavar la gruma.
Del suo figliuol si tolse in questo dire
11 brocchier che giacea dentro la tenda ,
Il fulgido brocchier di Trasiméde
Che il paterno portava. Indi, una salda
Asta d'acuta cuspide impugnata,
Fuor della tenda si sofferma , e vede
Miserando spettacolo : cacciati
In fuga i Greci, e alle lor spalle i Teucri
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V. ai>6o
»99
ILIADE, UBHO XIV
Inseguenti e furenti, e la muraglia
Degli Achei rovesciata. Come quando
II vasto mar s' imbruna , e presentendo
De' rauchi venti il turbine vicino,
Tace l’ onda atterrita , ed in nessuna
Parte si volve, finché d'alto scenda
La procella di Giove; in due pensieri
Cosi del veglio il cor pendea diviso;
Se fra i rapidi carri de' fuggenti
Danai si getti; o se alla volta ei corra
Del duce Atn'de Agamennòn. Lo meglio
Questo gli parve; e s' avviò. Seguia
La mutua strage intanto, e intorno al petto
De' combattenti risonava il ferro
Dalle lance spezzato e dalle spade.
Fuor delle navi gli si féro incontro
I re feriti, Ulisse e ERomede
E Agamennòn. Di questi a fior di lido
Stavan lungi dall' armi le carene.
L' altre, che prime lo toccòr, dedotte
Più dentro alla pianura, eran le navi,
A cui dintorno fu costrutta il muro;
Perocché il lido, benché largo, tutte
Non potea contenerle, ed acervate
Stavan le schiere. Statuiti adunque
L'uno appo l'altro, come scala, i legni
Tutto empieono del lido il lungo seno
Quanto del mare ne chiudean le gole.
Scossi al trambusto, che s'udia, que’duci;
E di saper lo stato impazienti
Della battaglia, ne venian conserti.
Alle lance appoggiati, e gravi il petto
D' alta tristezza. Terror loro accrebbe
Del veglio la comparsa; e Agamennòne,
Elevando la voce: O degli Achei
Inclita luce. Nèstore Neli'de,
Perché lasci la pugna , c qui ne vieni ì
Temo, ohimè! che d' Ettòr non si compisca
La minacciata nel trojan consesso
Fiera parola di non far ritorno
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3oo
ILIADE
6|'Ick>
Nella città, se, pria spenti noi tutti,
Tutte in faville non mettea le navi.
Elcco il detto adempirsi. Eterni Dei!
Dunque in ira son io, come ad Achille,
A tutto il campo acheo si , che non voglia
Più pugnar dell' armata alla difesa?
Ahi ! pur troppo 1’ evento è manifesto ,
Néstor rispose; nè disfare il fatto
Lo stesso tonator Giove potrebbe.
11 muro , che de' legni c di noi stessi
Riparo invitto speravam, quel muro
Cadde; il nemico ne combatte intorno
Con ostinato ardire e senza posa;
Nè , come che tu l’ occhio attento volga ,
Più ti sapresti da qual parte il danno
Degli Achivi è maggior; tanto son essi
Alla rinfusa uccisi , e tanti i gridi ,
Di che 1’ aria risuona. Or noi qui tosto.
Se verun più ne resta util consiglio,
Consultiamo il da farsi. Entrar nel forte
Della mischia non io però v’ esorto ;
Chè mal combatte il battaglicr ferito.
Saggio vegliardo, replicò l’Atrìdc,
Poiché fino alle tende hanno i nemici
Spinta la pugna , e più non giova il vallo
Nè della fossa nè dell' alto muro ,
A cui tanto sudammo, e inviolato
Schermo il tenemmo delle navi e nostro .
Chiaro ne par che al prepossente Giove
Caro è il nostro perir su questa riva.
Lungi d’Argo, infamati. Il vidi un tempo
Proteggere gli Achei ; lui veggo adesso
I Trojani onorar quanto gli stessi
Beati Eterni, e incatenar le nostre
Forze e 1' ardir. Mia voce adunque udite :
Le navi, che ne stanno in secco al primo
Lembo del lido, si sospingan tutte
Nel vasto mare, c tutte sieno in allo
Sull' àncora fermate insin che fitta
Giunga la notte, dal cui velo ascosi
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l01-l4o
LIBRO XIV
3oi
Varar potremo il resto, ove pur sia
Che ne dian tregua dalla pugna i Teucri.
Non è biasmo fuggir di notte ancora
Il proprio danno ^ ed è pur sempre il meglio
Scampar fuggendo, che restar captivo.
Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose :
Àtride, e quale ti fuggì dal labbro
Rovinosa parola ? Imperadore
Fossi oh! tu di vigliacchi, e non di noi.
Di noi, che Giove dalla verde etade
Infine alla canuta agli ardui fatti
Della guerra incitò, finché ciascuno
Vi perisca onorato. E così dunque
Puoi tu de’ Teucri abbandonar l’altera
Città, che tanti già ne costa affanni?
Per dio ! noi dire ^ dagli Achei non s’ oda
Questo sermone , della bocca indegno
D’ uom di senno e scettrato, e, qual tu sei.
Di tante schiere capitano. Io primo
II tuo parer condanno. Arde la pugna,
C tu comandi rJie nel mar lanciate
Sien le navi? Ciò fora un far più certo
De' Trojani il vantaggio , e più sicuro
Il nostro eccidio^ perocché gli Achivi
In quell’opra assaliti, anzi che fermi
Sostener l’ inimico , al mar terranno
Rivolto il viso, a’ Teucri il tergo: e allora
Vedrai funesto, o duce, il tuo consiglio.
Rispose Agamennòn: La tua pungente
Rampogna, Ulisse, mi feri nel core.
Ma mia mente non é, che, lor malgrado,
Traggan le navi in mar gli Achivi^ c s’ ora
Altri sa darne più pensato avviso.
Sia giovine, sia veglio, io l’avrò caro.
Chi darallo, n’é presso (il bellicoso
Tidide ripigliò); né fia mestieri
Cercarlo a lungo, se ascoltar vorrete,
Né , perché d’ anni inferìor vi sono ,
Con disdegno spregiarmi. Anch’io mi vanto
Figlio d’ illustre gcnitor, del prode
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3ol ILIÀDE 'i> >8o
Tidéo, di Cadmo nel terreo sepolto.
Portéo tre figli generò , dell' alta
Galìdone abitanti e di Pleurone,
Agno, Mela ed Eneo, tutti d'egregio
Valor, ma tutti li vincea di molto
11 cavaliero Enéo, padre al mio padre.
Ivi egli visse; ma, da' numi astietto
A gir vagando il padre mio, sua stanza
Pose in Argo , e d' Adrasto a moglie tolse
Una figlia; e signor di ricchi alberghi
E di campi frugiferi per molte
File di piante ombrosi , e di fecondo
Copioso gregge, a tutti ancor gli Argivi
Ei sovrastava nel vibrar dell' asta.
Conte vi sono queste cose, io penso,
Tutte vere; e sapendomi voi quindi
Nato di sangue generoso, a vile
Non terrete il mio retto e franco avviso.
Orsù, crudel necessità ne spinge.
Al campo adunque , tuttoché feriti ,
E perchè piaga a piaga non s' aggiunga ,
Fuor di tiro si resti, ma propinqui
Sì , che possiamo gl' indolenti almeno
Incitar coll' aspetto e colla voce.
Piacque il consiglio; e s' aw'iàr precorsi
Dal re supremo Agameunón. Li vide
Nettunno ; e, tolte di guerricr canuto
Le sembianze, e per man preso l'Àtride,
Fe dal labbro volar queste parole :
Atride, or sì, che degli Achei la strage
E la fuga gioir fa la crudele
Alma d'Achille, poiché tutto l' ira
Gli tolse il senno. Oh possa egli in mal punto
Perire , e d’ onta ricoprirlo un Dio !
Ma tutti a te non sono irati i numi ,
E de' Teucri vedrai di nuovo i duci
Empir di polve il piano , e dalle tende
E dalle navi alla città fuggirsi.
Disse; c corse, e gridò quanto di nove
O dieci mila combattenti alzarsi-
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>*'->» LIBRO XIV 3oj
Potrìa, nell'atto d’ azzuffarsi , il grido:
Tanto fu l’ urlo che dal vasto petto
L' Enosigéo mandò. Risorse in seno
Degli Achei la fortezza a cpiella voce,
C il desio di pugnar senza riposo.
Su le vette d’Olimpo in aureo trono
Sedea Giono; e di là visto il divino
Suo cognato e fi^tel che in gran faccenda
Per la pugna scorrea, gioinne in core.
Sovra il giogo maggior scórse ella poscia
Dell’irrigua di fonti Ida seduto
L’ abborrito consorte; e in suo pensiero
L’ augusta Diva a ruminar si mise
D’ ingannarlo una via. Calarsi all’ Ida
In tutto il vezzo della sua persona,
Inflammarlo d’amor, trarlo rapito
Di sua beltà nelle sue braccia , e dolce
Nelle palpebre e nell’ accorta mente
Insinuargli il sonno: ecco il partito
Che le parve il miglior. Tosto al regale
Suo talamo s’avvia, che a lei l’amato
Figlio Vulcano fabbricato area
Con salde porte, e un tal serrarne arcano,
Che aperto non 1’ avrebbe iddio veruno.
Entrowi; e, chiusa la lucente soglia.
Con ambrosio licor tutto si terse
Pria l’amabile corpo, e d’oleosa
Essenza l’irrigò, divina essenza
Fragrante sì, che, negli eterni alberghi
Del Tonante agitata, e cielo e terra
D’ almo profumo riempia. Ciò fatto,
Le belle chiome al pettine commise,
E di sua mano intorno all’immortale
Augusto capo le compose in vaghi
Ondeggianti cincinni. Indi il divino
Peplo s'indusse che Minerva avea
Con grand’arte intessuto, c con aurate
Fulgide fibbie assicurollo al petto.
Poscia i bei fianchi d’ un cintiglio a molte
Frange ricinse, c ai ben forati orecchi
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3o4
ILUDE
V. 32i-2(>0
I gemmati sospese c rilucenti
Suoi ciondoli a tre gocce. Una leggiadra
E chiara come sole intatta benda
Dopo questo la Diva delle Dive
Si ravTobe alla fronte. Al piè gentile
Àlfin legossi i bei coturni^ e, tutte
Abbigliate le membra, uscì pomposa;
Ed in disparte Venere chiamata,
Cosi le disse: Mi sarai tu, cara,
D’ una grazia cortese? u meco irata ,
Perch' io gli Acbivi , e tu li Teucri aiti ,
Negarmela vorrai ? — Parla , rispose
L' alma figlia di Giove : il tuo desire
Manifestami intero , o veneranda
Saturnia Giuno. Mi comanda il core
Di far tutto (se il posso, e se pur lice )
II tuo voler, qual sia. — Dammi, riprese
La scaltra Giuno , 1’ amoroso incanto ,
Che tutti al dolce tuo poter soggetta
I mortali e gli Dei. Dell’alma terra
Ai fini estremi a visitar men vado
L’ antica Tcti e 1’ Oceàn , de’ numi
Gencrator, che presami da Rea,
Quando sotto la terra e le profonde
Voragini del mar di Giove il tuono
Precipitò Saturno, mi nudriro
Ne’ lor soggiorni , e m’ educar con molta
Cura cd afietto. A questi io vado, e solo
Per ricomporne una difficil lite ,
Ond'ei da molto a gravi sdegni in preda
E di letto e d’ amor stansi divisi.
Se eon parole ad acchetarli arrivo
E a rannodarne i cuori, io mi son certa
Che sempre avranmi c veneranda c cara.
E l’ amica del riso Citeréa :
Non lice, replicò, nè dòssi a quella
Che del tonante Iddio dorme sul petto.
Far di quanto ella vuol niego veruno.
Disse; e dal seno il ben trapunto e vago
Cinto si sciolse, in che raccolte c chiuse
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9. a6i 3oo
LIBRO XIV
3o5
Erano tutte le lusinghe. V' era
D’amor la voluttà, v’ era il desire
E degli amanti il favellio segreto,
Quel dolce favellio eh’ anco de’ saggi
Ruba la mente. In man gliel pose, c disse;
Prendi questo mio cinto, in che si chiude
Ogni dolcezza^ prendilo, e nel seno
Lo ti nascondi , c tornerai , lo spero ,
Tutte ottenute del tuo cuor le brame.
L’alma Giulio sorrise, e di contento
Lampeggiando i grand’ occhi in quel sorriso ,
Lo si ripose in seno. Alle paterne
Stanze Ciprigna incamminossi : e Giuno
Frettolosa lasciò l’ olimpie cime,
E la Pieria sorvolando e i lieti
Emaz) campi , le nevose vette
Varcò de’ trac) monti , e non toccava
Col piè santo la terra. Indi, dell’Àto
Superate le rupi, all’ estuoso
Ponto discese, e nella sacra Lenno,
Di Toante città, rattenne il volo.
Ivi al fratello della Morte, al Sonno
N’andò, lo strinse per la mano, c disse:
Sonno, re de’ mortali e degli Dei,
S’ unqua mi festi d’ un desio contenta.,
Or n’ è d’ uopo , e saprotti eterno grado.
Tosto ch’io l'abbia fra mie braccia avvinto,
M'addormenta di Giove, amico Dio,
Le fulgide pupille: ed io d’un seggio
D’ aiuro incorrotto ti farò bel dono ,
Che lavoro sarà maraviglioso
Del mio figlio Vulcan, col suo sgabello.
Su cui si posi a mensa il tuo bel piede.
Saturnia Giuno, veneranda Dea,
Rispose il Sonno, agevolmente io posso
Ogni altro iddio sopir, ben anche i flutti
Del gran fiume Oceàn , di tutte cose
Generatore; ma il Saturnio Giove
Nè il toccherò nè il sopirò, se tanto
Non comanda egli stesso. 1 tuoi medesmi
Mosti. lUtde. io
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3otì
ILIADI:
3oi>3^o
Cenni di questo m’ assennar quel giorno
Ch' Ercole il suo gran figlio , Ilio distrutto ,
Navigava da Troja. Io su la mente
Dolce mi sparsi dell’ Egioco Giove,
E r assopii. Tu intanto, in tuo segreto
Macchinando al suo figlio una mina ,
Di fieri venti sollevasti in mare
Una negra procella, e lui sviando
Dal suo cammin, spingesti a Coo, da tutti
1 suoi cari lontano. Àrse di sdegno.
Destatosi, il Tonante, e per 1’ Olimpo
Scompigliando i Celesti, in cerca andava
Di me fra tutti; e avria dal ciel travolto
Me meschino nel mar, se l'alma Notte,
De’ numi domatrice e de’ mortali ,
Non mi campava fuggitivo. Ei poscia.
Per lo rispetto della bruna Diva,
Placossi. E salvo da quel rischio appena
Vuoi che con esso a perigliarmi io torni ?
Di periglio che parli? e di che temi?
Gli rispose Giunon ; forse t’ avvisi ,
Che al par del figlio, per cui sdegno il prese,
Giove i Teucri protegga ? Or via , mi segui ;
Ch’ io la minore delle Grazie in moglie
Ti dai'ò , la vezzosa Pasitéa ,
Di cui so che sei vago e sempre amante.
Giuralo per la sacra onda di Stige,
Tutto in gran giubilio ripiglia il Sonno;
E 1’ alma terra d’ una man , coll’ altra
Tocca del mar la superficie; e quanti
Stansi intorno a Saturno inferni Dei
Testimoni ne sian , che mia consorte
Delle Grazie farai la più fanciulla.
La gentil Pasitéa, cui sempre adoro.
Disse; e conforme a quel desir giurava
La bianca Diva, e i sotterranei numi
Tutti invocava, che Titani han nome.
Fatto il gran sacramento, abbandonare
D' Imbro e di Leruio le cittadi, e cinti
Di densa nebbia divorar la via.
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». 34i ^«<i libro »iv 3o7
D’Ida, allrice di belve e di ruscelli,
Giunti alia falda, uscir della marina
Alla punta lettéa. Prcser leggieri
Del monte la salita, e della selva
Sotto i lor passi si scotea la cima.
Ivi il Sonno arrestossi; e, per celarsi
Di Giove agli occhi, un alto abete ascese,
Che sovrana innalzava al cici la cima.
Quivi s' ascose tra le spesse fronde
In sembianza d' arguto augel montano,
Che noi Cimindi , e noman Calci i numi.
Con sollecito piede intanto Giuno
11 Gàrgare salia. La vide il sonnnu
Delle tempeste adunatore, e pronta
Al cor gli corse l’amorosa fiamma.
Siccome il dì che , de’ parenti al guardo
Sottrattisi, gustàr commisti insieme
La furtiva d’ amor prima dolcezza.
Si fece incontro alla con.sorte , e disse:
Giulio, a che vieni dall’Olimpo, c senza
Cocchio e destrieri? — E a lui la scaltra: lo vado
Dell’ alma terra agli ultimi confini
A visitar de’ numi il genitore
Oceano e Teti, che ne’ loro alberghi
Con grande cura m’ educar fanciulla.
Vado a comporne la discordia: ei sono
E di letto e d’ amor per ire acerbe
Da gran tempo divisi. Alle radici
D’ Ida lasciati ho i miei destrier, che ratta
Su la terra e sul mar mi porteranno.
Oi' qui vengo per te; chè meco irarti
Non dovessi tu poi, se taciturna
Del vecchio iddio n'andassi alla magione.
Altra volta v’andrai, Giove rispose:
Or si gioisca in amoroso amplesso;
Chè nè per donna nè per Dea giammai
Mi si diffuse in cor fiamma sì viva:
Non quando per la sposa Issìonca,
Che Piritóo, divin senno, produsse.
Arsi d’amor; non quando alla gentile
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3o8
ILUDK
Figlia d’ Acrisie generai Perseo,
Prestantissimo eroe; nè quando Europa
Del diviii Rndamanto e di Minosse
Padre mi fece. Nè le due di Tebe
Beltà famose, Sémelc ed AIcmena,
D' Ercole questa geuitrice, e quella
Di Bacco de’ mortali allegratore^
Nè Cerere la bionda, nè Latona,
Nè tu stessa giammai, siccome adesso.
Mi destasti d’ amor tanto disio.
E l’ inganncvol Diva : Oh che mai parli ,
Importuno! Ascoltar vuoi tu d’amore
Le fantasie qui d’ Ida in su le vette.
Dove tutto si scorge? E se qualcuno
Degli Dei ne mirasse, e agli altri Eterni
Cónto lo fésse, rientrar nel cielo
Con che fronte ardirei ? Ciò fora indegno.
Pur se vera d’ amor brama ti punge ,
Al talamo n’andiam, che il tuo diletto
Figlio Vulcan ti fabbricò di salde
Porte: e quivi di me fa il tuo volere.
Nè d’ uom mortale nè d’ iddio veruno
Lo sguardo ne vedrà, Giove riprese.
Diffonderotti intorno un’ aurea nube
Tal , che per essa nè del Sol pur anco
La vista passerà quantunque acuta.
Disse ^ ed in grembo alla consorte il 6glio
Di Saturno s’ infuse : e 1’ alma terra
Di sotto germogliò novelle erbette,
E il rugiadoso loto e il fior di croco
E il giacinto, che in alto li reggea
SoQice e folto. Qui corcarsi, e densa
Li ricopriva una dorata nube.
Che lucida piovea dolce rugiada.
Sul Gàrgare così quoto dormia
Giove in braccio alla Dea , preda d' amore
E del soave Sonno, che veloce
Corse alle navi ad avvisarne il nume
Scotitor della Terra-, e a lui venuto ,
Con presto favellar: T’affretta, ci disse.
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. ^ji-4fio J-'in'o XIV 3og
A soccorrer gli Achivi, o re Ncttunno;
E almeu per poco vincllor li rendi ,
Fincbè Giove si dorme. Io lo ricinsi
D'un tenero sopor mentre, ingannato
Dalla consorte, in seno le riposa.
Sparve il Sonno, ciò detto, e de' mortali
Su l’ altere città l’ali distese.
Allor Nettunno, d’ aitar bramoso
Più che prima gli Achei, diessi nel mezzo
Alle file di fronte, alto gridando:
Achivi , lascerem di Priamo al figlio
Noi dunque il vanto di novel trionfo,
E la gloria d’ averne arse le navi ?
Ei certo lo si crede, e vampo mena.
Perchè d’Achille neghittosa è l’ ira.
Ma d'Achille non fia molto il bisogno ,
Se noi far opra delle man sapremo,
E alternarci gli ajuti. Or su; concordi
Segniam tutti il mio detto : i più sicuri
E grandi scudi, che nel campo sièno,
Imbracciamo, c copriam de’ più lucenti
Elmi le teste, e, le più lunghe picche
Strette in pugno, marciam: io vi precedo;
Nè per forte eh’ ei sia 1’ audace Ettorre ,
L’impeto nostro sosterrà. Chiunque
È guerrier valoroso, e di leggiero
Scudo si copre, al men valente il ceda,
E allo scudo maggior sottentri ei stesso.
Obbedir tutti al cenno. I re medesmi
Tidide, Ulisse e Agaroenndn, sprezzate
Le lor ferite, in ordinanza a gara
Poncan le schiere, e via dell’ armi il cambio
Per le file facean : le forti al forte ;
Al peggior le peggiori. E poiché tutti
Di lucido metallo la persona
Ebber coverta , s’ avviar. Nettunno
Li precorrca, nella robusta mano
Sguainata portandosi una lunga
Orrenda spada , che parca di Giove
La folgore, c mettea nel cor paura.
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3 IO ILIADE . 461.500
Misero quegli ehe la scontra in guerra!
Dall' altra parte il trojan duce i suoi
Pone ci pure in procinto ^ e senza indugio
L'illustre Ettorrc cd il ceruleo Dio,
L’uno i Greci incorando e l'altro i Teucri,
Una 6era attaccar pugna crudele.
Gonfiasi il mare, c i padiglioni innonda
E gli argivi navigli , c con immenso
Clamor si viene delle schiere al cozzo.
Non cosi la marina onda rimugge
Dal tracio soffio flagellata al lido ^
Non così freme il foco alla montagna.
Quando va furibondo a divorarsi
L’ arida selva ^ nè d’ eccelsa quercia
Rugge si fiero fra le chiome il vento ,
Come orrende de’ Teucri e degli Achei
Nell’ assalirsi si sentian le grida.
Contro Ajace, che voltagli la fronte,
Scaglia Ettorre la lancia, e lo colpisce
Ove del brando e dello scudo il doppio
Baltco sul petto si distende: c questo
Dal colpo lo salvò. Visto uscir vano
Ettore il telo , di rabbia fremendo ,
In securo fra’ suoi si ritraca.
Mentr’ei recede, il gran Tclamonidc
Ad un sasso, de’ molti che ritegno
Delle navi giacean sparsi pel campo
De’ combattenti al piè, dato di piglio,
L’ avventò , lo rotò come palèo,
E sul girone dello scudo al petto
L’ avversario ferì. Con quel fragore ,
Che dal foco di Giove fulminata
Giù ruma una quercia, e grave intorno
Pel grave zolfo si diffonde il puzzoj
L’ arator, che cadérsi accanto vede
La folgore tremenda , imbianca e trema^
Così stramazza Ettór*, l'asta abbandona
La man, ma dietro gli va scudo ed elmo,
E rimbombano ranni sul caduto.
V' accorsero con alti urli gli Achei,
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LIBRO XIV
r. SOI'S^O
3 1 1
Strascinarlo sperandosi, e di strali
Lo tempestando; ma nessun ferirlo
Poteo; chè ratti gli fér serra intorno
I più valenti, Enea, Polidamante,
Àgénore, e de’ Licj il condottiero ,
Sarpedonte con Glauco; c nullo in somma
De’ suoi l’abbandonò; ch’altri gli scudi
Gli anteposero, e lunge altri dall’ armi
L' asportlr su le braccia a’ suoi veloci
Destrìer , che fuori della pugna a lui
Tenea pronti col cocchio il fido auriga.
Volàr questi, e portàr 1’ eroe gemente
Verso 1’ alta città; ma giunti al guado
Del vorticoso Xanto, ameno fiume
Generato da Giove, ivi dal carro
Posàrio a terra; gli spruzzar di fresca
Onda la fronte; ed ei rinvenne , e aperte
Girò le luci intorno, e, sui ginocchi
Suffulto, vomitò sangue dal petto.
Ma di nuovo all’ indietro in sul terreno
Riversossi; e, coll’alma ancor dal colpo
Doma , oscurarsi all’ infelice i lumi.
Gli Achei , veduto uscir del campo Ettorre ,
Si fér più baldi addosso all’ inimico ;
E primo Ajacc d’ Oiléo d’ assalto
Satnio ferì, che Nàide gentile
Ad Enopo pastor lungo il bel fiume
Satnioente partorito avea.
Lo colpi coll’acuta asta il veloce
Oilide nel lombo ; ei resupino
Si versò nella polve , e intorno a lui
Più che mai fiera si scaldò la zufia.
A vendicar l’estinto oltre si spinge
Polidamante; e tale a Protenorre,
Figliuol d’Aréilico , un colpo libra ,
Che tutto la gagliarda asta gli passa
L’omero destro. Ei cadde, c il suol sanguigno
Colla palma ghermì. Sovra il caduto
Menò gran vanto il vincitor , gridando;
Dalla man del magnanimo Pantide
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ILIADE
». 5^I-58o
3|3
Non USCÌ, panni, indarno il telo; e certo
Lo raccolse nel corpo un qualche Acheo,
Che appoggiato a quell' a.sta or scende a Fiuto.
Feri gli Achivi di dolor quel vanto ^
Più che tutti ferì 1’ alma del grande
Telamonide, al cui fianco caduto
Era quel prode. E tosto al borioso,
Che indietro si traca , la fulgorante
Asta scagliò. Polidamantc a tempo
Schivò la morte con un salto obliquo ;
E riccvella (degli Dei tal era
L’aspro decreto) 1’ antenóreo figlio,
Archiloco. Lo colse il fatai ferro
Alla vertebra estrema , ove nel collo
S’innesta il capo, e ne precise il doppio
Tendine. Ei cadde, e del meschin la testa ^
Culla bocca davanti e le narici ,
Prima a terra n’andò, che la persona.
Alto allora, a quel colpo, Ajaec esclama:
Polidamantc, ubi guarda, e dinne il vero.
Non vai egli Protcnorc quest’ altro,
Ch’io qui posi a giacer? Ned ci mi sembra
Mica de’ vili , nè d’ ignobil seme ,
Ma d’Antenore un figlio, o suo germano;
Sì n’ ha l’ impronta della razza in viso.
Così parlava infinto , conoscendo
Ben ci 1’ ucciso. Addolorarsi i Teucri;
Ma del fratello vindice Acamante,
A Prómaco bcózio, che 1’ estinto
Traea pc’ piedi, fulminò di lancia
Tale un subito colpo, che lo stese.
Alto allor grida l’ uccisor superbo :
O voi guerrieri da balestra , e forti
Sol di minacce; c voi pur anco, Argivi,
Morderete la polve , e non saremo
Noi soli al lutto. Dalla mia man domo
Mirate di che sonno or dorme il vostro
Prómaco , c paga del fratello mio
Tosto lo sconto. Perciò preghi ognuno
Di lasciar dopo sè vendicatore
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«r. 58i-6so
LIBRO XIV
3i3
Di sua morte un firatel nel patrio tetto.
Destò quel vanto negli Achei lo sdegno.
Sovra ogni altro crucciossi il bellicoso
Peneléo. Si scagliò questi con ira
Contro Àcamante , che del re 1’ assalto
Non attese^ ed il colpo a lui diretto
Ilionéo percosse, unica prole
Di Forbante , che ricco era di molto
Gregge ^ e Mercurio , che d’ assai l’ amava ,
Di dovizie fra’ Troi 1’ avea cresciuto.
Il colse Peneléo sotto le ciglia
Deir occhio alla radice ; e , la pupilla
Schizzandone , passar l’ asta gli fece
Via per 1’ occhio alla nuca. Ilionéo
Assiso cadde colle man distese;
Ma, stretta Peneléo l’acuta spada,
Gli recise le canne, e il mozzo capo,
Coll’ elmo e 1’ asta ancor nell’ occhio infissa ,
Gli mandò nella polve. Indi, l’alzando
Languente in cima alla picca e cadente
Come lasso papavero , ai nemici
Lo mostra , e altero esclama : In nome mio
Dite, o Teucri, del chiaro Ilionéo
Ai genitor, che per la casa innalzino
Il funebre ulular, da che nè jiure
Di Prdmaco , figliuol d’Alegenorre ,
La consorte potrà del caro aspetto
Del marito gioir, quando da Troja
Fai'em ritorno alle paterne rive.
Si disse ; e tutti impallidir di tema ,
E col guardo ciascun giva cercando
Di salvarsi una via. Celesti Muse,
Or voi ue dite chi primier le spoglie
Cruente riporlo , poi che agli Achivi
Fe piegar la vittoria il re Nettunno.
Primiero Ajace Telamónio uccise
De" forti Misj il duce Irzio Girti’de ;
Antiloeo spogliò Falce e Merméro;
Da Mcrion fu spento Ippozionc
Con Mori; a Protoone c Perifete
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3.4
p.
ILIADE, LIBRO IV
Teucro diè moirte^ Menelao nel ventre
Iperénore colse, e dalla piaga
Tutte ad un tempo useir le lacerate
Intestina e la vita. Altri più molti
Ne spense Àjace d' Odèo \ che nullo
Ratto al paro di lui gli spaventati
Fuggitivi inseguia, quando ne’ petti
Della fuga il tcrror Giove mettea.
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LIBRO DECIMOQUINTO
AHGOMEHTO
Giovr ti riirfgliii. Egli vrdc i Grcrt che * «luUitt da Netlunno , mrttooo in rotta t Tro*
jani. Garràrc la rontortr. Parole della Dea oel contetio dei Nomi. Iride h maiulata «la
Giove a nehiamare Neltuoou dalla battaglia. A{iollo, per volere del padre, scende a ravvi*
vare le r«>ne di FUore. I.0 stetto Iddio precede 1* eroe nel romhatlimrnto ) e rovescia gli
avanti del muro. Terribile pugna ionanii alle navi. Ajare colla tua lancia tiene lontani Et-
tore ed i Trojani , ebe sono sul punto di mettere il fuoco ncUe navi ntedetioie-
Ma poiché il vallo superavo e il fosso
Con molta di lor strage, i fuggitivi,
Nel viso smorti di terror, fermarsi
Ai vóti cocchi ^ e Giove in quel momento
Sull’ Ida risvegliossi accanto a Giuuo.
Surse , stette , e gli Achei vide e i Trojani ,
Questi incalzati, c quei coll’ aste a tergo
Incalzanti, e tra loro il re Nettunno.
Vide altrove prostrato Ettore, e intorno
Stargli i compagni addolorati, ed esso
Del scutimento uscito, e dall’ anelo
Petto a gran pena traendo il respiro,
Nero sangue sboccar^ chè non 1’ avea
Certo il più fiacco degli Achei percosso.
Pietà sentinne nel vederlo il padre
De’ mortali e de’ numi, e con oblitpio
Terribil occhio guatò Giuno, e disse:
Scaltra malvagia, la sottìl tua frode
Dalla pugna cessar fe il divo Ettorre,
E i Trojani fuggir. Non so perdi’ io
ILIADE
». 3I<^
3 16
Or non t' afTen-i , e col flagel non faccia
A te prima saggiar del dolo il frutto.
E non rammenti il di eh’ ambe le mani
D’ aureo nodo infrangibile t’ avvinsi ,
E alla celeste vòlta con due gravi
ineudi al piede penzolon t’appesi?
Fra r atre nubi nell’ immenso vóto
Tu pendola ondeggiavi, c per l’eccelso
Olimpo ne fremean di rabbia i Numi ,
Ma sciarti non potean^ chè qual di loro
Afferrato io in’ avessi, giù dal cielo
L’ avrei travolto semivivo in terra.
Nè ciò tutto quetava ancor la bile
Che mi bollia nel cor, quando, commosse
D' Ercole a danno le procelle e i venti.
Tu pel mar 1’ agitasti , e macchinando
La sua rovina, lo sviasti a Coo,
Donde io salvo poi trassi il travagliato
Figlio, e in Argo il raddossi. Ora di queste
Cose ben io farò che ti sovvegna,
Onde svezzarti dagl’ inganni, e tutto
Il prò mostrarti de’ tuoi falsi amplessi.
Raccapricciò d’ orror la veneranda
Giuno a que’ detti -, e : Il ciel , la terra attesto
( Dicssi a gridare) e il sotterraneo Stige,
Che degli Eterni è il più tremendo giuro ,
Ed il sacro tuo capo, e l’illibato
D' ogni spergiuro maritai mio letto :
Se agli Acbivi soccorse e nocque ai Teucri
11 re Nettunno , non fu mio consiglio ,
Ma did suo cor spontaneo moto , e piòta
De’ mal condotti Argivi. Esorterollo
Anzi io stessa a recarsi, ovunque il chiami.
Terribile mio sire, il tuo comando.
Sorrise Giove , e replicò : Se meco
Nel senato de’ numi, augusta Giuno,
In un solo voler consentirai,
Cousentiravvi (c sia diversa pure
La sua mente ) ben tosto anco Nettunno.
Or tu , se brami che per prov.i io vegga
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9. 6i-ioo
LIBRO XV
3i;
Sincero il tuo parlar, rimonta in cielo,
E qua m’ invia sull’ Ida Iri ed Apollo.
Iri nel campo degli Achei discesa
A Nettunno farà 1’ alto precetto
D’ abbandonar la pugna , e di tornarsi
Ai marini soggiorni. Apollo all’ armi
Ettore desterà, novello in petto
Spirandogli vigor sì, che sanato
D’ ogni dolore, fra gli Achei di nuovo
Sparga la vile paurosa fuga,
E gl' incalzi così, che fra le navi
Cadan , fuggendo , del Pelidc Achille.
Questi allor nella pugna il suo diletto
Patroclo manderà , ehe , morta in campo
Multa nemica gioventù eoi divo
Mio 6glio Sarpedon, morto egli stesso
Cadrà , prostrato dall’ ettórea lancia.
Dell’ucciso compagno irato Achille
Spegnerà l’uccisore; e da quel punto
Farò, che sempre sian respinti i Teucri,
Finché per la divina arte di Palla
11 superbo Ih’on prendan gli Achei.
Nè r ire io deporró , nè che veruno
Degli Dei qui l’argive armi soccorra
Sosterrò, se d’Achille in pria non veggo
Adempirsi il desio. Così promisi ,
E le promesse confermai col cenno
Del mio capo quel dì, che, i mici ginocchi
Teti abbracciando , d’ onorar pregommi
Coll’ eccidio de’ Greci il suo gran Aglio.
Disse ; e la Diva dalle bianche braccia
Obbediente dall’ idea montagna
Air Olimpo salì. Colla prestezza , ,
Con che vola il pcnsier del viatore ,
Che, scorse molte terre, le rianda
In suo secreto , e dice ; Io quella riva ,
Io quell’altea toccai ; colla medesma
Rattezza allor la veneranda Giuno
Volò dall’ Ida sull’eccelso Olimpo,
E sopravvenne agl’ Immortali , accolti
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3i8
ILIADE
K.lQl'l^n
Nelle stanze di Giove. Alzarsi i Numi
Tutti al vederla, e coll’ ambrosie tazze
L’accolsero festosi. Ella, negletta
Ogni altra offerta, la man porse al nappo
Àppresentato dalla bella Temi,
Che primiera a incontrar corse la Dea,
Così dicendo: Perchè riedi, o Giuno?
Tu ne sembri atterrita. 11 tuo consorte
N’ è forse la cagion? — Non dimandarlo,
Giuno rispose. Quell’ altero c crudo
Suo cor tu stessa già conosci, o Diva.
Presiedi ai nostri almi convivj , e tosto
Qui con tutti i Celesti udrai di Giove
Gli aspri comandi, che, per mio parere,
De’ mortali fra poco e degli Dei
Le liete mense cangeranno in lutto.
Tacque ^ e s’ assise. Contristarsi in cielo
I Sempiterni^ e Giuno un cotal riso
A fior di labbro aprì, ma su le nere
Ciglia la fronte non tornò serena.
Ruppe alfin disdegnosa in questi detti :
Oh noi dementi! Inetta è la nostr’ ira
Centra Giove, o Celesti, e il faticarci
Con parole a frenarlo o colla forza,
È vana impresa. Assiso egli sull’ Ida ,
Nè gli cale di noi , nè si rimove
Dal suo proposto ^ chè gli Eterni tutti
Di fortezza ei si vanta e di possanza
Immensamente superar. Soffrite
Quindi in pace ogni mal che più gli piaccia
Inviarvi a ciascuno. E a Marte , io credo ,
II suo già tocca: Ascàlafo, il più caro
D' ogni mortale al poderoso iddio.
Che proprio sangue lo confessa, è spento.
Si battè colle palme la robusta
Anca Gradivo, c in suon d’alto dolore
Gridò: Del cielo cittadini eterni.
Non mi vogliate condannar, s’ io scendo
L’ ucciso figlio a vendicar , dovesse
Steso fra’ morti il fulmine di Giove
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LfORO XV
3|Q
Là tra il sangue gittarmi e Ira la polve.
Disse ^ e alla Fuga impose e allo Spavento
D' aggiogargli i destrieri ^ e di fiammanti
Ai'mi egli stesso si vestiva. E allora
Di ben altro furor contro gli Dei
Di Giove acceso si sarebbe il core,
Se per tutti i Celesti impaurita
Non si spiccava dal suo trono, e ratta
Fuor delle soglie non correa Minerva
A. strappargli di fronte il rilucente
Elmo, e lo scudo dalle spalle; e a forza
Toltagli l’asta dalla inan gagliarda,
La ripose, e il garrì: Cieco furente.
Tu se’ perduto. Per udir non hai
Tu più dunque gli orecchi, e in te col senno
Spento e pure il pudor? Dell’ alma Giuno ,
Ch’or vien da Giove, non intendi i detti?
Vuoi tu forse, insensato, esser costretto
A ritornarti doloroso al cielo ,
Fatto di molti mali un rio guadagno,
E creata a noi tutti alta sciagura ?
Perciocché , de’ Trojani e degli Achei
Abbandonate le contese, ei tosto
Risalendo all’ Olimpo , in iscompiglio
Metterà gl’ Immortali; ed afferrando
L’ un dopo 1’ altro , od innocenti o rei ,
Noi tutti punirà. Del figlio adunque
La vendetta abbandona , io tei comando ;
Ch’ altri di lui più prodi o già perirò ,
O periranno. Involar tutta a morte
De’ mortali la schiatta è dura impresa.
Si dicendo , al suo seggio il violento
Dio ricondusse. Fuor dell’ auree soglie
Giuno intanto a sé chiama Apollo cd fri
La messaggiera , e lor presta si parla :
Ite, Giove l' impon, veloci all’ Ida;
Arrivati colà, fissate il guardo
In quel volto, e ne fate ogni volere.
Ciò detto, indietro ritornò l’augusta
Giuno, e di nuovo si compose in trono.
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320
rLIADE
r- i8i-aso
Quei mossero volando ; c , su I' altrice
Di fontane c di belve Ida discesi ,
Di Saturno trovar 1’ onniveggente
Figlio sull’ erto Gàrgaro seduto ^
E circonfusa intorno il coronava
Un’ odorosa nube. Essi , del grande
Di nembi adunator giunti al cospetto ,
Fermarsi : e satisfatto egli del pronto
Loro obbedir della consorte ai detti.
Ad Iri in prima il favellar rivolto ;
Va, disse, Iri veloce, c al re Nettunno
Nunzia verace il mio comando esponi.
Digli che il campo ei lasci e la battaglia,
E al cicl si torni o al mar. Se il cenno mio
Ribelle sprezzerà , pensi ben seco ,
Se , benché forte , s’ avrà cor che basti
A sostener l’assalto mio; ricòrdi
Che primo io nacqui , e che di forza il vinco ,
Quantunque egli usi a me vantarsi eguale ,
A me che tutti fu tremar gli Dei.
Obbedì la veloce Iri, e discese
Dalle montagne idée. Come sospinta
Dal fiato d’aquilon sercnatorc
Dalle nubi talor vola la neve
O la gelida grandine ^ a tal guisa
D’ Ilio sui campi con rapido volo
Iri calossi^ e, al divo Enosigéo
Fattasi innanzi, così prese a dire:
Ceruleo Nume, messaggiera io vegno
Dell’ Egioco signore. Ei ti comanda
D’ abbandonar la pugna , e di far tosto
O agli alberghi celesti o al mar ritorno.
Se sprezzi il cenno, ed obbedir ricnsi.
Minaccia di venirne egli medesmo
Teco a battaglia. Ti consiglia quindi
D’ evitar le sue mani : e ti ricorda
Ch’ ei d' ctade è maggiore e di fortezza ,
Quantunque cgual vantarti oso tu sia
A lui che mette agli altri Dei terrore.
Arse d'ira Nettunno, c le rispose:
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31I-26o
unto XV
Ì3 I
Ch’ ei sia possente , il so : ma sue parole
Sono superbe, se forzar pretende
Me suo pari in onor. Figli a Saturno
Tre germani siam noi da Rea prodotti ,
Primo Giove, io secondo, e terzo il sire
Dell’ Inferno , Pluton. Tutte divise
Fur le cose in tre parli , e a ciasebeduno
11 suo regno sortì. Diede la sorte
L’ imperio a me del mar , dell' ombre a Pluto ,
Del cielo a Giove negli aerei campi
Soggiorno delle nubi. Olimpo c Terra
Ne rimaser comuni , c il sono ancora.
Non farò dunque il suo voler ^ si goda
Pur la sua forza, ma si resti cheto
Nel suo regno , nè tenti or colla destra
Come un vile atterrirmi. Alle fanciulle,
Ài bamboli suoi figli il tcrror porti
Di sue minacce, e meglio fia. Tra questi
Almen si avrà chi a forza l’ obbedisca.
Dio del mar, la veloce Iri soggiunse.
Questa dunque vuoi tu che a Giove io rechi
Dura e forte risposta ? e raddolcirla
In parte almeno non vorrai ? De' buoni
Pieghevole è la niente^ c chi primiero
Nacque, ha ministre, tu lo sai, l’ Erinni.
Tu parli, o Dira, il ver, l’altro riprese;
E gran ventura è messaggier che avvisa
Ciò che più monta. Ma di sdegno avvampa
n cor , quand’ egli minaccioso oltraggia
Me suo pari di grado e di destino.
Pur questa volta porrò freno all’ ira ,
E cederò. Ma ben vo’ dirti io pure
( E dal cor parte la minaccia mia ) ,
Se Giove, a mio dispetto e di Minerva
E di Giuno c d’ Ermete e di Vulcano ,
Risparmierà dell’ alto Ilio le torri ,
Nè atterrarle vorrà , nè dame intera
La vittoria agli Achei, sappia che questo
Fia tra noi seme di perpetua guerra.
Lasciò, ciò detto, il campo, c in mar .s’ ascose.
Mosti. Iliade ui
II.UDE
w. a6i>3oo
Sa-*
K nu seoliro la partenza in petto
I combattenti Achei. Si volse allora
Giove ad .Apollo, e disse; Or vanne, o caro,
AI bellicoso Ettdr. Lo scotitore
Della terra , evitando il nostro sdegno ,
Fe ritorno nel mar. Se ciò non era,
Della pugna il rimbombo avria ferito
Anche l’orecchio degl’inferni Dei
Stanti intorno a Saturno. Ad ambedue
Me’ però toma che schivato egli abbia ,
Fatto più senno , di mie mani il peso ^
Perchè senza sudor la non saria
Certo finita. Or tu la fimbriata
Egida imbraccia , e forte la perenti,
E spaventa gli Achei. Cura ti prenda,
O Saettante, dell' illustre Ettorre,
E tal ne’ polsi valentia gli metti,
Ch’ egli fino alle navi e all’ Ellesponto
Cacci in fuga gli Achivi. Allor la via
Troverò che i fuggenti abbian respiro.
Obbedì pronto Apollo^ e, dall’ idèa
Cima disceso, simile a veloce
Di colombi uccisor forte sparviero,
De’ volanti il più ratto , al generoso
Prìamide n’ andò. Dal suol già surlo
E risensato il nobile guen-iero
Sedea, ripresa degli astanti amici
La conoscenza ; perocché , dal punto
Che in lui di Giove s’arrestò la mente,
L' anelito cessato era e il sudore.
Stettegli innanzi il Saettante, e disse:
Perchè lungi dagli altri e sì spossato ,
Ettore , siedi ? c che dolor ti opprime ?
E a lui con fioca c languida favella
Di Priamo il figlio : Chi se’ tu che vieni .
Ottimo nume , a inten-ogarmi ? Ignori
Che il forte Ajace, mentre che de’ suoi
Alle navi io facea strage, mi colse
D’ un sasso al petto , e tolsemi le forze ?
Già 1’ alma errava su le labbra ; c certo
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LIBRO XV
Di veder mi credetti in questo giorno
L' ombre de’ morti c la magion di Fiuto.
Fa eor, riprese il Dio: Giove ti manda
Soccorritore ed assistente il sire
Dell’ aurea spada, Apolline. Son io
Che te finor protessi e queste mura.
Or via; sveglia il valor de’ numerosi
Squadroni equestri, ed a spronar gli esorta
Verso le navi i corridori, lo poscia ,
Li precedendo , spianerò lor tutta
La strada, e fugherò gli achivi eroi.
Disse ; ed al duce una gran forza infuse.
Come destricr di molto orzo in riposo
Alle greppie pasciuto, e nella bella
Uso a lavarsi correntia del fiume ,
Rotti i legami, per l’aperto corre
Insuperbito, e con sonante piede
Batte il terren; sul collo agita il crine.
Alta estolle la testa, e baldanzoso
Di sua bellezza, al pasco usato ei vola
Ove amor d’erbe il chiama e di puledre;
Tale, udita del Dio la voce, Ettorre
Move rapidi i passi, inanimando
1 cavalieri. Ma gli Achei, siccome
Veltri c villani che un cornuto cervo
Inseguono , o una damma , a cui fa schermo
Alto dirupo o densa ombra di bosco.
Poiché lor vieta di pigliarla il fato;
Se a lor grida s’ afiaccia in su la via
Un barbuto leon colle sbarrate
Mascelle orrende, incontanente tutti ,
Bcncbè animosi, volgono le terga;
Così agli Achei che stretti infino allora
Senza posa inseguito aveano i Teucri,
Colle lance ferendo e colle spade ,
Visto aggirai-si tra le file Ettorre,
Cadde a tutti il coraggio. Allor si mosse
Toantc Andremonide , il più gagliardo
Degli etòli guerrieri. Era costui
Di saetta del par che di battaglia
ILIADE
»• 341.3S0
A piò fermo perito , c degli Achivi
Pochi in arringhe lo vincean , se gara
Fra giovani nascea nella bell arte
Del diserto parlar. — Numi ! qual veggo
Gran prodigio? (dicea questo Toante)
Dalla Parca scampato e di bel nuovo
Rlsurto Ettorre ! E speravam noi tutti
Che per le man d’Ajace egli giacesse.
Certo qualcuno de’ Celesti i giorni
Preservò di costui, che molti al suolo
Degli Achivi già stese, e molti ancora
Ne stenderà, mi credo; chè non senza
L’ altitonante Giove egli sì franco
Alla testa de’ Teucri è ricomparso.
Tutti adunque seguiamo il mio consiglio :
La turba ai legni si raccosti^ e noi j
Quanti del campo achivo i più valenti
Ci vantiamo , stiam fermi , e coll’ alzate
Aste vediam di repulsalo, lo spero
Che, quantunque animoso , ci nella calca
Entrar non ardirà di scelti croi.
Disse ; e tutti obbedir volonterosi.
Ambo gli Ajaei e Teucro c Idomenéo
E Merione e il manial Megéte ,
Convocando i migliori, in ordinanza
Contro i Teucri ed Ettór poscr la pugna.
Verso le navi intanto s’avviava
De’ men forti la turba. Allor primieri
E serrati ffir impeto i Trojani.
Li precede, a gran passi camminando,
L’ eccelso Ettorre , e lui precede Apollo ,
Che , di nebbia i divini òmeri avvolto ,
L’ irla di Cocchi , orrenda , impetuosa
Egida tiene, di Vulcano a Giove
Ammirabile dono, onde tonando
1 mortali atterrir. Con questa al braccio
Guidava i Teucri il Dio contro gli Achei ,
Che stretti insieme n’altendean lo scontro.
Surse allor d’ ambe parli un alto grido.
Dai nervi le saette, e dalle mani
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LIBRO XV
3x5
38i-4>0
Vedi Paste volar, altre nel corpo
De’ giovani guerrieri, altre nel mezzo.
Pria che il corpo saggiar, piantarsi in terra
Di sangue sitibonde. Infin che immota
Tenne l’egida Apollo, egual fu d’ambe
Parti il ferire cd il cader. Ma come ,
Dritto guardando , 1’ agitò con forte
Grido sul volto degli Achei, gelossi
Ne’lor petti l’ardire e la fortezza.
Qual di bovi un armento o un pieno ovile
Incustodito, all' improvviso arrivo
Di due belve notturne si scompiglia^
Così gli Achivi costernarsi ; e Apollo
Fra lor spargeva lo spavento, i Teucri
Esaltando ed Rttorre. Allor, turbata
L’ ordinanza , seguia strage confusa.
Cttoi'e Stichio uccide e Arcesilao,
Questi a'Beozi capitano, c quegli
Un compagno fedel del generoso
Menestòo. Per le man poscia d’Enea
Jaso cade e Medonte. Era Medonte
Del divino O'iléo bastardo 6glio
E d’Ajace fratei ; ma , morto avendo
Un diletto german della matrigna ,
Eiiopide, d’ O’iléo mogliera.
Dalla paterna terra allontanato
In Filace abitava. Attico duce
Eira Jaso, e figliuol detto venia
Del Bucolide Sfelo. A Mecistéo
Polidamantc nelle prime file
Tolse la vita; ad Ech'ion Polite,
Ed Agénorc a Clònio. A Déijóco,
Tra quei di fronte in fuga vólto , al tergo
Vibra Paride l’ asta , e lo trafigge.
Mentre l’armi rapian questi agli uccisi.
Giù nell’irto di pali orrendo fosso
Precipitando, i fuggitivi Achei
D’ ogni parte correan , dalla crudele
Necessità sospinti , entro il riparo
Della muraglia ; cd alto alle sue schiere
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ILIADE
Gridava Etturrc di lasciai- le spoglie
Sanguinolente, e sul navilc a gitto
Piombar: Qualunque scorgerò ristarsi
Dalle navi lontan , di propria mano
L’ucciderò; nè morto il mettcraniiu
Su la pira i fratei nè le sorelle,
Ma innanzi ad Ilio strazieranlo i cani.
Si dicendo, sonar fc su le groppe
De’ cavalli il flagello , e li sospinse
Per le file, animando ogni guerriero.
Dietro al lor duce minacciosi i Teucri
Con immenso clamor drizzare i cocchi.
Iva Apollo davanti^ c, col leggiero
Urto del piede lo ciglion del cupo
Fosso abbattendo, il riversò nel mezzo;
E ad immago di ponte un’ampia strada
Spi$novvi, e larga come d’asta il tiro.
Quando a far di sue forze esperimento
Un lanciator la scaglia. Essi a falangi
Su questa via versavansi; ed Apollo
Sempre alla testa, sollevando in alto
L’egida orrenda, degli Achivi il muro
Atterrava con quella agevolezza
Che un fanciullo talor lungo la riva
Del mar per giuoco edifica l’arena,
E per giuoco co’ piedi c colle mani
Poco poi la rovescia e la rimesce.
Tale tu, Febo arder, l’opra, in die tanto
Sudar gli Achivi, dispergesti, c loro
Del gelo della fuga empiesti il petto.
Cosi spinti fermàrsi appo le navi;
E a vicenda incuorandosi, c le mani
Ai numi alzando, ognun porgea gran voti.
Ma più che tutti, degli Achei custode,
11 Gerénio Nestorre allo stellato
Ciclo le palme sollevando orava:
Giove padre, se mai nelle feconde
Piagge argivc o di tauri o d’ agncUettc
Sacrifici offerendo, ti pregammo
Di felice ritorno, c tu promessa
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-5oo
LraRO XV
Ne festi e cenno, or deh! il ricorda, c lungi,
Dio pietoso, ne tieni il giorno estremo.
Nè voler si da’ Troi domi gli Achivi.
Cosi pregava. L’udi Giove, e forte
Tuonò. Ma i Teucri dell’ Egioco Sire
Udito il segno, si scagliàr più fieri
Contro gli Achivi, ed incalzar la pugna.
Come del mar turbato un vasto flutto
Da furia boreal cresciuto e spinto
Rugge, e sormonta della nave i fianchi^
Tali i Teucri con alti urli salirò
La muraglia^ e, cacciati entro i cavalli.
Coll’ aste incominciàr sotto le, poppe
Un conflitto crudel: questi su i cocchi^
Quei sul bordo de’ legni colle lunghe.
Che dentro vi giacean, stanghe commesse.
Ed al bisogno di naval battaglia
Accomodate colle ferree teste.
Finché fuor del navile interno al muro
Arse de’ Teucri e degli Achei la pugna,
Del valoroso Euripilo si stette
Patroclo nella tenda, e ragionando
Il ricreava, c sull’acerba piaga
Dell’amico, a placarne ogni dolore,
Obblivìosi farmaci spargea.
Ma tosto che mirò su l’ arduo muro
Saliti a furia i Teucri, c l'urlo sursc
Degli Achivi c la fuga , in lai proruppe ;
E, battendosi l’anca: Ohimè! diss’egli
In suono di lamento , una feroce
Mischia là veggo. Non mi lice, Euripilo,
All’uopo, che pur n’hai, teco indugiarmi
Più lungamente: assisteratti il servo ^
lo ne volo ad Achille, onde eccitarlo
Alla pugna. Chi sa? forse un propizio
Nume darammi che mia voce il tocchi:
Degli amici il pregar va dolce al core.
Così detto, volò. Gli Achivi intanto
Fermi de’ Teucri sostenean l’assalto;
Ma dalle navi non sapean , (quantunque
3l8 ILIADE r. Jul-S4o
Oi numero minori, allontanarli^
Nè i Trojani potean romper de’ Greci
Le stipate falangi, e insinuarsi
Tra le navi e le tende. E a quella guisa
Che in man di fabbro da Minerva istruito,
II rigo una naval trave pareggia^
Così de’ Teucri egual si diffondea
E degli Achei la pugnai ed altri a questa
Nave attacca la Euffa, ed altri a quella.
Ma contro Ajace dispiccato Ettorre,
Intorno ad un sol legno ambo gli eroi
Travagliansi^ nè questi era possente
A fugar quello e il combattuto pino
Incendere; nè quegli a tener lunge
Questo ; chè un nume ve 1’ avea condotto.
Colpì coll’asta il Telamdnio allora
Calctore di Clizio in mezzo al petto.
Mentre alle navi già venia col foco.
Rimbombò nel cadere, e dalla mano
Cascógli il lizzo. Come vide Ettorre
Riverso nella polve anzi alla poppa
II consobrino, alzò la voce; e, i suoi
Animando, gridò: Licj, Trojani,
Dàrdani bellicosi, ah dalla pugna
Non ritraete in questo stremo il piede!
Deh! non patite che di Clizio il figlio.
Da valoroso nel pugnar caduto.
Sia dell' armi dispoglio. — E, sì dicendo,
Ajace saettò culla fulgente
Lancia, ma in fallo; e Licofron percosse,
Di Mastore Bgliuol, che reo di sangue
Dalla sacra Citerà esule venne
Al Tclamónio, e v’ebbe asilo, e poscia
Suo scudiero il seguì. Lo giunse il ferro
Nella lesta, da presso al suo signore.
Sul confin dell’ orecchia , c dalla poppa
Resupino il travolse nella polve.
Raccapriccionne Ajace, e a Teucro disse;
Caro fratei , n’ è spento il fido amico
Masloride, che noi ne’ nostri tetti
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LIBRO XT
V.
Da Citerà ramingo in pregio avemmo
Quanto i diletti genitor; l’uccise
Ettore. Dove or son le tue mortali
Frecce, e quell’arco tuo, dono d’ Apollo?
L’udl Teucro, e veloce a lui ne venne
Coll’arco e la faretra; e, via ne’Troi
Dardeggiando, feri di Pisenorre
dito illustre 6gliuol , caro al Pantide
Polidamante, a cui de’ corridori
Rcggea le briglie. Or, mentre che bramoso
Di mertarsi d’Ettorre e de’Trojani
E la grazia e la lode, ove dell’ armi
Lo scompiglio è maggior, spinge i cavalli.
Malgrado il presto suo girarsi il giunse
L’inevitabil suo destin; chè il dardo
Lagrimoso gli entrò dentro la nuca.
Cadde il trafitto; s’ arretrar turbati
I destrieri, sentendo il vóto cocchio
Orrendamente. Ma v’ accorse pronto
Di Panto il figlio, che paressi innanzi
Ai fiementi corsieri; e ad Astinòo
Di Protaon fidandoli, con molto
Raccomandar lo prega averli in cura
E seguirlo vicin. Ciò fatto, il prode
Riede alla zuffa, e tra i primier si mesce.
Pose allor Teucro un altro dardo in cocca
Alla mira d’ Ettorre; e qui finita
Tutta alle navi si sana la pugna.
Se al fortissimo eroe togliea l’acerbo
Quadrel la vita. Ma lo vide il guardo
Della mente di Giove , che d’ Ettorre
Custodia la persona, e privo fece
Di quella gloria il Telamdnio Teucro;
Chè il Dio, nell’atto del tirar, gli ruppe
Del bell’ arco la corda, onde sv'iossi
II ferreo strale , c 1’ arco di man cadde.
Inorridito si rivolse Teucro
Al suo fratello, e disse: Ohimè! precise
Della nostra battaglia un Dio per certo
Tutta la speme, un Dio, che dalla mano
3»9
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33o
ILIADE
L’arco mi scosse, e il nervo ne diruppe
Pur contorto di fresco, e eh’ io medesmo
Gli adattai questa mane, onde il frequente
Scoccar de’ dardi sostener potesse.
O mio diletto, gli rispose Àjace,
Poiché l’arco ti franse un Dio, nemico
Dell’onor degli Achivi, al suolo il lascia
Con esso le saette; e 1’ asta impugna
E lo seudo , e co’ Teucri entra in battaglia ,
Ed agli altri fa core; onde, se prese
Esser denno le navi, almen non sia
Senza fatica la vittoria. Ad altro
Non pensiam dunque che a pugnar da forti.
Corse Teucro alla tenda, e vi ripose
L’ arco ; e preso un brocchier che avea di quattro
Falde il tessuto, un elmo irto d’equine
Chiome al capo si pose; e orribilmente
N* ondeggiava la cresta. Indi, una salda
Lancia impugnata, a cui d' acuto ferro
Splendea la punta , s’ avviò veloce ,
E raggiunse il fratello. Intanto Ettorre ,
Viste cader di Teucro le saette.
Le sue schiere incuorando, alto gridava:
Teucri , Dàrdani , Licj , ecco il momento
D’ esser prodi, e mostrar fra queste navi
Il valor vostro , amici. Infrante ha Giove
D’ un gran nemico (con quest’ occhi il vidi)
Le funeste quadrella. Agevolmente
Si palesa del Dio 1’ alta possanza ,
Sia ch’esalti il mortai, sia che gli piaccia
Abbassarne 1’ orgoglio , e 1’ abbandoni :
Siccome appunto degli Achivi or doma
La baldanza , e le nostre armi protegge.
Pugnate adunque fortemente , e stretti
Quelle navi assalite. Ognun , che , còlto
O di lancia o di strai, trovi la morte ,
Del suo morir s’ allegri : è dolce e bello
Morir pugnando per la patria , c salvi
Lasciarne dopo sé la sposa, i figli
E la casa e l’avcr, quando gli Achei
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LIBRO XV
33
♦*. 6ai-6<kt
Torneran navigando al pairio lido.
Fur quei detti una fiamma ad ogni cere.
Dall' una parte i suoi conforta a neh' esso
Ajace , e grida: Argivi, o qui morire,
0 le navi salvar. Se fia che alfine
Il nemico le pigli, a piè tornarvi
Forse sperate alla natia contrada?
E non udite di che modo Ettorre,
D’ incenerirle tutte impaziente,
1 suoi guerrieri istiga? Egli per certo
Non alla tresca , ma di Marte al fiero
Ballo gl' invita. Nè partito adunque.
Nè consiglio sicuro altro che questo,
Menar le mani, e di gran cor. Gli è meglio
Pure una volta aver salute o morte,
Che a poco a poco in lungo aspro conflitto
Qui consumarci invendicati e domi
Per mano, oh scorno! di peggior nemico.
Rincorossi ciascuno^ e allor la strage
D’ ambe le parti si confuse. Ettorre
Schedio uccide, figliuol di Perimede,
Condotticr de’Foccnsi. Uccide Ajace
Laodamante, generosa prole
D’Anlénore, e di fanti capitano.
Polidamante al suol stende il cilleiiio
Oto, compagno di Megète, c duce
De’ magnanimi Epei. Visto Megétc
Cader l’amico, scagliasi diritto
Sul’ uccisore ma questi, obliquamente
Chinando il fianco , andar fe vóto il colpo \
Cbè in quella zuffa non permise Apollo
Del figliuolo di Pani» la caduta*,
E l’asta di Megéte in mezzo al petto
Di Cresmo si piantò, che orrendamente
Rimbombò nel cader. Corse a spogliarlo
Dell’ armi il vincitore ma gli si spinse
' Cantra il gagliardo vibrator di picca
Dolope, che di Lampo era germoglio.
Di Lampo, prestantissimo guerriero
Laomedontide. Impetuoso ei corse
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332
ILIADE
06i*7Oo
Sopra Megétc , e lo ferì nel mezzo
Dello scudo i ma il cavo e grosso usbergo
L’ asta sostenne , quell’ usbergo istesso
Che d’ Efira di Ui dal Sellcente
Un dì Fileo portò, dono d’Eufete,
Ospite suo. Con questo egli più volte
Campò sé stesso nelle pugne ^ ed ora
Con questo a morte si sottrasse il figlio,
Che non fu tardo alle risposte. Al sommo
Del ferrato e chiomato elmo ei percosse
L’ assalitor coll’ asta , e dispicconne
L’equina cresta, che, così com’era
Di purpureo color fulgida e fresca,
Tutta gli cadde nella polve. Or mentre
Ei qui stassi con Dolope alle strette ,
E vittoria ne spera , ecco venirne
A rapirgli la palma il bellicoso
Minore Atride , che furtivo al fianco
Di Dolope s’ accosta , e via nel tergo
L’asta gli caccia. Trapassógli il petto
La furiosa punta, oltre anelando:
Boccon cadde il trafitto , e gli fur sopra
Tosto que’ due per dispogliarlo. Allora
Il teucro duce, incoraggiando tutti
I congiunti, si volse a Melanippo
D’ Icetaon. Pasceva egli in Perente ,
Pria dell’ arrivo degli Achei , le mandre.
Ma giunti questi ad Ilio, ci pur vi venne,
E risplendea fra’ Teucri, ed abitava
Col re medesmo, che 1’ avea per figlio.
Lo punse Ettorre , e disse : E così dunque
Ci starem neghittosi, o Melanippo?
E non ti senti il cor commosso al diro
Caso del morto consobrin ? Non vedi
Lo studio che color dansi dintorno
A Dolope per l’armi ! Orsù, mi segui:
Non è più tempo di pugnar da lungi
Con questi Argivi. Sterminarli è d’ uopo ,
O veder Troja al fondo, ed allagate
Per lor di sangue cittadin le vie.
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r. ;oi-;;o LIBRO XV 333
Cosi detto , il precede i e 1’ altro il segue
In sembianza d' un Dio. Ma, vólto a' suoi
Il gran Tclamonide: Amici, ci grida,
Siate valenti^ in cor v’entri la fiamma
Della vergogna , e l’ un dell’ altro abbiate
Tema e rispetto nella forte mischia.
De’ prodi erubescenti i salvi sono
Più che gli uccisi. Chi si volge in fuga,
Corre all’infamia insieme ed alla morte.
Si disse; e tutti per sé pur già pronti
Alla difesa, si stampàr nel core
Que’ detti , e fér dell’ armi un ferreo muro
Alle navi; ma Giove era co’ Teucri.
Prese allor Menelao con questi accenti
D’ Antiloco a spronar la gagliardia :
Antiloco, tu se’ del nostro campo
11 più giovin guerriero e il più veloce ,
E iiiun t’avanza di valor. Trascorri
Dunque, e di sangue ostil tingi il tuo ferro.
Cosi l’accese, e si ritrasse; e quegli,
Fuor di schiera balzando, e d’ogn’ intorno
Guatandosi, vibrò l’asta lucente.
Visto quell’atto, si scansare i Teucri;
Ma il colpo in fallo non andò; chè colse
Melanippo nel petto alla mammella.
Mentre animoso s’avanzava. Ei cadde.
Risonando nell’ armi; e ratto a lui
Àntiloco avventassi. A quella guisa
Che il veltro corre al capr'iol ferito.
Cui, mentre uscia dal covo, il cacciatore
Di strai raggiunse, e sciolsegli le forze;
Così sovra il tuo corpo, o Melanippo,
A spogliarti dell’ armi il bellicoso
Àntiloco si spinse. Il vide Ettorre,
E volò per la mischia ad assalirlo.
Non ardi l’altro, benché prò guerriero,
Aspettarne lo scontro, e si fuggio,
Siccome lupo misfattor, che, ucciso
Presso l’armento il cane od il bifolco,
Si riusciva fuggendo anzi che densa
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ILtÀDE
Lo circuisca <lc' villan la turba.
Cu.sì diè volta sbigottito il figlio
Di Nèstore per mezr.o alle saette
Che alle sue spalle con immenso strido
I Trojaui piovevano ed Ettorre;
Nè diè sosta al fuggir, nè si converse,
Che giunto fra’ compagni a salvamento.
Qui fu che i Teucri un furioso assalto
Diero alle navi , ed adempir di Giove
II supremo voler, che vie più sempre
Lor forza aceresce, ed agli Achei la scema:
Togliendo a questi la vittorìa, e quelli
Incoraggiando , perchè tutto s’ abbia
Ettor r onore di gittar ne’ eurvi
Legni le fiamme , e tutto sia di Teti
Adempito il desio. Quindi il veggente
Nume il momento ad aspettar si stava
Che il guardo gli ferisse alfin di qualche
Incesa nave lo splendor , perch’ egli
Da quel punto volea che de’ Trojani
Cominciasse la fuga, e degli Achei
L' alta vittoria. In questa mente il Dio
Sproni aggiungeva al cor d’Ettorre; c questi
Furiando, parca Marte che crolla
La grand’asta in battaglia, o di vorace
Fuoco la vampa che , ruggendo , involve
Una folta foresta alla montagna.
Manda spume la bocca , e sotto il torvo
Ciglio lampeggia la pupilla; ai moti
Del pugnar, la celata orrendamente
Si squassa intorno alle sue tempie: e Giove
Il proteggea dall’ alto , c di lui solo
Tra tanti eroi , volea far chiaro il nome
A ricompensa di sua corta vita ;
Perocché già Minerva il di supremo
Che domar lo dovea sotto il Pelide ,
Gl’ incalzava alle spalle. Ove più dense
Egli vede le file , e de’ più forti
Folgoreggiano l’armi, oltre si spigiie,
Di sbaragliarle impaziente, c tutte
LnBO XV
335
V. 781-820
. Ne ritenta le vie; ma tuttavolta
Gli esce vano il desio; cbè stretti insieme
Resistono gli Achei siccome aprico
Immane scoglio che nel mar si sporge,
E de’ venti sostiene e del gigante
Flutto la furia che si spezza e mugge.
Tali a piè fermo sostenean gli Achei
L’urto de’ Teucri. Finalmente Ettorrc,
Scintillante di foco, nella tòlta
Precipitossi. Come quando un’ onda
Gonfia dal vento assale impetuosa
Uu veloce naviglio, e tutto il manda
Ricoperto di spuma; il vento rugge
Orribilmente nelle vele , e trema
Ai naviganti il cor; chè dalla morte
Non son divisi, che d’ un punto solo;
Cosi tremava degli Achivi il petto;
Ed Ettore parea crudo bone ,
Che in prato da palude ampia nudi'ito ,
Un pingue assalta numeroso armento.
Ben egli il suo pastor vorria da morte
Le giovenche campar ; ma non esperto
A guerreggiar col mostro, or tra le prime
S’ aggira , ed or tra 1’ ultime ; alfin l’ empio
Vi salta in mezzo, ed una ne divora,
E ne van l’ altre impaurite in fuga.
Cosi davanti ad Ettore ed a Giove
Fuggian percossi da divin terrore
Tutti allora gli Achei. Restovvi il solo
Miceneo Periféte, amata prole
Di quel Copréo che un giorno al grande Alcide
Venne dei duri d’Euristéo comandi
Apportatore. Di malvagio padi'e
Illustre figlio, rùplendea di tutte
Virtù fornito Periféte, ed era
E nel corso e nell' armi e ne’ consigli
Tra’ Micenei pregiato e de’ primieri.
Ed or qui diede di sua morte il vanto
Alla lancia d’ Ettór; chè mentre indietro
Si volta nel fuggir, nell’orlo inciampa
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336
ILIADE
V- 821-8^
Dello scudo, che lungo insino al piede
Dalle saette il difendea. Da questo
Impedito il gucrrier cadde supino,
E dintorno alle tempie in suono orrendo
La celata squillò. V’ accorse Ettorre ,
E 1’ asta in petto gli piantò ^ nè alcuno
Aitarlo potea de' mesti amici,
Del teucro duce paurosi anch' essi.
Abbandonato delle navi il primo
Ordin gli Achivi, come ria gli sforza
Necessitade e l’ incalzante ferro
De’ Trojani , riparansi al secondo ,
Alla marina più propinquo^ c quivi
Nanzi alle tende s’ arrestar serrati
Senza sbandarsi (chò vergogna e tema
Li ratteneano); e, alzando un incessante
Grido a vicenda, si mettean coraggio.
Anzi a tutti il buon Nèstore, l’antico
Guardian degli Achivi, ad uno ad uno
Pe’ genitor li supplica : Deh ! siate ,
Siate forti, o miei cari, e di pudore
n cor v’ infiammi la presenza altrui.
Della sua donna ognuno e de' suol figli
E del suo tetto si rammenti; ognuno
Si proponga de’ padri, o spenti o vivi,
I bei fatti al pensiero: io qui per essi.
Che son lungi, vi parlo, e vi scongiuro
Di tener fermo e non voltarvi in fuga.
Rincoràrsi a que’ detti: allor repente
Sgombrò Minerva la divina nube
Che il lor guardo abbujava, e una gran luce
Dintorno balenò. Vider le navi ,
Videro il campo c la battaglia e il prode
Ettore e tutti i suoi guerrier, si quelli
Che in riserbo tenea, si quei che fanno
Pugna alle navi. Non soilrì d’Ajace
II magnanimo cor di rimanersi
Con gli altri Achivi indietro; ed, impugnata
Una gran trave da naval conflitto
Con caviglie connessa, e ventidue
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,.861 900 LIBRO XV 337
Cubiti lunga , la scotea , per 1' alte
Dc’navigj corsie lesto balzando
A. lunghi passi, simigliante a sperto
Equestre saltatoi', che, giunti insieme
Quattro scelti destrier, gli sferza e spigne
Per le pubbliche vic^ maravigliando
Stassi la turba ^ ed ei securo e ritto,
Dall'un passando all’altro, il salto alterna
Sui volanti cavalli. À tal sembianza
Alternava l’ eroe gl’ immensi passi
Per le coperte delle navi, e al eielo
La sua voce giugnea sempre gridando
Terribilmente, e confortando i suoi
Delle tende e de’ legni alla difesa.
E nè pur esso di rincontro EUoitc
Tra’ Teucri in turba si riman; ma quale
Àquila falba che uno stormo invade
O di cigni o di gru che lungo il fiume
Van pascolando; a questa guisa il prode.
Di schiera uscito, avventasi di punta
Gontra una nave di cerulea prora.
Lo stesso Giove colla man possente
Il sospinge da tergo, e gli altri incita,
E un novello vi desta aspro certame.
Detto avresti , che fresca allora allora
S’ attaccava la mischia, e che indefesse
Eran le braccia: 1’ impeto è cotanto
De’ combattenti con opposti affetti.
Nella credenza di perirvi tutti.
Pugnavano gli Achei; nella lusinga
Di sterminarli, i Teucri, cd in faville
Mandar le navi: ed in colai pensiero
Gli uni e gli altri mcscean la zuffa e l' ire.
Ettore intanto colla destra afferra
D’ una nave la poppa. Era la bella
Veloce nave che di Troja al lido
Protesilao guidò senza ritorno.
Per questa si facea di Teucri e Achei
Un orrido macello ; e questi c quelli
D’un cor medesino, non con archi e dardi
Mosti, llùule. n
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338
ILIADE
Fan pugna da luntau , ina con aculc
Mannaje a corpo a corpo, c con bipenni
F con brandi e con aste a doppio taglio,
E con tersi coltelli di forbito
Ebano indotti e di gran pomo^ ed altri
Ne cadean dalle spalle, altri dal pugno
De’ guerrieri , e scorrca sangue la terra.
Dell' afferrata poppa Ettor tenendo
Forte il timone culle man, gridava'
Foco, o Teucri^ accorrete, e combattete;
Ecco il di che di tutti il conto adegua,
11 di che Giove nelle man ci mette
Queste navi, a Il'ion contra il volere
Venute degli Dei, queste che tanti
Ne recar danni per codardi avvisi
De’ nosti'i padri che mi fean divieto
Di portar qui la guerra. Ma se Giove
Confuse iillor le nostre menti, or egli.
Egli stesso n’incalza all’alta impresa.
Disse; e i Teucri maggior contro gli Argivi
Impeto f5ro. Degli strali allora
Più non sostenne Àjace la ruiua;
Ma , giunta del morir 1’ ora credendo ,
Lasciò la sponda del naviglio, e indietro
Retrocesse alcun poco ad uno scanno
Sette piè di lunghezza. E, qui piantato,
Osservava il nemico; e, sempre oprando
L’asta, i Trojani, che di faci ardenti
Già s’ avanzano armati, allontanava,
E sempre alzava la tcrribil voce:
Danai, di Marte alunni, amici eroi.
Non ponete in obblio vostra prodezza.
Sperate forse di ti’ovarvi a tergo
Chi ne soccorra, od un più saldo muro
Che ne difenda? Non abbiam vicina
Città munita che ne salvi, e nuove
Falangi ne fornisca. In mezzo a fieri
Inimici noi siam, chiusi dal mai'e,
Lungi dal patrio suol. Nell’ armi adunque,
Non nella fuga, ugni salute è posta.
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LIBnO XV
Così dicendo, colla lunga lancia
Furioso insegiua qualunque osava
Da Ettore sospinto avvicinarsi
Colle fiamme alle navi. E di costoro
Dodici dall' acuta asta trafitti
Pose a giacer davanti alle carene.
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LIBRO DECIMOSESTO
ARGOMENTO
AdiiUc, mouo dalli* prrghWe di Pilrnclo, gli concede di veitirvi delle sue armi e di tne>
nan a battaglia i Mirmidoui. Sue parole nella partenaa di Pàtroclo. Questi si mostra ai
Trojaoi , i quali > credenlolo Achille , sì Tolj;aoo in Tuga. P rodesse dell'eroe. Sar|ìedoale ,
dopo avere ucciso PiMaso, uno dei cavalli d'AcluUe , è posto a miule da Patroclo. Coni*
batlinwoto intorno al cadavere , ebe finalmente per volere di Giove è traspmtalo prodigio*
«aoseate nella Lkia. Patroclo » volendo assalire Iv mura di Troja , impedito da Apollo.
Scontro di Ettore e di Pàtruclo. Morte di Cebrìone Kudtrro dì Ettore , e battaglia in*
torno ad e«ao. Apollo diaanna iovisililmente Pàtroclo, die ^irinia i ferito da Euibrhu. e
penda ucdio ed iomliato da Ettore. Predsaioni dell' eroe morente.
E cosi questi combattean la nave.
Presentossi davanti al Cero Achille
Patroclo intanto , un caldo rio versando
Di lagrime, siccome onda di cupo
Fonte che in brune polle si devolve
Da rupe alpestre. Riguardollo, e n'ebbe
Pietà il guerriero piè-veloce, e disse:
Perchè piangi, Patròclo? Bamboletta
Sembri che, dietro alla madre correndo,
Torla in braccio la prega, e la ratticne
Attaccata alla gonna^ ed, i suoi passi
Impedendo piangente, la riguarda,
Finch' ella al petto la raccolga. Or donde
Questo imbelle tuo pianto? Ai Mirmidóni,
O a me medesmo d’ una ria novella
Sei forse annunziator? Forse di Ftia
La ti giunse segreta? E pur la fama
Vivo ne dice ancor Menézio, c vivo
Tra i Mirmidón 1' Eàcide Peléo,
D'ambo i quali d'assai grave a noi fora
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V. 21 -6o
lUADE , LIBRO XVI 34 I
Certo la morte. O per gli Achei tu forse
Le tue lagrime vèrsi , e li compiagni
Là tra le fiamme delle navi ancisi,
E dell’ onta puniti, che mi fóro?
Parla: m’apri il tuo duol; meco il dividi.
E tu, dal cor rompendo alto un sospiro.
Così, Patrdclo, rispondesti: O Àehille,
O degli Achei fortissimo Pelide,
Non ti sdegnar del mio pianto. Lo chiede
Degli Aehei l’empio fato. Oimè! che quanti
Eran dianzi i miglior, tutti alle navi
Giaccion feriti, quale di saetta.
Qual di fendente: di saetta il forte
Tidi'de Diomede, e di fendente
L’inclito Ulisse e Agamenndn; trafitta
Ei pur di freccia Euripilo ha la coscia.
Intorno a lor di farmaci moli’ opra
Fan le mediche mani, e le ferite
Ristorando ne vanno. E tu resisti
Inesorato ancora? O Achille! oh mai
Non mi s’ appigli al cor, pari alla tua,
L’ ira , o funesto valoroso ! E s’ oggi
Sottrae nieghi gli Achivi a morte indegna.
Chi fia che poscia da te speri aita?
Crudeli nè padre a te Peléo, nè madre
Tétide fu: te il negro mare o il fianco
Partorì delle rupi, e tu rinserri
Cuor di rupe nel sen. Se doloroso
Ti turba un qualche oracolo la mente ^
Se di Giove aleun eenno a te la madre
’ì?eneranda recò: me tosto almeno
Invia nel campo ^ e al mio comando i forti
Mirmidoni concedi^ oud’ io, se puossi.
Qualche raggio di speme ai travagliati
Compagni apporli. E questo ancor mi assenti.
Ch’io, delle tue coperto armi le spalle,
M’ appresenti al. nemico^ onde, ingannato
Dalla sembianza, in me comparso ci creda
Lo stesso Achille, e fugga, e l’abbattuto
Acheo respiri. Nella pugna è spesso
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ILIADE
«•. Gi'ioo
Una via di salute un sol respiro^
E noi di forze inttigri agevolmente
Ricaccerem la stanca oste alle mura,
Dalle navi respinta e dalle tende.
Cosi l’eroe pregò. Folle! chè morte
Perorava a sè stesso e reo destino.
E a lui, gemendo di corruccio, Achille:
Che dicesti, o Patroclo? In questo petto
Terror d’udite profezie non passa.
Nè di Giove alcun cenno a me la diva
Madre recò. Ma il cor mi rode acerba
Doglia, in pensando che rapirmi il mio
Un mio pari s’ ardisce, e del concesso
Premio spogliarmi prepotente. È questo.
Questo il tormento, il dispetto, la rabbia.
Onde l’alma è angosciata. Una donzella
Di valor ricompensa, a me prescelta
Da tutto il campo, e da me pria coli’ asta
Conquistata per mezzo alla ruina
Di munita città, questa alle mie
Mani ha ritolta l’orgoglioso Atride,
Come a vii vagabondo. Ma le andate
Cose sicn poste nell’oblio^ chè l’ira
Viver non debbe eterna. Io certo avea
Fatto un severo nel mio cor decreto
Di non porla, se prima non giugnesse
Alle mie navi de’ pugnanti il grido
E la pugna. Ma tu le mie ti vesti
Armi temute, c alla battaglia guida
I bellicosi Tessali: chè fosco
Di Teucri e 6ero un nugolo vegg’ io
Circondar già le navi , e al lido stringersi
In poco spazio i Greci, e su lor tutta
Troja versarsi, audace fatta e balda,
Perchè vicino balenar non vede
Dell’elmo mio la fronte. Oh fosse meco
Stato re giusto Agamennòn! Ben io
T’affermo che costoro avn'an, fuggendo.
De’ lor corpi ricolme allor le fosse.
Or ecco che n’ han chiuso essi d’assedio;
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LIBBO XVI
343
tni>i4o
Perocché nella man di Diomede,
À tener lunge dagli Achei la morte,
L’asta più non infuria, né d’Atride
La voce ascolto io più dall’ abhorrita
Bocca scoppiante^ ma sol quella intorno
Dell’omicida Ettorrc mi rimbomba,
Animante i Trojani. E questi, alzando
Liete grida guerriere, il campo tutto
Tengon già vincitori. E nondimeno
Va, ti scaglia animoso, c dalle navi
Quella peste allontana; nè patire
Che le si strugga il fuoco, e ne sia tolta
Del desiato ritornar la via.
Ma, quale in mente la ti pongo, .avverti
De’ miei detti alla somma, c m’obbedisci.
Se vuoi che gloria me ne torni, e grande
Dai Greci onore, e che la bella schiava
Con doni eletti alfin mi sia venduta.
Cacciati i Teucri, fa ritorno: e s’ anco
L’ altitonante di Giunon marito
Ti prometta vittoria, incauta brama
Di pugnar senza me con quei gagliardi
Non ti seduca; nè voler ch’io colga
Di ciò vergogna e disonor; nè, spinto
Dall’ ardor della pugna, alle fatali
Dardanie muro avvicinar le schiere
Della strage de’ Teucri insuperbito;
Onde non scenda dall' Olimpo un qualche
Immortale a tuo danno. Essi son cari ,
Non obbli'arlo, al saettante Apollo.
Posti in salvo i navili, immantinente
Dunque dà volta, c la.scia ambo a vicenda
Struggersi i campi. Oh Giove padre! oh Palladel
E tu di Deio arcicro Iddio, deh! fate
Che nessun possa, nè Trojan nè Greco,
Schivar morte, nessuno; onde del sarro
Iliaco muro la caduta sia
Di noi due soli preservati il vanto.
Mentre seguian tra lor queste panrle,
Ajacc ornai redea l' arcua oppre.sso
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344
ILUDE
¥ 1 180
Da gran selva di strali. Rintuzzava
Le sue forze il voler di Giove e il nembo
Delle teucre saette. 11 rilucente
Elmo percosso un suon mettca che orrendo
Gl’ intronava le tempie, ed incessante
Sopra i chiavelli il martellar cadea.
Langue spossata la sinistra spalla
Dall’assiduo maneggio affaticata
Del versatile scudo. E tutta volta
!Vè la calca premente , nè de’ colpi
La tempesta il potea mover di loco.
Scuotegli i Ranchi più affannato c spesso
L’anelito^ il sudor discorre a rivi
Per le membra , nè puote a ninna guisa
Pigliar respiro il valoroso. Intanto
D'ogni parte l’orror cresce c il periglio.
Muse dell’alto Olimpo abitatrici,
Or voi ne dite per che modo il primo
Fuoco alle navi degli Achei s" apprese.
Di frassino una grave asta scotea
Ajace. A questa avvicin.ato Ettorre ,
Tal trasse un colpo della grande spada ,
Che netta la tagliò là dove al tronco
Si commette la punta. Iiivan vibrava
11 Tclamónio eroe l'asta, privata
Della sua cima, che, lontan cadendo,
Risonò sul terrcn. Raccapricciossi
Il magnanimo, e vide ivi d’un nume
Manifesta la man^ vide che avverso
L’Altitonante del pugnar le vie
Tutte gli avea precise , e decretata
De’ Teucri all’ armi la vittoria. Ei dunque
Lunge dai dardi si ritrasse \ c ratto
I Troi gittaro nella nave il fuco.
Che tosto le si apprese, c d’ ogni lato
L’ inestinguibil fiamma si diifusc.
Si battè r anca per dolore Achille ,
Vista la vampa divorante; c : Sorgi ,
Mio Patroclo, gridò; sorgi: alle navi
L’ impeto io veggo della fiamma ostile.
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iSi^aao
LIBRO XVI
345
Deh! che il nemico non le prenda, e tutti
Ne precluda gli scampi: su via, tosto
Armati; che i miei forti io ti raduno.
Disse: e Patrdclo si restia dell' armi
Folgoranti. Alle gambe primamente
I bei schinieri si ravvolse adorni
D' argentee fibbie. La corazza al petto
Poscia si mise del veloce Achille
Screziata di stelle. Indi la spada
Di bei chiovi d’ argento aspra e lucente
Dall’ omero sospese. Indi lo scudo
Saldo e grande imbracciò; la valorosa
Fronte nell'elmo imprigionò, su cui
D’ equine chiome orrendamente ondeggia
Una cresta. Alfin prese , atte al suo pugno.
Valide lance; ed unica d'Achille
L’asta non prese, immensa, grave e salda.
Cui nullo palleggiar Greco potea.
Tranne il braccio achilleo : massiccia antenna
Sulle cime del Pélio un dì recisa
Dal buon Chirone , ed a Pelco donata ,
Perchè fosse in sua man strage d’eroi.
Comanda ei quindi che i cavalli al cocchio
Subito aggioghi Automedon, guerriero,
Cui dopo Achille , rompitor di squadre ,
Sovra ogni altro ei pregiava ; ed in battaglia ,
Nel sostener gl’ impetuosi assalti
Del nemico, ad Achille era il più fido.
Rotti adunque gl' indugi, Automedonte
I veloci corsieri al giogo addusse ,
Balio e Xanto che un vento eran nel corso,
E partoriti a Zefiro gli avea
L’Arpia Podarge un dì eh’ ella pascendo
Iva nel prato lungo la corrente
Dell' Oceàn. Dall’ una banda ei poscia
Pèdaso aggiunse, corridor gentile.
Cui seco Achille un di dalla disfatta
Città d’Eezìou s’ avea condotto;
E, quantunque mortale, iva del paro
Co’ destrieri immortali. Intanto Achille ,
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346
ILIADE
Su e giù scorrendo per le tende , tutti
Di tutto punto i Mirmidóni armava.
Quai crudivori lupi il cor ripieni
Di molta gagliardia, prostrato avendo
Sul monte un cervo di gran corpo e corna ,
Sei trangugiano a brani, e sozze a tutti
Rosseggiano di sangue le mascelle ^
Quindi calano in branco ad una bruna
Fonte a lambir colle minute lingue
Il nereggiante umor , carne ruttando
Mista col sangue 5 il cor ne’ petti audaci
S’allegra, c il ventre ne va gonfio e teso;
Tali dintorno al bellicoso amico
Del gran Pelide intrepidi si allullano
1 mirmidonj capitani; e in mezzo
A lor s’aggira il marziale Achille,
I cavalli animando e i battaglieri.
Cinquanta eran le prore che veloci
Avea condotte a Troja il caro a Giove
Tessalo prence, e carea iva ciascuna
Di cinquanta guerrieri. A cinque duci
N’arca dato il comando, ed ei la somma
Potestà ne tenea. Guida la prima
Squadra Menéstio, scintillante il petto
Di variato usbergo. Era costui
Prole di Sperchio, fiume che da Giove
L’ origine vantava; c di Peléo
La bella figlia Polidora a Sperchio
Partorito l’avea, donna mortale
Gommista con un. Dio. Ma lui la fama
Nel popolo dicca prole di Boro,
Di Perieréo figliuol , che tolta in moglie
L’ avea solenne e di gran dote ornata.
Guidava la seconda il marzio Eudoro,
Generato di furto, a cui fu madre
La figlia di Filante, Polimela,
Danzatrice leggiadra. Innamorossi
In lei Mercurio un dì che alle cantate
Danze la vide della Dea che gode
Del romor delle cacce e d'aureo strale;
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LIBRO XVI
347
*•. a6i-5«o
La vide; e, della casa allo superne
Stanze salito, giacquesi furtivo
11 pacifico Iddio colla fanciulla,
E lei fe madre d' un illustre figlio,
D’ Eudoro, egregio nella pugna al pari
Che rapido nel corso. E poiché tratto
Fuor r ebbe dal materno alvo Iliti'a ,
Curatrice de’ parli , e 1’ almo ci vide
Raggio del Sol, la genitrice al prode
Attóride Echecléo passò consorte,
Di largo dono nuzial dotata.
Nudrì poscia il fanciullo ed allevullo
L’avo Filante con paterna cura,
E di figlio diletto in loco il tenne.
Capitan della terza era il valente
Mcmalide Pisandro, il più perito
• De’ Mirmiddni nel vibrar dell’asta
Dopo il compagno del Pclidc Achille.
La quarta il veglio cavalier Fenice,
E conducea la quinta Alcimedontc,
Di Laerce buon figlio. Or poiché tutti
Gli ebbe schierati co’lor duci Achille,
Gravi ed alte parlò queste parole:
Mirmidóni, di voi nullo mi ponga
Le minacce in obbb'o, che, mentre immoti
Su le navi la mia ira vi tenne,
Fèste a’Trojani, me accusando tutti,
E dicendo : Implacabile Pcb'dc,
Certo di bile ti nudrio la madre :
Crudel ! ebé tieni a lor dispetto inerti
Nelle navi i tuoi prodi. A Ftia deh! almeno
Redir ne lascia su le nostre prore ,
Da che nel cor ti cadde una tant’ira.
Questi biasmi in accolta a me sovente
Mormoraste, o guerrieri. Or ceco é giunto
Del gran conflitto, che bramaste, il giorno.
All’ armi adunque; c chi cuor forte in petto
Si chiude, a danno de’ Trojani il móstri.
Si dicendo, destò d'ogni guerriero
E la forza e 1’ ardir. Strinscr più densa
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ILUDE
• 3ol-34»
'Tosto le schiere l'ordinanza, uditi*
Del lor sire gli accenti. E in quella guisa
Che industre arcbitettor 1' una su 1’ altra
Le pietre ammassa, e insieme le commette
Acconciamente a costruir d' eccelso
Palagio la muraglia all’ urto invitta
Del furente aquilon; non altramente
Addensati venian gli elmi c gli scudi.
Scudo a scudo, elmo ad elmo, e uomo ad uomo
S’ appoggia ^ c al moto delle teste vedi
L' un coll’ altro toccarsi i rilucenti
Cimieri e l’onda delle chiome equine:
Si de’ guerrier serrate eran le file.
Iva il paro d’eroi dinanzi a tutti,
Patroclo e Automedonte, ambo d’ un. core
E d’ una brama di dar dentro ei primi.
Con altra cura intanto alla sua tenda
Avviossi il Pelide, ed un forziere
Apri di vago lavorio , cui Teti
Gli avea riposto nella nave e colmo
Di tuniche e di clamidi del vento
Riparatrici, e di vellosi strati.
Quivi una tazza in serbo egli tenea
Di pregiato artificio, a cui nuli’ altro
Labbro mai non attinse il rubicondo
Umor del tralcio, e, fuor che a Giove, ei stesso
Non libava con questa ad altro iddio.
Fuor la trasse dell’arca, e con lo zolfo
La purgò primamente ^ indi alla schietta
Corrente la lavò. Lavossi ei pure
Le mani, e il vino rosseggiante attinse.
Ritto poscia nel mezzo al suo recinto
Libando, e gli occhi sollevando al cielo,
A Giove, che il vedea, fe questo prego:
Dio che lungi fra’ tuoni hai posto il trono,
Giove Pelasgo , regnator dell’ alta
Agghiacciata Dodona, ove gli austeri
Selli che han Pare a te sacrate in cura ,
D’ogni lavacro schivi al fianco letto
Fan del nudo terreno , i voli mici
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.14'-3«o '-'•*0 *''■ 34g
Già tu benigno un'altra volta udisti,
E dalle piaghe degli Achei vendetta
Dell’onor mio prendesti. Or tu pur questa
Piata, o padre, le mie preci adempi :
10 qui fermo mi resto appo le navi 4
Ma in mia vece alla pugna ecco spedisco
Con molti prodi il mio diletto amico.
Deh! vittoria gl’ invia, tonante Iddio 4
L' ardir gli afforza in petto 4 onde s'avvegga
Ettore se pugnar sappia pur solo
11 mio compagno , o allor soltanto invitta
La sua destra infierir, quando al tremendo
Lavor di Marte lo conduce Achille.
Ma, dalle navi aebee lungi rimosso
L' ostil furore , a me deh ! tosto il torna
Con tutte l’armi e co’ suoi forti illeso.
Sì disse , orando 4 e il sapiente Giove
Parte del prego udì , parte nc sperse :
Udì, che dalle navi alfin respinta
Fosse la pugna 4 e non udì, che salvo
Dalla pugna tornasse il caro amico.
Libato a Giove e supplicato , Achille
Rientrò , rinserrò nell’ arca il sacro
Nappo 4 e di nuovo della tenda uscito ,
Ritto all'ingresso si fermò, bramoso
Di mirar de’ Trojan! e degli Achei
La terribile mischia. E questi al cenno
Dell’ ardito Patroclo in ordinati
Squadroni, e tutti di gran cor precinti
Già piombano su i Teucri, e si dispiccano
Come rabide vespe, entro i lor nidi
Lungo la strada stimolate all’ ira
Da proeaci fanciulli , a cui dilètta
Travagliarle incessanti a loro usanza.
Stolti! chè a sè fan danno ed all’ignaro
Passeggierò innocente. Le sdegnose.
Che ne’ piccioli petti han grande il corc ,
Sbucano in frotta, e alla difesa volano
De’ cari parti. Coll’ ardir di queste
Si versar dalle navi i Mirmidóni.
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35o
ILIADE
». 38i-4iO
ìy era immenso il fracasso^ c, di Mcnczio
Confortandoli il figlio, alto gridava:
Commilitoni del Pelidc Achille,
Siate valenti ^ della vostra possa
Ricordatevi , amici , c combattiamo
Per la gloria di lui , forti campioni
Del più forte de’ Greci. Il suo fallire
Vegga il superbo Atride, e dell’oltraggio
Fatto al maggiore degli eroi si penta.
Sprone alle forze e al cor di ciascheduno
Fur le parole. Si serrar, scagliarsi
Sul nemico ad un punto ^ e si sentiva
Terribilmente rimbombar le navi
Al gridar degli Achei. Ma come i Teucri
Di Manézio mirar l’ inclito figlio
Esso e 1’ auriga Automedonte al fianco
Folgoranti nell’ armi, a tutti il cure
Tremò; le schiere scompigliàrsi , ognuna
Nella credenza che il Peli'de avesse
Deposta 1’ ira, e l'amistà ripresa.
Studia ognuno la fuga, ognun procaccia
La sua salvezza. Allur Patroclo il primo
La fulgida vibrò lancia nel mezzo,
Dove più densa intorno all’alta poppa
Del buon Protesilao ferve la calca:
E Pireemo feri, che dalle vaste
Rive dell’Assio e d’Amidonc avea
Seco i pconj cavalicr eondutti.
Gli mise il colpo alla diritta spalla,
E quei riverso e gemebondo cadde
Nella polve. Si volse, al suo cadere.
Il peonio drappello in presta fuga,
E tutto si sbandò, morto il suo duce
Prestantissimo in guerra. Repulsati
I nemici, l’eroe spense le vampe;
Ma il navigio restò mezz’ arso e monco.
E qui fuggire e sgominarsi i Teucri ,
E gli Achivi inseguirli, c via pe’ banchi
Delle navi cacciarli in gran tumulto.
Siccome allor che dall’eccelsa vetta
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LIBRO XVI
Di gran monte le nubi atre disgombra
Il balenante Giove, appajun tutte
Subitamente le vedette e gli alti
Gioghi c le selve , c immenso s’ apre il cielo ;
Cosi, respinta 1' ostil 6amma, aprissi
De’ Danai il core e respirò. Ma tregua
Non si fece alla zuffa ^ ancor non tutti
Davan le spalle agl'incalzanti Achei
Gli ostinati Trojani; e, tuttavolta
Resistendo, cedean forzati e lenti
Gii occupati navigli. Allur diffusa
In maggior spazio la battaglia , ognuno
De' danai duci un inimico uccise.
Fu Patroclo il primier che con acuto
Cerro percosse Areih'co al fianco
Nel voltarsi che fea. Lo passa il ferro,
Frange l'osso^ e boccon cade il meschino.
Trafisse Menelao Toante al petto
Scoperto dello scudo, e freddo il fece.
Il figliuol di Filéo , visto a rincontro
Venirsi Anficlo d' assaltarlo in atto,
11 previen, lo colpisce ove più ingrossa
Della gamba la polpa. Infrange i nervi
La ferrea punta, e a lui le luci abbuja.
E voi l' armi d' ostil sangue non vile ,
Antiloco, tingeste, e Trasiméde,
Valorosi Nestdridi. Coll'asta
Antiloco passò d'Antimio il fianco,
E il distese boccon. Màride, irato
Per l'ucciso fratello, innanzi al caro
Cadavere si pianta, e centra Antiloco
La picca abbassa. Ma di lui più ratto
Trasiméde il prevenne, e non indarno
Volò la punta. All'omero lo giunse',
1 muscoli segò del braccio estremo ,
E netto l'osso ne recise. Ei cadde
Fragoroso, e l'avvolse eterna notte.
Da due germani i due germani uccisi
Cosi n'andai'o a Dite, ambo valenti'
Di Sarpedon compagni, ambo famosi
;i5i
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35 2 ILIADE ,■ 46l .ioo
Lanciatori , (ìglluni d'AmisoHaru
Che la Chimera, insupcrabil mostro
Di molte genti esizio, un dì nudriva.
Ajace d'Qiléo, sovra Cleóbolo
Correndo impetuoso , il piglia vivo
Nella calca impacciato \ <■ , via sul collo
L’enorme daga calando, lo scanna.
Si tepefece per lo sangue il ferro ^
E la purpurea morte e il violento
Fato le luci gli occupò per sempre.
S’ azzuflàr Lieo e Peneléo ^ ma in fallo
Trasser ambo le lance. Allor più fieri
Dier mano al brando. Del chiomato elmetto
Lieo il cono percosse^ ma la spada
Si franse all’ elsa. All’ avversario il ferro
Assestò Peneléo sotto 1’ orecchio ,
£ tutto ve l’ immerse. Penzolava
In giù la testa dispiccata, e sola
Tenea la pelle. Così cadde e giactjuc.
Merìon, velocissimo correndo,
Acamante raggiunge appunto in quella
Che il cocchio ei monta, e al destro òmero il fere.
Ruinò quel percosso dalla biga,
E morte gli tirò su gli occhi il velo.
Idomcnéo la lancia nella bocca
D’ Erimanto cacciò. La ferrea cima ,
Apertasi la via sotto il cerébro,
Riuscì per la nuca, spezzò l’osso
Del gorgozzule, e sgangherògli i denti ^
Talché di sangue s’ empir gli occhi , e sangue
Soffiò dal naso e dalle fauci aperte:
Così concio' il copri l’ombra di morte.
E questi fùro i condottieri achei ,
Che spensero ciascuno un inimico.
Qual su capri ed agnellc i lupi piombano
Sterminatori, allor che per inospita
Balza neglette dal pastor si sbrancano^
Appena le adocchiar, che ratti avvciitansi
Alle misere imbelli, e ne fan strazio;
Non altrimenti si vedeva i Danai
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9. 5ot-54o
LIBRO XVI
353
Dar sopra i Teucri che del core immemori
Con orribile strepito fuggivano.
Nel folto della mischia il grande Ajace
Sempre ad Ettdr volgea T asta e la mira.
Ma quel mastro di guerra, ricoperto
H largo petto di taurino scudo,
All'acuto stridor delle saette
E al sibilo dell’ aste attento bada.
Ben s’ accorgendo alla contraria parie
Già piegar la vittoria: e tuttavolta
Teneasi saldo, alla salvezza intento
Degli amati compagni. Alfin, siccome
Per l’etere sereno al cielo ascende
Su dal monte una nube allor che Giove
Tenebrosa solleva la tempesta;
Non altrimenti dalle navi i Teucri
Dier volta urlando, e non avea ritegno
Il ritrarsi e il fuggir. Lo stesso Ettorre,
Via coll’ armi dai rapidi destrieri
Trasportato in mal punto, la difesa
Abbandona de’ suoi che la profonda
Fossa accalca e impedisce. Ivi sossopra
Molti destrier precipitando spezzano
E timoni e tireUe, e conquassati
Lascian là dentro co’ lor duci i carri.
E^ Pàtroclo gl’ incalza , ed , incitando
Fieramente i compagni, alla suprema
Buina anela de’Trojani. E questi
D alte grida e di fuga empion già tutte
Sbaragliatì le vie. Saliva al cielo
Vorticosa di polve una procella.
Spaventati i cavalli a tutta briglia
Correan dal maro alla cittadc; e dove
Maggior vede l’eroe turba c scompiglio.
Minaccioso gridando a quella volta
Drizza la biga. Traboccar dai cocchi
Vedi sotto le mote i fuggitivi ,
E i vóti cocchi sobbalzando volano
Risonanti. Varcàr d’un salto il fosso
Gl’immortali destrieri, oltre anelando,
Mosti. Iliade.
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354
ILIAPE
» S41-S80
I dcslrier che a Peléo diero gli Dei
Preclaro dono: e tuttavia l’eroe
Contra Ettór li flagella, desioso
Pur d’ aiTivarlo c di ferir. Ma Ini
Tracan già lunge i corridor veloci.
Come d’autunno procelloso nembo
Tutta inonda la terra, allor che Giove
Densissime dal ciel versa le piogge.
Quando contra i mortali arma il suo sdegno,
1 quai, cacciata la giustizia in bando,
E la vendetta degli Dei schernita,
Violente nel fòro e nequitose
Proferiscon sentenze; allor furenti
Sboccan ne’ campi i fiumi; giù dal monte
Precipitando, le sonanti piene
Squarcian le ripe, e nel purpureo mare
Devolvonsi mugghiando, e del cultore
Corrompono la speme c la fatica ;
Così gementi corrono e sbuflanti
I trojani cavalli. Intanto rotte
Le prime schiere, di Menézio il figlio
Le ricaccia, le stringe alla marina,
Lor tagliando il ritorno al desiato
Ilio; c tra il mare e il Xanto e l’alto mui'u
Incalzava, uccideva e vendicava
Molte morti d’eroi. E primamente
Ferì d’asta Pronòo che mal di scudo
Goprìasi il petto. Lo trafisse; e quegli,
Giù cadendo, nell’ armi risonò.
Poi d’Enópo il figliuol, Tòstore, assalse
Impetuosamente. Iva costui
Sovra elegante cocchio, la persona
Curvo ed in atto di raccor le briglie,
Che smarrito nel cor s’avea lasciato
Dalle mani fuggir. Gli si fe sopra
L’eroe coll’asta; e tal gli spinse un colpo
Su la destra mascella, che la siepe
Sprofondógli dei denti. À questo modo
Infilzato nell’asta sollevollo
Dalla conca del cocchio, c il trasse a terra.
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>. 58l-Slo UBRO XVI 355
Quale il buon pescator sovra sporgente
Scoglio seduto colla lenza, armata
Di fulgid'amo, fuor dell’onda estragge
Enorme pesce ^ a cotal guisa il Greco
Fuor del cocchio tirò colla lucente
Asta il confitto boccheggiante', e poscia
Lo scrollò dalla picca, e lungi al suolo
Lo gittò sanguinoso e senza vita.
Quindi Ertalo, che contro gli venia.
Giunge d’un sasso al mezzo della fronte,
E in due, chiusa nel forte elmo, la spacca.
Boccon versassi nella sabbia, e morte
Lo si recinse, e gli rapio la vita.
Indi Erimante, Ànfótero ed Epalte
E il figliuol di Damàstore, Tlepòlemo,
L’Àrgéade Polimélo ed Echio e Piro,
E con Evippo Iféo, tutti in un muccchio
Rovesciò, rassegnò morti alla terra.
Ma Sarpedonte, visto de’ compagni
Per le man di Patroclo un tale e tanto
Scempio, i suoi Licj rincorando, e insieme
Rampognando: Oh vergogna! o Licj, ci grida.
Dove, o Licj, fuggite? Ah per gli Dei
Rivolate alla pugna! Io di costui
Corro allo scontro, per saper chi sia
Questo fiero campion che vi diserta.
Che si nuoce ai Trojani, e già di molti
Forti disciolse le ginocchia. — Disse;
E via d’un salto a terra in tutto punto.
Si lanciò dalla biga. Ed a rincontro
Come Patroclo il vide, ei pur nell’ armi
Si spiccò dalla sua. Qual due grifagni
Ben unghiati avoltoi, forte stridendo,
Sovra un erto dirupo si rabbufiano.
Tal vennero quei due, gridando, a zuffa.
Li vide; e, tocco di pietade iFfiglio
Dell’astuto Saturno, in questi detti
A Giunon si rivobe: Ohimè, diletta
Sorella e sposa! Sarpedon, ch’io m’ aggio
De’ mortali il più caro, è sacro a morte
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356
aUDE
V. 6at*66o
Pel ferro di Patroclo. Ii-resoluta
Fra due pensieri la mia mente ondeggia :
Se vivo il debba liberar da questo
Lagrimoso conflitto , e a' suoi tornarlo
Nell’opulenta Licia^ o consentire
Che qui lo domi la tessalic’ asta.
E a lui, grave i divini occhi girando,
L’alma Giuno cosi: Che parli, o Giove?
Che pretendi? Un mortale, un destinato
Da gran tempo alla Parca, or della negra
Diva ritorlo alla ragion? Fa pure.
Fa pur tuo scuno^ ma degli altri Eterni
Non isperar l’assenso. Anzi ti aggiungo,
E tu poni nel cor le mie parole ;
Se vivo e salvo alle paterne case
Renderai Sarpedon, bada che poscia
Del par non voglia più d’un altro iddio
Alla pugna sottrarre il proprio figlio^
Chè molti sotto alle dardanie mura
Stan nell’ armi a sudar figli di numi ,
A cui porresti una grand’ ira in seno.
Chè s’ei t’ è caro e lo compiagni, il lascia
Nella mischia perir domo dall'asta
Del figliuol di Menèzio^ ma, deserto
Dall’alma il corpo, al dolce Sonno imponi
Ed alla Morte, che alla licia gente
11 portino. I fratelli ivi e gli amici
L’onoreranno di funereo rito
E di tomba e di cippo, alle defunte
Anime forti onor supremo e caro.
Disse; e al consiglio di Giunoti s’attenne
Degli uomini il gran padre e degli Dei;
E sangue piovve per onor del caro ■
Figlio coi lungi dalle patrie arene
Ne’ frigj campi avria PatnSclo ucciso.
Già l’uno all’altro si fa sotto, e sono
Alle prese. Patróclo a Trasimélo,
Di Sarpedonte valoroso auriga.
Trapassò l’anguinaglia, e lo distese.
Mosse' secondo Sarpedonte, e in fallo
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LIBRO XVI
357
r. S6i-7CO
La grand'asta vibrò, che, trasvolando,
La destra spalla a Pódaso trafisse.
Si riversò, sbufiando, in su l’arena
n trafitto cavallo, e dal ferino
Petto l’alma si sciolse gemebonda.
Visto il compagno corridor disteso,
Gli altri due costeruàrsi, e a calci, a salti
Diersi; il timone cigolò, confuse
Implicàrsi le briglie. Ma riparo
L’intrepido vi mise Àutomedonte,
Che rapido insorgendo, e via dal fianco
Sguainata la lunga acuta spada.
Tagliò netto al giacente le tirelle,
E fu l’opra d’un punto. Entrambi allora
Rassettarsi i corsieri, e raddrizzàrsi
Al cenno della briglia obbedienti.
E qui di nuovo alla crudel tenzone
Si spinsero i campioni; e pur di nuovo
Errò dell’asta Sarpedonte il tiro,
Che via sovresso l’ òmero sinistro
Di Patroclo trascorse, e non l’ offese.
Gli fe risposta il Tèssalo: nè vano
n suo telo volò; che dove è cinto
Da’ suoi ripari il cor gli aperse il petto.
Qual rovina una quercia o pioppo o pino
Cui sul monte tagliò con affilata
Bipenne il fabbro a nautico bisogno;
Tal Sarpedonte rovinò. Giacca
Steso innanzi alla biga , e colle mani
Ghermia la polve del suo sangue rossa,
E fremendo gemea pari a superbo
Tauro, onor dell’armento e d’aureo pelo.
Che da lion , che il giunge alla sprovvista.
Sbranato cade, e sotto la mascella
Del vincitore, mugolando, spira.
Tale del licio condottier prostrato
Dal tessalico ferro in sul morire
Eira il gemito e l’ ira. E Glauco , il suo
Dolce amico per nome a sè chiamato:
Caro Glauco, gli disse, or t’ è mestieri
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358
ILIADB
¥. 70i*7V>
Buon guerriero mostrarli, e oprar le mani
Audacemente. Tu dell’aspra pugna,
Se magnanimo sei, l’ incarco assumi:
Corri, vola, e de’Licj i capitani
Alla difesa del mio corpo accendi.
/Difendilo tu stesso, e per l’amico
Combatti; infamia ti deriva eterna,
Se me dell’ armi mie spoglia il nemico,
Me pel certame delle navi ucciso.
Tien saldo adunque, e pugna, e di coraggio
Tutte infiamma le squadre. — In questo dire
Le narici affilò, travolse i lumi,
E la morte il coprì. Col piede il petto
Calcògli il vincitore l’ asta ne trasse^
E il polmon la seguia sì, che dal seno
Il ferro a un tempo gli fu svelto e l’alma.
A’ suoi sbuffanti corridori intanto
Scioltisi e in atto di fuggir, lasciando
Del lor signore il cocchio, i Mirmidòni
Pararsi innanzi, e gli arrestàr. Ma Glauco,
Dell' amico alla voce il cor compunto.
Di profondo dolor sospira e geme^
Chè mal può dargli la richiesta aita.
L’ impedisce la piaga al braccio infissa
Dallo strale di Teucro, allor che Glauco,
De’ suoi volando alla difesa, assalse
L’alta muraglia degli Achei. Compresso
Si tcnea colla manca il braccio offeso
L’ infelice ; ed, orando al saetUnte
Nume di Deio: O re divino , ei disse,
O che di Licia o che di Troja or bei
Tua presenza le rive, odi il mio prego;
Chè , dovunque tu sia , puoi d’ un dolente ,
Qual, lasso! mi son io, la voce udire.
Di che grave ferita e di che doglia
Trafitto io porti questo braccio, il vedi;
Nè il sangue ancor mi si ristagna, e tale
Incessante m’opprime una gravezza
L’omero tutto, che dell’asta al peso
Mal reggo , e mal poss’ io coll’ inimico
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r. 741-780 LIBRO XVI 35q
Avventurarmi alla battaglia. Intanto
Di Giove il figlio Sarpedonte giace,
Fortissimo guerriero, e l’abbandona,
Àbi! pure il padre. Ma tu, Dio pietoso,
Quest' acerba mia piaga or mi risana:
Deb! placane il dolor; forza m’aggiungi
Sì, che, i Licj compagni inanimando.
Io gli sproni al conflitto, e a me medesmo
Pugnar sia dato per l’ estinto amico.
Sì disse orando; ed esaudillu>il nume:
Della piaga sedò tosto il tormento,
Stagnonne il sangue, e gagliardi'a gli crebbe.
Sentì del Dio la man, fe lieto il core
L’esaudito guen-ier: de’ Licj in prima
A incitar corre d’ogni parte i duci
Alla difesa dell’estinto; move
Quindi a gran passi fra’Trojani, c chiama
Polidamante e Agénore, ed Enea
Anco ed Ettoire; e in rapide parole,
Lor fattosi davanti: Ettore, ei grida.
Tu dimentichi i prodi che per te
Dalla patria lontani e dagli amici
Spendono l’ alma , e tu lor nieghi aita.
Giace de’ Licj il condottiero , il giusto
Forte lor prence Sarpedon. Gradivo
Sotto Patrdclo l’atterrò: correte;
V’infiammi, amici, una giust’ ira il petto;
Non patite, per dio! che i Mirmidòni
Lo spoglino dell’ armi, e villania
Facciano al morto, vendicando i Dànai
Da noi spenti. — Sì disse ; e ricoperse
Dolor profondo le dardanie fronti;
Chè un gran sostegno, benché stranio, egli era
D’Ilio, e molta scguia gagliarda gente
Lui fortissimo in guerra. Difilati
Mosser dunque e serrati i teucri duci
Gontra il nemico; ed Ettore, fremente
Del morto Sarpedon, li precorrea.
D’altra parte Patrdclo, anima ardita,
Sprona l’acheo valor. Gli Ajaci in prima,
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36o
lUADE
>. 78i<8so
Già per sé caldi di coraggio, infiamma
Con questi detti: Ajaci, ora vi caglia
Di far testa a costoro, c vi mostrate
Quali un tempo già foste, anzi migliori.
Il canipion, che primiero la bastita
Saltò de' Greci, Sarpedontc, è steso.
Oh se fargli pur onta e strascinarlo
E spogliarlo dell' armi ne si déssc!
E stramazzargli accanto un qualcheduno
De' suoi compagni a disputarlo accinti !
Disse ^ c diè nel desio de' due guerrieri.
Quinci e quindi le schiere inanimate,
Trojani e Licj, Mirmiddni e Achei,
Sovra l’estinto s’azzufiar, mettendo
Orrende grida ^ e con fragore immenso
Risonavano l’armi. Un fiero bujo
Su l’aspra pugna allor Giove diffuse.
Onde costasse molta strage il corpo
Dell’ amato figliuol. Primi i Trojani
Respinsero gli Achei, spento Epigèo.
Del magnanimo Agàcle era costui
Illustre figlio, e fra gli audaci Tessali
Audaebsimo. A lui di Budio un giorno
L’alma terra obbedia. Ma, spento avendo
Un suo valente consobrino, ei supplice
A Peléo rifuggissi ed alla diva
Consorte : e questi a guerreggiar co' Teucri
D’Hìo ne’ campi lo spedir compagno
Dell’ omicida Achille. Or qui costui
Già l’ animose mani al combattuto
Cadavere mettea; quando d’un sasso
Ettore il giunse nella fronte , e tutta
In due gliela spezzò dentro l’elmetto.
Cadde prono sul morto l’infelice,
E chiuse i lumi nell’eterna notte.
Addolorato dell’ucciso amico.
Dritto tra’ primi pugnator scagliossi
Di Menézio il buon figlio: e qual veloce
Sparvicr che gracci paventosi e stomi
Sparpaglia per lo ciclo, c li persegue,
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».8ii-86o IIB*0 XVI
Tal nel denso de' Lic) e de’ Trojani
Irrompesti , o Patrdclo , alla vendetta
Del caduto compagno. A Stenelao,
Caro figlluol d’Itemenéo, percosse
D’un rude sasso la cervice, e i nervi
Ne lacerò. Piegàr, ciò visto, addietro
I combattenti della fronte^ ei pure
Piegò l’illustre Ettorre; c quanto è il tratto
Di strai che in giòstra o in omicida pugna
Vibra un buon gittator, tanto i Trojani
Dier volta addietro dall’Àcheo repulsi.
n primo che converse ardito il viso.
Fu de’ Licj scudati il capitano.
Glauco^ e a Baticle, di Calcon diletto
Magnanimo figliuol, tolse la vita.
In Grecia egli era possessor di molte
Splendide case, e per dovizia il primo
Fra i Tessali tenuto. A lui si volse
II Licio all’ improvvista, e il giavellotto
Gli Secò nelle coste appunto in quella
Che costui l’inseguiva, ed era in atto
Già d' afferrarlo. Ei cadde, e un fìragor cupo
Dieder l’armi sovr’esso. AUa caduta
Dell’egregio guerriero alto dolore
Gli Achei comprese ed alta gioja i Teucri,
Che stretti a Glauco s’ avanzàr più baldi.
Nè si smarrir gli Achivi, ma di . punta
Si spinsero allo scontro. E Merione
Laogono prostese, audace Gglio
D’Enétore che in Ida era di Giove
Sacerdote, e qual nume il popol tutto
Lo riveriva. Merion lo colse
Tra il confin dell’orecchio e della gota,
E tosto r alma usci del corpo , e lui
Un’ orrenda ravvolse ombra di morte.
Incontro all’uccisor la ferrea lancia
' Enea diresse^ e a lui che sotto 1’ orbe
Del gran pavese procedea securo.
Assestarla sperò. Ma quei , del colpo
Avvistosi, e piegata la persona.
36a
ILliDB
«. 8(>i-900
L’asta schivò che sibilante e lunga
Andò di retro a conficcarsi in terra.
Ne tremolò la coda; e quivi tutta
Perdè l’impeto e l’ira che la spinse.
Come fitto nel suolo, e indarno uscito
Enea si vide dalla mano il telo:
Per certo, o Menon, disse rabbioso,
Un assai destro saltator tu sei;
Ma questa lancia mia, se t’aggiungéa,
17 avrìa ferme le gambe eternamente.
E Merione di rimando: Enea,
Forte sei, ma ti fia duro la possa
Prostrar d’ognuno che al tuo scontro vcgna;
Gbè mortai se’ tu pure: c s’io con questa
In pieno ti corrò , con tutto il nerbo
Delle tue mani e la tua gran baldanza
La palma a me darai, lo spirto a Plnto.
Disse ^ e Patròclo, con rampona acerba
Garrendolo: Perchè cianci si vano
Tu che sei valoroso , o Meribne ?
Per contumelie, amico, unqua non fia
Che l’inimico quell’esangue ceda.
Ma col far che più d’un morda il terreno.
Orsù; lingua in consiglio, e braccio in guerra;
Tregua alle ciance, e mano al feiTO. — E dette
Queste cose, t’avanza; e l’altro il segue.
Quale & il romor che fanno i Icgnajuuli
In montana foresta, e lunge il suono
Va gli orecchi a ferir; tale il rimbombo
Per la vasta pianura si solleva
Di celate, di scudi e di loriche,
Altre di duro cuojo, altre di ferro.
Ripercosse dall’aste e dalle spade.
Ned . occhio il più scernente affigurato
Avvia l’illustre Sarpedon: tant’era
Negli strali, nel sangue e nella polve
Sepolto tutto dalla fironte al piede.
Senza mai requie al fireddo corpo intorno
Facean tutti baruffa; c quale è il zonzo.
Con che soglion le mosche a primavera
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, gai-9^0 363
Assalir, susurrando, entro il presepe
I vasi pastorali, allor che pieni
Sgorgan di latte ^ di costor tal era
La giravolta intorno a qnell’estinto.
Fissi intanto tenea nell’aspra pugna
Giove gli sguardi lampeggianti^ e seco
Sul fato di Patrdclo ornai maturo
Severamente nell’eterno senno
Consultando venia, se il grande Ettorre
Là sul giacente Sarpedon l’uccida,
E dell’ armi lo spogli^ o se preceda
ÀI suo morire di moli’ altri il fato.
E questo parve lo miglior pensiero;
Che del Pelide Achille il bellicoso
Scudier ricacci col lor duce i Teucri
Alla cittadc, c molte vite estingua.
Però d’Ettore al cor tale egli mise
Una vii tema, che, montato il cocchio.
Ratto in fuga si volse, ed alla fuga
I Trojani esortò, chiaro scorgendo
Inclinarsi di Giove a suo periglio
Le fatali bilance. Allor piè fermo
Neppur de’Licj lo squadron non tenne^
Ma tutti si fuggir, visto il trafitto
Re lor giacente sotto monte orrendo i
Di cadaveri: tante su lui caddero
Ànime forti, quando della pugna
A Giove piacque esasperar gli sdegni.
Cosi le corruscanti arme gli Achivi
Trasser di dosso a Sarpedonte, e altero
Alle navi inviolle il vincitore.
Allor l’eterno adunator de’ nembi
Ad Apollo cosi: Scendi veloce,
Febo diletto, e da quell’alto ingombro
D’armi sottraggi Sarpedonte, e terso
Dall’atro sangue altrove il porta, e il lava
Alla corrente, e lui d’ambrosia sparso
D’immortal veste avvolgi; indi alla Morte
Ed al Sonno gemelli fa precetto
Che all’opime di Licia alme contrade
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364
ILIADE
941-960
Il portino velaci, ove di tomba
E di colonna, onor de’ morti, egli abbia
Da’ fratelli conforto e dagli amici.
Disse ^ e al paterno cenno obbediente
Calessi Apollo dall’idèa montagna
Sul campo sanguinoso; e in un baleno
Di sotto ai dardi Scu'pedon levando,
E lontano il recando, alla corrente
Tutto lavello, e l’irrigò d’ambrosia,
E di stola immortai lo ricoperse.
Quindi al Sonno comanda ed alla Morte
D’ indossarlo , e portarselo veloci :
E quei subitamente ebber deposto
Nella licia contrada il sacro incarco.
In questo mentre di Menézio il figlio,
I cavalli e l’auriga inanimando.
Ai Licj dava e ai Dirdani la caccia.
Stolto 1 cbè in danno gli tornò dassezzo.
Se d’Achille obbedia saggio al comando.
Schivato ei certo della Parca avrebbe
II decreto fatai; ma più possente
È di Giove il voler, che de’ mortali.
Arbitro della tema, ei mette in fuga
I più forti a suo senno; e allor pur anco
Ch’egli medesmo a battagliar li sprona,
Lor toglie la vittoria: e questo ei fece.
D’audacia empiendo di Patròclo il petto.
Or qual prima, qual poi spingesti a Plutu,
Quando alla morte ti chiamar gli Dei,
Magnanimo guerrieri Fur primi Adrcsto,
Autònoo, Eicheclo, ed Epistorre e Pcrimo,
Prole di Mega, e Melanippo; quindi
Elaso e Mulio con Pilarte; e come
Stese questi al terren, gli altri non fùro
Lenti alla fuga. E per Patròelo allora
(Ch'ei dirotto nell’ira innanzi a tutti
Furiava coll’asta) avrian di Troja
Consumato gli Achei l’alto conquisto;
Ma Febo Apollo lo vietò calato
Su l’erta d’una torre, alto disastro
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LIBRO XVI
365
V. g8l-l090
Meditando al guerriero, e scampo ai Teucri.
Tre volte il cavalier dell'arduo muro
Su gli sproni montò; tre volte il’ nume
Colla destra immortai lo risospinse,
Forte picchiando sul lucente scudo.
Ma come più 'feroce al quarto assalto
L’eroe spiccossi, minacciollo irato
Con fiera voce il saettante iddio:
Addietro, illustre baldanzoso, addietro;
Alla tua lancia non concede il fato
Espugnar la città de’ generosi
Teucri, nè a quella pur del grande Achille
Sì più forte di te. — Questo sol disse;
Ed il guerriero retrocesse, e l’ira
Schivò del nume che da lungi impiaga.
Avea frattanto su le porte Scee
De’ suoi fuggenti corridori Ettorre
Rattenuta la foga, e in cor dubbiava,
Se spronarli dovesse entro la mischia
Novellamente, e rin&escar la pugna,
0, chiamando a raccolta, entro le mura
L’esercito ridurre. A lui, nel mezzo
Di questo dubbio, app^entossi Apollo,
Tolte d’Asio le forme. Era d’Ettorrc
Zio cotest’Asio, ad Eie uba germano,
E nondimeno ancor di giovinezza
Fresco e di forze, di Dimante figlio.
Che del frigio Sangario in su le rive
Tenea sno seggio. La costui sembianza
Presa, il nume sì disse; Ettor, perché
Cessi dall’armi? È d’un tuo pari indegna
Questa desidia. Di vigor vincessi
lo te quanto tu me! ben io pentirti
Farei del tuo riposo. Orsù; converti
Contra Patrdclo que’ destrieri , e trova
D’atterrarlo una via: fa che l’onore
Di questa morte Apollo ti conceda.
Disse; e di nuovo il Dio nel travaglioso
Conflitto si confuse. In sé riscosso
Ettore, al franco Cebr'ion fc cenno
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366
ILIADE
' lOll-Ioto
Di sferzargli i destrieri alla battaglia;
Ed Apollo, per mezzo ai combattenti
Scorrendo occulto, seminava intanto
Tra gli Achei lo scompiglio e la paura,
E fea vincenti col lor duce i Teucri.
Sdegnoso Ettorre di ferir sul'Tolgu
De' nemici , spingea solo in Patroclo
I gagliardi cavalli; e ad incontrarlo
Diè il Tessalo dal cocchio un salto in terra
Coll'asta nella manca, e colla dritta
Un macigno afferrò aspro che tutto
Empieagli il pugno, c lo scagliò di forza.
Fallì la mira il colpo, ma d'un pelo:
Nè però vano usci; chè nella fronte
L' ettòreo auriga , Cebrìou , percosse ,
Tutto al governo delle briglie intento,
Cebrion che nascea del re trojano
Valoroso bastardo. Il sasso acuto
L'un ciglio e l'altro sgretolò, nè l'osso
Sostenerlo poteo. Divelti al piede
Gli schizzàr gli occhi nella sabbia; ed esso.
Qual suole il nótator, fece, cadendo
Dal carro, un tomo, e l'agghiacciò la morte.
E tu, Patróclo, con amari accenti
Lo schernisti così: Davvero è snello
Questo Trojano : ve' ve' come ci tombola
Con leggiadria! Se in pelago pescoso
Capitasse costui, certo saprebbe,
Saltando in mar, foss’ anche in gran fortuna.
Dallo scoglio spiccar conchiglie e ricci
Da saziarne molte epe: sì lesto
Saltò pur or dal carro a capo in ginso.
Oh gli eccellenti nótator che ha Troja I
Sì dicendo, awentossi a Cebrìone
Come 6ero hon che, disertando
Una greggia, piagar si sente il petto,
£ dal proprio valor morte riceve.
Ma ratto contro a quel furor si slancia
Ettore dalla biga; e i due superbi
Incomincian col ferro a disputarsi
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LIBRO XVI
367
f. I06I-I10O
L'esangue Cebrion. Qual due h'oni
Che per gran fame e per gran cor feroci
S' azzuffano d'un monte in su la cima
Per la contesa d'una cerva uccisa^
Non altrimenti i due mastri di guerra,
L'intrepido Patrdclo e il grande Ettorrc,
Àrdono entrambi del crudel desio
Di trucidarsi. Il teucro eroe la testa
Del cadavere afferra, e lo ghermisce
11 Tessalo d'un piede, e la sua presa
Nè quei nè questi di lasciar fa stima.
AUor Trojani e Àchivi una battaglia
Appiccàr disperata. E qual gareggiano
D’Euro e di Noto i forti fiati a svellere
Nelle selve montane il faggio e il frassino
Ed il ruvido comio^ e questi all’aere
Dibattendo le lunghe e larghe braccia
Con immenso ruggito le confondono.
Finché li vedi fracassarsi , e opprimere
Fragorosi la valle^ a questa immagine.
L’un su l’altro scagliandosi, combattono
Trojani e Dànaì del fuggir dimentichi.
Dintorno a CebrVon folta conficcasi
Una selva d’acute aste e d’aligeri
Dardi guizzanti dalle cocche; assidua
D’enormi sassi una tempesta crepita
Su gli ammaccati scudi; ed ci nel vortice
Della polve giacca grande cadavere
In grande spazio, eternamente, ahi misero!
Dei cari jn vita equestri studi immemore.
Finché del Sole ascesero le rote
Verso il mezzo del ciel, d’ambe le parti
Usciano i colpi con egual mina,
E la gente cadea. Ma quando il giorno
Su le vie dechinò dell’occidente,
Prevalse il fato degli Achei che alfine
Dall’acervo dei teli, e dalla serra
De’ Trojani involar di Cebri'one
La salma, e l’armi gli rapir di dosso.
Qui fu che pieno di crudel talento
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368
ILliDE
V. kOOI'll^O
Urtò Patróclo i Troi. Tre volle il fiero
Con gridi orrendi gli assali, tre volte
Spense nove guerrier; ma come il quarto
Impeto feee, e parve un Dio, la Parca
Del viver tuo raccolse il filo estremo,
Miserando garzoni ché ad incontrarti
Venia tremendo nella mischia Apollo.
Nè camminar tra l'armi alla sua volta
L’eroe lo vide; chè una folta nebbia
Le divine sembianze ricoprìa.
Vennegli a tergo il nume, e colla grave
Palma sul dosso tra le late spalle
Gli dechinò si forte una percossa,
Che abbacinossi al misero la vista,
E girò l’intelletto. Indi dal capo
Via saltar gli fe l’elmo il Dio nemico;
E l’elmo, al suolo rotolando, fece
Sotto il piè de’ corsieri un tintinnio ,
E si bruttarci del cimier le creste
Di sangue e polve; nè di polve in pria
Insozzar quel cimiero era concesso.
Quando l’intatto capo e la leggiadra
Fronte copriva del divino Achille.
Ma in quel giorno fatai Giove permise
Che d’Ettore passasse in su le chiome
Vicino anch’ esso al fato estremo. Allora
Tutta a Patróclo nella man si franse
La ferrea, lunga, ponderosa e salda
Smisurata sua lancia, e sul terreno
Dalla manca gli cadde il gran pavese.
Rotto il guinzaglio. Di sua man l’usbergo
Sciolsegli alfine di Latona il figlio;
E l’infelice allor del tutto uscio
Di sentimento; gli tremerò i polsi;
Ristette immoto, sbalordito; e in quella
Tra l’una spalla e l’altra lo percosse
Coll'asta da vicin di Panto il figlio.
L’audace Euforbo, un Dàrdano che al corso
E in trattar lancia c maneggiar destrieri
La pari gioventù vincea d’assai.
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UBHO SVI .
369
ii^i-iiSa
La prima volta che (nblimc ei parve
Su la biga a imparar dell’ armi il duro
Meatier, venti guerrieri al paragone
Riversò da’ lor cocchi ; ed or fu il primo
Che ti feri, Patròclo, e non t’uccise.
Ansi, dal corpo ricovrando il ferro,
Si fuggi pauroso, e nella turba
Si confuse il fellon, che di Patròclo
Benché piagato e già dell’armi ignudo
Non sostenne la vista. Da quel colpo ,
E più dall’urto dell’awerso Dio
Abbattuto, l’eroe si ritirava
Fra’ suoi compagni ad iscbivar la morte.
Ed Ettore, veduto il suo nemico
Retrocedente e già di piaga offeso ,
Tra le file vicine gli si strinse}
Nell’Imo casso immerse l’asta, e tutta
Dall’altra parte riuscir la fece.
Risonò nel cadere, ed un gran lutto
Per l’esercito achivo si difihse.
Come quando un bone alla montagna
Cinghiai di forze smisurate assalta,
E l’uno e l’altro di gran cor fan lite
D’nna povera fonte, al cui zampillo
Yeniano entrambi ad ammorzar la sete;
Alfin la belva dai robusti artigli
Stende anelo il nemico in so l’arena;
Tal di Menézio al generoso figlio.
De’ Teucri struggitor, tolse la vita
n trojan duce ; e al moribondo eroe
Orgoglioso insultando: Eicco, dicea.
Bieco, o Patròclo, la città che dianzi
Atterrar ti credesti; ecco le donne
Che ti sperasti di condor captive
Alla patema Ftia. Folle! e non sai
Che a difesa di queste anco i cavalli
D’ Ettòr son pronti a guerreggiar co’ piedi ?
E che fila’ Teucri bellicosi io stesso
Non vii guerriero maneggiar so l’asta,
E preservarli da servii catena?
Moni. lUade, s4
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3^0 ILIIDB, LIBRO XVI ngi.1119
Tu frattanto qui «tatti orrido pasto
D' avoltoi. Che ti valse, o sventurato,
Quel tuo si forte Achille? Ei molti avvisi
Ti dié certo al partire: O cavaliere.
Caro Patrdclo, non mi far ritorno >
Alle navi, se pria dell’omicida
Ettór sul petto non avrai spesiato
Il sanguinoso usbergo... Ei certo il disse ^
E a te, stolto che fosti! il persuase.
E a lui cosi l’eroe languente; Or puoi
Menar gran vampo, Ettorre, or che ti diero
Di mia morte la palma Apollo e Giove.
Essi, non tu, m’han domo^ essi m’han tratto
L’armi di dosso. Se pur venti a fronte
Tuoi pari in campo mi venian, qui tutti
Questo braccio gli avrìa prostrati e spenti.
Ma me per rio destin qui Febo uccide
Fra gl’immortali, e tra’ mortali Euforbo,
Tu terzo mi dispogli. Or io vo’ dirti
Cosa che in mente collocar ben devi ;
Breve corso a te pur resta di vita;
Già t’incalza la Parca; e tu cadrai
Sotto la destra dell’invitto Achille.
Disse, e spirò. Disciolta dalle membra.
Scese l’alma a Pluton, la sua piangendo
Sorte infelice e la perduta insieme I
Fortezza e gioventù. Sovra l’estinto ■
Arrestatosi Ettorre: A che mi vai i < ’
Profetando, dicea, morte funesta? i il
Chi sa che questo della bella Teli '‘'~jr.il il
Vantato figlio, questo Achille a Dite I
Cólto dall’asta mia non mi preceda ?o ' •
Cosi dicendo, lo calcò d’un piede; .
Gli svelse il telo dalla piaga, e lungi '
Lui supino gittò. Poi ratto addosso
All’ auriga d’AchiUe si disserra.
Di ferirlo bramoso. Invan; chè altrove
Gl’immortali sai portano corsieri i i
Che in bel dono a Peléo diero gli Dei. -
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LIBRO DECIMOSETTIMO
:
ARGOMENTO
«i pPM * gotrdù ikl cocpo «fi Pttroelo, «di aedds Euibriio dM volava ìib|ni<
4nMÙmae. Sopnwciigoao { Tro]aoi guidali da Ettore. Menelao lì ritira, ed Ettore •'io^
poucua delie ermi d’Achille, delle quali ù riveete. I Greci , chiamati da Menelao per eoo*
liglio d'Ajaea Tclamonio, si riitringono iatoroo al morto Patroclo. Qui arde il
maggiore, owoUe uD*improvvUa caligine ricopre i combatteati che li anofFaoo al tnijo. La
Debbia b rimoica da GiAve a* preghi d’Aiacc. Meoetao maada Aotfloeo ad animnciare ad
Achille la morte di Patroclo. Praltaoto Meoelao e Marioua , levalo d mollo da terra , lo
Ire^portaoo vcno il lido d«l mare, protetti dai due Ajacl. Enea ed Ettore cogli altri Tro*
)aaì iiKilaant» I Gieet fuggitivi.
Visto in caupo cader dai Teocrì ucciso
Patròclo, s’aransó d’anni splendente
n bellicoso Menelao. Si pose
Del morto alla difesa, e il circuiva
Qual soole mugolando errar dintorno
Alla tenera prole una giovenca ,
Cui di madre sentir fe il dolce affetto
Del primo parto la fatica. H forte
Davanti gli sporgea l’asta e lo scudo,
Pronto a ferir qual osi avvicinarsi.
Ma sul caduto eroe di Panto il figlio
Rivoló, si fe presso, e baldanzoso
All’Àtride gridò: Duce di genti.
Di Giove alunno Menelao, recedi^
Quell’estinto abbandona, e a me le spoglie
Sanguinose ne lascia , a me che primo
Tra tutti e Teucri ed alleati in aspra
Pugna il percossi. Non vietarmi adunque
Quest’ alta gloria fra’Trojani^ o ch’io
Col ferro ti trarrò Palma dal petto.
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ILlàDE
ii«6o
37»
Eterno Giove, gli rispose irato
Il biondo Menelao, dove s'intese
Più sconcio millantar? Nè di pantera.
Nè di lion fu mai, nè di robusto
Truculento cinghiai tanto l'ardire.
Quanta spiran ferocia i Pantoidi.
E pur che vabe il £or di gioventude
A quel tuo di cavalli agitatore
Fratello Iperenòr^ quando chiamarmi
Il piu codardo de’ guerrieri achei^
E aspettarmi s’ardi? Ma noi tomaro
I proprj piedi alla magion, mi credo.
Di molta festa abbietto ai venerandi
Suoi genitori e alla diletta sposa.
Farò di te, se innoltri, ora lo stesso.
Ma t’esorto a ritraiti, e pria che qualche
Danno ti colga, dilungarti. Il fatto
Rende accorto, ma tardi, anche lo stolto.
Disse; e fermo in suo cor l’altro riprese:
Pagami or dunque, o Menelao, del morto
Mio fratello la pena e del tuo vanto.
D’una giovine sposa, è ver, tu festi
Vedovo il letto, e d’inefiabil lutto
Fosti cagione ai genitor; ma dolce
Farò ben io di quei meschini il pianto.
Se carco del tno capo e di tue spoglie
In man di Panto e della dia Frontide
Le deporrò. Non piè parole: il ferro
Provi qui tosto chi sia prode o vile.
Feri, ciò detto, nel rotondo scudo.
Ma noi passò; chè nella salda targa
Si ritorse la punta. Impeto fece,
Giove invocando, dopo lui l’Atride;
E al nemico, che in guardia si traea,
Nell’imo gorgozzul spinta la picca.
Ve l’ immerge di forza, e gli trafora
Il delicato collo. Ei cadde, e sopra
Gli tonàr l’armi: c della chioma, a quella
Delle Grazie simil, le vaghe anella.
D’auro avvinta e d'argento, insanguinàrsi.
P ; • by Coogle
LIBRO XTU
V. 61-100
Qual d'oliro gentil pianta nudrita
In lieto d'acque solitario loco
Bella sorge e frondosa^ il molle fiato
L’accarezza dell’aure, e mentre tutta
Del suo candido fiore si riveste,
Un improvviso turbine la schianta
Dall’ ime barbe, e la distende a terra^
Tal l’Àtride prostese il valoroso
Figliuol di Panto, Euforbo, e a dispogliarlo
Corse dell’armi. Come quando un forte
Lì'on montano una giovenca afferra
Fior dell’armento , co’ robusti denti
Primo il collo le frange, indi sbranata,
Le sanguinose viscere n’ingozza^
Alto di cani intorno e di pastori
Romor si leva , ma niun s’ accosta;
Ghè affrontarlo non osano, compresi
Di pallido timor; cosi nessuno
Ardla de’ Teucri al baldanzoso Atride
Farsi addosso; e all’ucciso ei tolte l’armi
Agevolmente avri'a, se, questa lode
Gl’ invidiando Apollo, incontro a lui
Non incitava il marziale Ettorre.
Di Menta, duce de’ Cleoni, ei prese
Le sembianze , e gridò queste parole :
Ettore, a che del bellicoso Achille,
Senza speranza d’ arrivarli, insegui
Gl’immortali corsieri? Umana destra
Mal li doma; e guidarli altri non puote.
Che Achille, germe d’ima Diva. Intanto
Il forte Atride Menelao, la salma
Di Patroclo salvando, a morte ha messo
Un illustre Trojan, di Panto il figlio,
E ne spense il valor. — Ciò detto, il Dio
Ritornò neUa mischia. Alto dolore
L’ettòreo petto circondò; rivolse
L’eroe lo sguardo per le file in giro;
E tosto dell’ esimie armi veduto
n rapitore , e l’ altro al suol giacente
In un lago di sangue, oltre si spinse
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3^4 IllADB iol-l4o
Scintillante nel ferro come lingua
Del vivo fuoco di Vulcano, e mise
Acuto un grido. Udillo, e sospirando
Nel segreto suo cor disse l’Atride:
Misero, che farò? Se queste belle
Armi abbandono e di Menczio il figlio
Per onor mio qui steso, alla mia fuga
Gli Achei per certo insulteran^ se solo,
Da pudor vinto, con Ettór mi provo
E co’ suoi forti , io sol da molti oppresso
Cadrò ^ chè tutti il condottier trojano
Seco i Teucri ne mena a questa volta.
Ma che dùbbia il mio cor? Chi con avversi
Numi un guerrier, che sia lor caro, affronta.
Corre alla sua mina. Alcun non fia
Dunque de’ Greci che con me s' adiri ,
Se davanti ad Ettorre, a lui, che pugna
Per comando d’un nume, io mi ritraggo.
Pur se avverrà che in qualche parte io trovi
n magnanimo Ajace, entrambi all’armi
Ritorneremo allor, pur centra un Dio,
E a sollievo de’ mali opra faremo
Di trar salvo ad Achille il morto amico.
Mentre tal cose gli ragiona il core,
Da Ettore precorse ecco de’ Teucri
Sopravvenir le schiere. Allora ei cesse ,
E il morto abbandonò , gli occhi volgendo
Tratto tratto all’ indietro , a simiglianza
Di giubbato h'on cui da’ presepi
Caccian cani e pastor con dardi ed urli.
Freme la belva in suo gran core, e parte
Mal suo grado dal chiuso; a tal sembianza
Da Patroclo partissi il biondo Atride.
Giunto ai compagni, s’arrestò, si volse,
Cercando in giro collo sguardo il grande
Figliuul di Telamone, e alla sinistra
Della pugna il mirò , ebe alla battaglia
Animava i suoi prodi , a cui poc’ anzi
Febo avea messo nelle vene il gelo
D’un divino terror. Corse, e, veloce
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UB&0 XTU
375
141-180
Raggiuntolo, gridò: Qua tosto, Ajace^
Vola, amico ^ affirettiamci alla difesa
Di Pàtroclo^ serbiamne al diro Achille
11 nudo corpo almeno poiché deU'armi
Già si fece signor l’altero Ettorrc.
Turhàr la generosa alma d’Ajace
Queste parole^ s’ avviò, si spinse
Tra i guerrieri davanti, in compagnia
Di Menelao. Per l’atra polve intanto
Strascinava di Patroclo la nuda
Salma il duce trojano, onde troncarne
Dagli òmeri la testa, e far del rotto
Corpo ai cani di Troja orrido pasto.
Ma gli fu sopra col turrito scudo
U Telamónio; retrocesse Ettorre
Nella torma de’ suoi, d’un salto ascese
Il cocchio, e le rapite armi famose
Dielle ai Teucri a portar nella cittade,
D’alta sua gloria monumento. Allora,
Coll’ampio scudo ricoprendo il figlio
Di Menézio , fermossi il grande Ajace.
Come lion cui, mentre al bosco mena
I leoncini, soprawien la turba
De’ cacciatori , si rapirà il fiero ,
Che sente la sua forza, intorno ai figli,
E i truci occhi rivolve, e tutto abbassa
II sopracciglio che gli copre il lampo
Delle pupille^ a questo modo Ajace
Circuisce e protegge il morto eroe.
Dall’altro lato è Menelao cui l’alta
Doglia del petto tuttavia ricresce.
De’Licj il eondottier, dauco, buon figlio
D’ Ippòloco , ad Ettòr volgendo allora
Bieco il guardo, con detti aspri il garrisce :
O di viso sol prode, e non di fatto,
Ettore! a torto te la fama estolle,
Te si pronto al fuggir. Pensa alla guisa
Di salvar la cittade e le sue ròcche
Quindi innanzi tu sol colla tua gente;
Che nessuno de’ Licj alla salvezza
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ILUDE
r. iSl-UO
D'Uio co' Greci pugnerà, nessuno,
Da che teco nessun merlo s’acquista
Col sempre battagliar contro il nemico.
Sciaurato! e qual dunque avrai tu cura
De’ minori guerrier , tu che lasciasti
Preda agli Argivi Sarpedon, che , mentre
Visse, a Troja fu scudo ed a te stesso?
E ti sofferse il cor d’ abbandonarlo
Allo strazio de’ cani ? Or se a mio senno
Faranno i Licj, partiremci, e tosto ^
E d’Uio apparirà l’alta mina.
Ohi s’or fosse ne’ Troi quella fort’alma.
Quell’ intrepido ardir che ne’ conflitti
Scalda gli amici della patria veri.
Noi dentr’llio trarremmo immantinente
Di Patroclo la salma. Ove un cotanto
Morto, sottratto dalla calda pugna,
Strascinato di Priamo ne fosse
Dentro le mura, renderian gli Achei
Di Sarpedonte le bell’armi e il corpo
Pronti a tal prezzo^ perocché l’ucciso
Di quel forte è 1’ amico che di possa
Tutti avanza gli Argivi , e schiera il segua
Di bellicosi. Ma del fiero Ajace
Tu non osasti sostener lo scontro.
Nè lo sguardo fra l’armi, e via fuggisti^
Perchè minore di valor ti senti.
Con bieco piglio fe risposta Ettorre:
Perchè tale qual sei. Glauco, favelli
Cosi superbo? Io ti credea per senno
Miglior di quanti la feconda gleba
Della Licia nudrisce. Or veggo a prova
Che tu se’ stolto , se affermar t’ attenti
Che d’Ajace lo scontro io non sostenni.
Nè la pugna io, no, mai, nè il calpestio
De’ cavalli pavento , ma di Giove
L’alto consiglio che ogni forza eccede.
Egli in fuga ne mette a suo talento
Anche i più prodi, e ne’ conflitti or toglie.
Or dona la vittoria. Orsù; vien meco^
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LIBRO XTIl
9. aiifs6o
377
Suiti, amico, al mio fianco, e vedi al latto.
Se quel vile sarò tutto quest'oggi
Che tu dicesti, o se saprò l’ardire
Di qualunque domar gagliardo Acheo
Che del morto s’innoltri alla difesa.
Quindi, le schiere inanimando, grida:
Teucri, Dàrdani, Licj, or vi mostrate
Uomini, e il petto vi conforti, amici.
Dell’antico valor la rimembranza,
Mentre l’armi d’Achille, da me tolte
All’ucciso Patrdclo, io mi rivesto.
Disse ^ e corse, e raggiunse in un baleno
Delle bell’arme i porUtori^ e, date
A recarsi nel sacro Ilio le sue,
Fuor del conflitto ed a’ suoi prodi in mezzo
Le immorUli si cinse armi d’Achille,
Dono de’ numi al genitor Peldo,
Che poi vecchio le cesse al suo gran figlio:
Ma il figlio in quelle ad invecchiar non venne.
Come il sommo de’ nembi adunatore
Del Peh'de indossarsi le divine
Armi lo vide, crollò il capo, c seco
Nel suo cor favellò : Misero ! al fianco
Ti sta la morte, e tu noi pensi, e l’armi
Ti vesti dell’ eroe che de’ guerrieri
Tutti è il terrore, a cui tu il forte hai spento
Mansueto compagno^ armi d’eterna
Tempra a lui tolte con oltraggio. Or io
D’alta vittoria ti farò superbo,
E compenso sarà del non doverti
Andròmaca, al tornar dalla battaglia.
Scioglier l’usbergo del Peh'de Achille.
Disse ^ e , l’ arco de’ negri sopraccigli
Abbassando, d’Ettorrc alla persona
Adattò l’armatura. Al suo contatto
Infiammossi l’eroe d’un bellicoso
Orribile furor^ tutte di forza
Senti inondarsi e di valor le vene.
Degl’incliti alleati, alto gridando,
Quindi avviossi alle caterve, e a tutti
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378
ILIADE
r. a0i.3oo
Veder sembrava folgorar nell’ armi
Del magnanimo Achille Achille ittesso.
E d’ogni parte ognnn riconfortando,
Mestle, Glauco, Tersiloco, Medonte,
Asteropéo, Disénore, Ippotdo,
E Cròmio, e Porci, e l’indovino Enndmo,
Con questi accenti li raccese: Udite,
Collegati: non io dalle vicine
Gittadi ad Ilio ragunai le vostre
Numerose coorti, onde di gente
Far molta mauo^ chè mestier non m’era;
Ma perchè meco da’ feroci Achei
Le teucre spose ne servaste e i 6gli
Con pronti petti. Di tributi io gravo
In questo intendimento il popol mio
Per satollarvi. Dover vostro è dunque
Voltar dritta la fronte all’inimico,
E o salvarsi o perir; chè della guerra
Questo è il commercio. A chi di voi costringa
Ajace in fuga , e de’ Trojani al campo
Tragga il morto Patrdclo, a questi io cedo
La metè delle spoglie, e andrà divisa
Egual con esso la mia gloria ancora.
Al fin delle parole alz&r le lance
Tutti, e al nemico s’addrizzàr di punta
Con grande in core di strappar speranza
Dalle mani del gran Telamonide
Il morto : folli ! chè sul morto istesso
Quell’ invitto dovea farne macello.
Àllor rivolto Ajace al battagliero
Menelao, cosi disse: Illustre Atride,
Caro alunno di Giove, assai pavento S
Ch’ or salvi usciamo dell'acerba pugna.
Nè sì tem’ io per Pàtroclo, che parmi
Del suo corpo farà tosto di Troja
Sazi i cani e gli augei, quanto pel mio
E pel tuo capo un qualche sconcio: vedi
Quella nube di guerra che già tutto
Ricopre il campo? D’Ettore son quelle
Le falangi , e su noi pende una grave
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, 301-340 libro XVII 379
Manifesta rovina. Orsù; de' Greci ,
Se udir ti ponno, i più valenti appella.
Non fe niego il guerriero , e a tutta gola
Gridava: Amici, capitani achei,
Quanti aUe mense degli Atridi in giro
Propinate le tazze, ed onorali
Dal sommo Giove i popoli reggete.
Nell' arder della zuffa il guardo mio
Non vi distingue, ma chiunque ascolta
Deh! corra, e sdegno il prenda che Patitelo
Ludibrio resti delle frigie belve.
Ajace , d'Oiléo veloce figlio,
Udillo, e primo per la mischia accorse^
Idomenéo dop’ esso e Merìone
In sembianza di Marte. E chi di tutti,
Che poi la pugna rintegràr, potrìa
Dire i nomi al pensier? Primieri i Teucri
Stretti insieme fór impeto, precorsi
Dal grande Ettorre. Come quando all'alta
Foce d’un fiume, che da Giove è sceso.
Freme ritroso alla corrente il flutto
Eruttato dal mar^ mngghian con vasto
Rimbombo i lidi^ simigliante a questo
Fu de’ Teucri il clamor. Dall’altro lato
Tutti d’un cor con assiepati scudi
Gli Achei fér cerchio di Menézio al figlio,
E il Saturnio dintorno ai rilucenti
Elmi un’atra caligine spandea;
Chè d’Achille l’amico il Dio dilesse,
Mentre fu vivo, e ch’egli or sia di fiere
Orrido cibo sofferir non puote.
A pugnar quindi per la sua difesa
I compagni eccitò. Nel primo cozzo
1 Trojani respinsero gli Achivi,
Che sbigottiti abbandonar l’estinto.
Nè i Trojani però, benché bramosi,
Dieder morte a verun, solo badando
A predar il cadavere^ ma presto
Si raccostàr gli Achei ^ chè il grande Ajace,
E d’aspetto e di forze il più prestante
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38o
O.UDB
p. 34i4«o
Sovra tatti gli Achei dopo il Pelide,
Tostamente voltar fironte li fece.
Tra gl’ innanzi l’eroe quindi si spinse,
Pari ad ispido verro alla montagna,
Che con subita fiiria si converte
Fra le roste, e sbaraglia de’ gagliardi
Cacciatori la turba e de’ molossi.
Così di Telamon l’esimio figlio
De’Trojani disperde le falangi
Che a Patrdclo fan calca, e strascinarlo
Si studiano in trionfo entro le mura.
Illustre germe del Pelasgo Leto,
Ippdtoo , gli avea d’un saldo cuojo
Ai nervi del tallon l’un piede avvinto,
E di mezzo al ferir de’ combattenti
Per la sabbia il traea, grato sperando
Farsi ad Ettorre ed ai Trojani: ed ecco
Giungergli un danno che nessun, quantunque
Desideroso, allontanar gli seppe.
Fra la turba avventassi, e su le guance
Dell'elmo Ajace disserrògli un colpo
Cbe tutto lo spezzò: tanto dell’asta
Fu il picchio e tanto della mano il pondo.
Schizzàr per l’aria le cervella e il sangue
Dall’aperta ferita, e tosto a lui
Quetàrsi i polsi^ dalle man gli cadde
Del morto il piede ^ e sovra il morto ci pure
Boccon cadde, e spirò lungi dai campi
Di Larissa fecondi: nè poteo
Dell’ averlo educato ai genitori
Rendere il premio^ perocché d’ Ajace
La gran lancia fe brevi i giorni suoi.
Contro Ajace l’acuta asta allor trasse
Ettore; e l’altro, visto l’atto, alquanto
Dechinossi, e schivolla. Era di costa
Schedio, d’Ifito generoso figlio.
Fortissimo Focense che sua stanza ,
Di molta gente correttor, tcnea
Nell’ inclita Panópe. A mezza gola
Colpillo, e tutta al sommo della spalla
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*. 381.410 UBBO XVII 38 1
La ferrea punta gli passò la strozxa.
Cadde il trafitto con fragore, e cupo
S'udl dell’ armi il tuou sopra il suo petto.
Àjace di rincontro in mezzo all’epa
Di Fendpo il figUuol, Porci, percosse,
Forte guerrier che messo alla difesa
D’Ippòtoo s’era. Il furioso ferro
Ruppe l’incavo del torace, ed alto
Ne squarciò gl’intestini. Ei cadde, e strinse
Colla palma il terrea. Dier piega allora
I primi in zuffa, ripiegossi ei pure
L’illnstire Ettorre^ e con orrende grida
D’Ippòtoo e Porci strascinàr gli Argivi
Le morte salme, e le spogliar. Compresi
Di viltade i Trojani, e dalle greche
Lance incalzati allor, verso le rócche
Sarìan d’ilio fuggiti, e avrìan gli Argivi
Contro il decreto del tonante Iddio
In lor solo valor vinta la pugna.
Se Apollo a tempo la virtù d’Enea
Non ridestava. Le sembianze ei prese
Dell’Epitide araldo Perifante,
Che in tale officio a molta età venuto
Del vecchio Anchise nelle case, istrutta
Di fedeli consigli avea la mente. '
Cosi cangiato, a lui disse il divino
Figlio di Giove: Enea, l’eccelsa Troja
Contro il volere degli Dei periglia:
Chè non la cerchi di salvar? l’esemplo
Chè non imiti degli eroi eh’ io vidi
D’ogni cimento trionfar, fidati
Nel vsJor, nell’ ardir, nella fortezza
Del proprio petto e delle molte schiere
Che li seguiano, invitte alla paura ?
Più che agli Achivi, a noi Giove per certo
Consente la vittoria^ ma chi fugge
Trepido e schiva di pugnar, la perde.
Fisse a tai detti Enea lo sguardo in viso
Al saettante nume, e lo conobbe;
E, d’Ettore alla volta alzando il grido:
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38a
... «1I.4C.
n.(ADB ,
Ettore, ei ditse, e voi degli alleali
Capitani e de’ Teucri, oh qual vergogna
S’or per nostra viltà domi dal ferro
De’ bellicosi Achei risaliremo
D’Ilio le mura! Un Dio m’apparve, e disse
Che l’arbitro dell’ armi eterno Giove
Ne difende. Corriam dunque diritto
All’inimico: e almen non sia che il morto
Pàtroclo ei seco ne trasporti in pace.
Al 6n delle parole innanzi a tutta
La prima fronte si sospinse, e stette.
Si conversero i Teucri, ed agli Achei
Mostràr la faccia arditamente. Allora
Coll’asta Enea Ledcrito, figliuolo
D’Arisbante, ferì, forte compagno
Di Licomede che al caduto amico
Pietoso accorse; e, fattosi vicino,
Fermossi, e la fulgente asta vibrando,
D’Ippaso il figlio, Apisaon, percosse
Nell’ epate di sotto alla corata ,
E l’ atterrò. Venuto era costui
Dalla fertil Peonia, ed era in guerra
n più valente dopo Asteropéo.
Senti pietade del caduto il forte
Asteropéo; e di zulTa desioso
Si scagliò tra gli Achei. Ma degli scudi
E dell’ aste protese ei non potea
Rompere il cerchio che Patroclo serra.
E Ajace, intorno s’avvolgendo, a tutti
Molti dava comandi, e non patta
Che alcun dal morto allontanasse il piede,
O fuor di fila ad azzuffarsi uscisse;
Ma fea precetto a ciaschedun di starsi
Saldi al suo fianco, e battagliar dappresso.
Tal dell’enorme Ajace era il volere,
E tutta in rosso si tingea la terra.
Teucri, Argivi, alleati alla rinfusa
Cadon trafitti; chè neppur gli Argivi
Senza sangue combattono, ma n’esce
Minor la strage; perocché l’un l’altro
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uno XVII
383
•. 46i-5m
Nel travaglio fatai si porge aita.
Cosi qual vasto incendio arde il conflitto;
E del Sol detto avresti e della Luna
Spento il chiaror: cotanta era sul campo
L’atra caligo che dintorno al morto
Patroclo il fiore de’ guerrier coprìa,
Mentre l’nil’ oste e l’altra a ciel sereno
Libera altrove combattea. Su questi
Puro si spande della luce il fiume ; '
Nessuna nube al pian, nessuna al monte. '
Cosi la pugna ha i suoi riposi; e, molto
Spazio correndo tra i pugnanti, ognuno
Dalle mutue si scherma aspre saette. ' /
Ma cotesti di mezzo hanno travaglio
Dall’armi a un tempo e dalla nebbia, e il ferro
1 più prestanti crudelmente oflcnde. ' ’
Sol due guerrieri non avean per anco '■
Del buon Patróclo la ria morte udita.
Due guerrier gloriosi, Trasiméde
E Antiloco; ma vivo e tuttavolta
Alle mani il credean co’ Teucri al 'centro I
Della battaglia. E intanto essi, la strage
De’ compagni veduta e la paura,
Pugnavano in disparte; e, come imposto
Fu lor dal padre, dalle negre navi
Tenean lontano le nemiche offese.
Ma il conflitto maggior ferve dintorno
Al valoroso del Pelide amico.
Terribile conflitto, e senza posa '
Fino al tramonto della luce. A tutti
Dissolve la stanchezza e gambe e piedi
E ginocchia; il sudore a tutti insozza
E le mani e la faccia; e quale, allora
Che a robusti garzoni il coreggiajo
La pingue pelle a rammollir commette
Di gran tauro; disposti essi in corona
La stirano di forza; immantinente
L’umidor ne distilla, e l’adiposo
Succo le fibre ne penétra, e tutto
A quel molto tirar si stende il cuojo;
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384
aiABE
«'■ .S) 1*540
Tale in piccolo ipasio i combattenti,
Gareggiando, traean da opposti lati
Il cadarere: questi nella speme
Di strascinarlo entro le mura^ e quelli
Alle concare navi. Qgnor più fiera
Sull’estinto sorgea quindi la zuffa
Tal, che Marte, dell’armi eccitatore,
Nel vederla, e Minerva anche nell’ira,
Commendata l’avria: tanta in quel giorno
Di cavalli e d’eroi Giove difluse
Sul corpo di Patróclo aspra contesa.
Nè ancor del morto amico al divo Achille
Giunt’era il grido; perocché di molto
Dalle navi lontana ardea la pugna
Sotto il muro trojan; nè in suo pensiero
Di tal danno cadea pure il sospetto.
Spera egli anzi che, dopo aver trascorso
Fino alle porte, ei tomi illeso indietro;
Nè ch’ei possa atterrar d’ilio le mura
Senza sè nè con sè punto s’ avvisa;
Ghè del contrario l’alma genitrice
Fatto certo l’avea, quando in segreto
A lui di Giove riferia la mente;
E il fiero caso' occorso, la caduta
Del sno diletto amico ora gli tacque.
In questo d' abbassate aste lucenti
E di cozzi e di stragi alto trambusto
Su quell’ esangue, dalla parte achea
Gridar s’ udia : Compagni , è perso il nostro
Onor, se indietro si ritorna. A tutti
S’apra piuttosto qui la terra; è meglio
Ir nell’abisso, che ai Trojani il vanto
Lasciar di trarre in Ilio una tal preda.
E di rincontro i Troi: Saldi, o fratelli;
Niun s’arretri, per dio! dovesse il fato
Qui su l’estinto sterminarci tutti.
Cosi d’ambe le parti ognuno infiamma
n vicino, e combatte. 11 suon de’ ferri
Pe’ deserti dell’ aria iva alle stelle.
D’Achille intanto i corridor, veduto
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r. 541^ Lnao ZTii 385
n loro anriga dall’ettórea lancia
Nella polve disteso, allontanati
Dalla pugna piangean. Di Dioréo
Q forte figlio, Automedonte , invano
Or con presto flagello, ora con blande
Parole, ed ora con minacce al corso
Gli stimola. Ostinati essi nè vonno
Alla riva piegar dell’ Ellesponto ,
Nè rientrar nella battaglia. Immoti
Come colonna sul sepolcro ritta
Di matrona o d’eroe, starsi li vedi
Giunti al bel carro colle teste inchine,
E dolorosi del perduto auriga >
Calde stille versar dalle palpebre.
Per lo giogo difiiisa al suol cadea
La bella chioma, e s’imbrattava. 11 pianto
Ne vide il 6glio di Saturno; c, tocco ‘
Di pietà, scosse il capo, c così disse:
O sventurati! perchè mài vi demmo
Ad un mortale, al re Peléo, non sendo
Voi nè a morte soggetti nè a vccchieua?
Forse perchè partecipi de’ mali
Foste dell’uomo, di cui nulla al mondo.
Di quanto in terra ha spiro e moto, eguaglia
L’alta miseria? Ma non fia per certo
Che da voi sia portato e da quel cocchio
Il Priiàmide Ettorre: io noi consento.
E non basta che l’armi ei ne possegga,
E gran vampo ne meni? Or io nel petto >
Metterovvi e ne’ piè forza novella.
Onde fuor della mischia a salvamento
Adduciate alle navi Automedonte;
Ch’io son fermo di far vittoriosi
Per anco i Teucri insin che fino ai legni
Spingan la strage, c il Sol tramonti, c il sacro
Velo dell’ ombre le sembianze asconda.
Cosi detto, spirò tale un vigore
Ne’ divini corsicr, che, dalle chiome
Scossa la polve, in un balen portaro
Fra i Teucri il cocchio c fra gli Achei. Sublime
Mosti. Iliade. a 5
386
ILUDE
S8i>63«
Combatteva su questo Automedonte ,
Benché dolente del compagno; e, a guisa
D'avoltojo fra timidi volanti,
Stimolava i cavalli. Ed or Io vedi
Ratto involarsi dai nemici, cd ora
Impetuoso ricacciarsi in mezzo,
E le turbe inseguir; ma di lor nullo
Nel suo corso uccidea; cbè solo in cocchio
Assalir colla lancia e de’ cavalli
Reggere a un tempo non potea le briglie.
Videlo alfine un suo compagno, il figlio
Dell'Emònio Laerce, Alcimedontc,
Che dietro al cocchio si lanciò gridando :
Automedonte , e qual de’ numi il senno
Ti tolse, e il vano t’ispirò consiglio
D’assalir solo de’ Trojan la fronte?
Il tuo compagno è spento, e l’esultante
Ettore l’armi del Pelide indossa.
E a lui di Diòrco l’inclita prole:
Alcimedontc, l’indole di questi
Sempiterni corsieri, e di domarli
L’arte, chi meglio tra gli Achei l’intende
Di te dopo Patroclo in sin che visse?
Or che questo de’ numi emulo giace ,
Tu prenditi la sferza e le lucenti
Briglie, ch’io scendo a guerreggiar pedone.
Spiccò sul cocchio un salto a questo invito
Alcimedonte, ed alla man dié tosto
Il flagello e le gtiidc, e l’altro scese.
Avvisossene Ettorre, ed al propinquo
Enea rivolto : I destrier scorgo , ei disse ,
Del Pelide tornar nella battaglia
Con fiacchi aurighi. Enea, se mi secondi
Gol tuo coraggio, que’ destrier son presi.
Non sosterran costoro il nostro assalto.
Nè di far fronte s’ ardiran. — Sì disse ,
Nè all’invito fu lento il, valoroso
Germe d'Anchise. S’ avviar diretti
E rinchiusi ambiduo nelle taurine
Aride targhe, che di molto ferro
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p. «iI-<i6o LI»»» XVII 387
Splendean coperte. Mossero con essi
Grdinio ed Àréto di beltà divina,
Con grande entrambi di predar speranza
Qne' superbi corsieri, c al suol traCtti
Lasciarne i reggitor. Stolti! cbè l’asta
D'Automedonte sanguinosa avria
Lor preebo il ritorno. Egli, invocato
Giove, nell’imo si sentì del petto
Correr la forza e l’ ardimento. Quindi
All’amico drizzò queste parole:
Alcimedonte, non tener lontani
Dal mio fianco i destrieri fa ch’io ne senta
L’anelito alle spalle. AI suo furore
Ettore modo non porrà, mi penso.
Se pria d’Achille in suo poter non mette
I chiomati destrier, noi due trafitti,
E sbaragliate degli Achei le file,
0 se tra’ primi ei pur freddo non cade.
Agli Ajaci, ciò detto, e a Menelao
Ei grida: Ajaci, Menelao, lasciata
Ai più prodi del morto la difesa,
E il rintuzzar gli ostili assalti; e voi
Qua correte a salvar noi vivi ancora.
1 due più forti eroi trojani, Ettorre
Eid Enea, furibondi a lagrimosa
Pugna vèr noi discendono. L’evento
Su le ginocchia degli Dei s’asside.
Sia qual vuoisi, farò di lancia un colpo
Io pur: del resto avrà Giove il pensiero.
Sì dicendo, e la lunga asta vibrando.
Ferì d’Aréto nel rotondo scudo.
Cui tutto trapassò speditamente
La ferrea punta, e , traforato il cinto.
L’imo ventre gli aperse. A quella guba
Che robusto garzon, levata in alto
La tagliente bipenne, fra le coma
Di bue selvaggio la dechina, e, tutto
Tronco il nervo, la belva morta cade;
Tal, dato un salto, supin cadde Aréto,
E tra le rotte viscere l’acuta
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388
ILIADE
V. 06|'7Oo
Asta tremando gli rapì ]a vita.
Fc contra Automedontc Ettore allora
La sua lancia volar; ma^ visto il colpo,
Quegli curvossi, c la schivò. Gli rase
Le terga il telo, e al suol piantossi; il fusto
Tremonnc; c, quivi ogn’ impeto consunto,
La valid’asta s'acchetò. Qui tratte
Le fiere spade a più serrato assalto
I due prodi vcnian, se quegli ardenti
Spirti repente non spartian gli Ajaci
D'Automcdonte accorsi alla chiamata.
Venir li vide fi'a la turba Ettorre,
E con Crómio di nuovo e con Enea
Paventoso arrctrossi, il lacerato
Giacente Aréto abbandonando. Corse
Sull’esangue il veloce Automedonte,
DispoglioUo dell’ armi, e, gloriando.
Gridò: Non vale costui certo il figlio
Di Menézio; ma pur del morto eroe
Questo ucciso mi tempra alquanto il lutto.
Sì dicendo, gittò le sanguinose
Spoglie sul carro; e, tutto sangue ei pure
Mani e piè, vi salia pari a lìone
Che, divorato un toro, si riusciva.
Aflannosa, arrabbiata e lagrimosa
Sovra la salma di Patròclo intanto
Si rinforza la pugna, e la raccende
Palla Minerva, ad animar gli Achivi
Dall’Olimpo discesa; e la spedia.
Cangiato di pensiero, il suo gran padre.
Come quando dal ciel Giove ai mortali
Dell’Iride dispiega il porporino
Arco, di guerra indizio o di tempesta,
Che tosto de’ villani alla campagna
Rompe i lavori, e gli animai contrista;
Tal di purpureo nembo avviluppata
Insinuossi fra gli Achei la Diva,
Eccitando ogni cor. Prima il vicino
Minore Atridc a confortar si diede;
E, la voce sonora c la sembianza
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LIBRO XVII
389
». 701-740
Di Fenice prendendo, così disse:
Se sotto Troja sbraneranno i cani
Dell’ illustre Pelidc il fido amico,
Tua per certo fia l’onta, o Menelao,
E tuo Io scorno. Orsù^ tien forte, c tutti
A ben le mani oprar sprona gli Achei.
Veglio padre Fenice, gli rispose
L’egregio Atride, a Pallade piacesse
Darmi forza novella, e dagli strali
Preservarmi: e farei per la tutela
Di Patroclo ogqi prova. Il cor mi tocca
La sua caduta 4 ma l’ardente orrenda
Forza d’Ettor n’ ò contrae ei dalla strage
Mai non rimansi, e d’onor Giove il copre.
Gioì Minerva dell’ udirsi, pria
D’ogni altro iddio, pregata^ ed alla destra
Polso gli aggiunse e al piede, c dentro il petto
L’ardir gli mise dell’impronta mosca,
Che, ognor cacciata, ognor ritorna e morde
Ghiotta di sangue. Di cotal baldanza
Pieno il torbido cor, ratto a Patròclo
Appressassi, e scagliò la fulgid’asta.
Era fra’ Teucri un certo Pode , un ricco
D’Eezione valoroso figlio
In alto onor per Ettore tenuto,
E suo diletto commensal. Lo colse
Il biondo Atride nella cinta in quella
Gh’ei la fuga prendea. PassoUo il ferro
Da parte a parte, e con fragor lo stese.
Mentre vola sul morto, e a’ suoi lo traggo
L’altero vincitor, calassi Apollo
D’Ettore al fianco; ed il sembiante assunto
Dell’Asiade Fenòpo, a lui diletto
Ospite un tempo e abitator d’Abido,
Questa rampogna gli drizzò: Chi fia
Che tra gli Achivi in avvenir ti tema.
Se un Menelao ti fuga e ti spaventa.
Un Menelao finor tenuto in conto
Di debile guerriero, e ch’or da solo
Di mezzo ai Teucri via si porti il fido
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390 ILIADE ».
Tuo compagno da luì tra i primi ucciso,
Pode, io dico, figliuol d’Eezione?
Un negro di dolor velo coperse
A quell’annunzio dell’eroe la fronte.
Corse ei tosto, e cacciossi innanzi a tutti
Folgorante nell’armì. Allor, di nubi
Tutta fasciando la montagna idèa,
Giove in man la fiammante egida prese,
La scosse^ c, (ira baleni orrendamente
Tonando, ai Teucri di vittoria il segno
Diò tosto, e sparse fra gli Achei la fuga.
Primo a fuggir fu de’ Beoti il duce,
Penelèo, di leggier colpo di lancia
Ferito al sommo della spalla, mentre
Tenea vòlta la fronte; il ferro acuto
Lo gra£Sò fino all’osso, e il colpo venne
Dalla man di Polidama, ebe sotto
Gli si fece improvviso. Ettore poscia
Al carpo dèlia man colse Leito,
Germe del prode Alettrìone, e il fece ,
Dalla pugna cessar. Si volse in fuga,
Guatandosi dintorno sbigottito.
Il piagato guerrier, nè più sperava
Poter col telo nella destra infisso
Combattere co’ Troi. Mentre si scaglia
Contra Leito il feritor, gli spinge -
Idomenèo dappresso alla mammella
Nell’usbergo la picca; ma si franse
Alla giuntura della ferrea punta
11 frassino, e n’ urlar di gioja i Teucri.
Rispose al colpo Ettorre, e il Deucalidc
Stante sul carro saettò. D’un pelo
Lo fallì; ma Ceran, scudiero e auriga
Di Mcrì'on, colpio. Venuto egli era
Dalla splendida Litto in compagnia
Di Merione, che di questa guerra
Al cominciar, sue navi abbandonando,
Venne ad Ilio pedone, e di sua morte
Avria qui fatto gloriosi i Teucri,
Se co’ pronti destrieri in suo soccorso
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r. 78i-8m> libro XVII 3^1
Non accorrea Cerano. Ei del sno dace
Campò la vita, ma la propria pèrse
Per le mani d’Ettór. L'asta al confine
Della gota lo giunse e dell’orecchia,
E conquassógli le mascelle, e mezza
La lingua gli tagliò. Cadde dal carro
Quell’infelice: abbandonate al suolo
Si diifuser le briglie, che veloce
Curvo da terra Meri’on raccolse,
E vólto a Idomenèo: Sferza, gli grida.
Sferza, amico, i cavalli, e- al mar ti salva ^
Chè per noi persa, il vedi, è la battaglia.
Si disse; e l’altro, costernato ei pure.
Verso le navi flagellò le groppe
De’ chiomati destrier. Scórsero anch’essi
Il magnanimo Àjace e Menelao,
Che Giove ai Teucri concedea l’onoro
Dell’alterna vittoria; onde proruppe
In questi accenti il gran Telamonide:
Anche uno stolto, per mia fc, vedria
Che pe’ Teucri sta Giove: ogni lor strale.
Sia vii, sia forte il braccio che lo spinge.
Porta ferite, c il Dio li drizza. I nostri
Van tutti a vóto. Nondimen si pensi
Qualche sano partito, un qualche modo
Di salvar quell’estinto, e di tornarci
Salvi noi stessi a rallegrar gli amici.
Che con gli sguardi qua rivolti e mesti
Stiman che lungi dal poter le invitte
Mani d’Ettorre sostener, noi tutti
Cadrem morti alle navi. Oh fosse alcuno
Qui, che ratto portasse al grande Achille
Del periglio l’avviso! A lui, cred’io,
Ancor non giunse dell’ucciso amico
La funesta novella; c tra gli Achei
Ancor non veggo al doloroso ufficio
Acconcio ambasciator : tanta nasconde
Caligine i cavalli e i combattenti.
Giove padre, deh! togli a questo bujo
I tigli degli Achei; spandi il sereno;
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3ga ILIADE ,
Rendi agli occhi il vedere^ e, poiché spenti
Ne vuoi, ci spegni nella Ince almeno.
Cosi pregava. Udillo il Padre;. e, visto
Il pianto dell’eroe, si fe pietoso,
E, rimossa la nebbia , in un baleno
Il bujo dissipò. Rifulse il Sole,
E tutta apparve la battaglia. Ajace
Disse allora airAtridc: Or guarda intorno,
Diletto Menelao; vedi, se trovi
Di Nèstore ancor vivo il forte figlio.
Antiloco, e di volo al grande Achille
Nunzio del fato del suo caro il manda.
Mosse pronto a quei detti il generoso
Atride, e s’avviò come lionc
Che il bovile abbandona lasso e stanco
D’ azzuffarsi co’ veltri e co’ pastori
Tutta la notte vigilanti, c il pingue
Lombo de’ tori a contrastargli intesi;
Àvido delie carni egli di fronte
Tuttavolta si slancia, c nulla acquista;
Chè dalle ardite mani una ruina
Gli vien di strali addosso c di facellc,
Dal cui lustro atterrito égli rifugge,
Benché furente, finché mesto alfine
Sul mattin si rimbosca. A questa guisa
Di mal cuore da Patroclo si parte
Il bellicoso Menelao, la tema
Seco portando che gli Achei, compresi
Di soverchio tcrror, preda al nemico
Noi lascino, fuggendo. Onde con molti
Preghi agli Ajaci c a Meri'on rivolto:
Duci argivi, dicea, deh! vi sovvenga
Quanto fu hello il cor dell’infelice
Patroclo, e come mansueto ei visse.
Ahi! visse; e in braccio alla ria Parca or giace.
Parti, ciò detto, riguardando intorno
Com’ aquila che sopra ogni volante
Aver acuta la pupilla é grido,
E che, dall’ alte nubi infra le spesse
Chiome de’ cespi discoperta avendo
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86i^ LIMO XVII
La presta lepre, su lei piomba, e ratto
La ghermisce e l'uccide. E tu del pari,
0 da Giove educato illustre Àtride,
D’ogni parte volgevi i fulgid’ occhi
Fra le turbe de' tuoi, vivo spiando
Di Nestore il buon figlio. Alla sinistra
Àlfin lo vide della pugna in atto
Di far cuore ai compagni e rinfiammarli
Alla battaglia. Gli si fece appresso,
C con ratto parlar: Vieni, gli disse;
Vieni, Anbloco mio: t' annunzio un fiero
Doloroso accidente; e oh! mai non fosse
Intervenuto. Un Dio, tu stesso il senti,
1 Dànai strugge, e i Teucri esalta: è morto
Un fortissimo Aebeo ch'alto ne lascia
Desiderio di sè; morto è Patrdclo.
Corri; avvisa il Peb'de, e fa che voli
A trame in salvo il nudo corpo: l'armi
Già venute in bah'a sono d'Ettorre.
All'annunzio crudel muto d'orrore
Antfioco restò: di pianto un fiume
Gli affogò le parole; e nondimeno.
L'armi in fretta rimesse al suo compagno
Laòdoco, che fido a lui dappresso
I destrier gli reggea, corse d'Atride
II cenno ad eseguir. Piangea dirotto,
E volava l’eroe fuor della pugna.
Nunzio ad AcUille della rea novella.
Del dipartir d’ Antiloco dolenti
E bramose di lui le pilie schiere
In perigUo restàr; nè tu potendo
Dar loro aita, o Menelao, mettesti
Alla lor testa il generoso duce
Trasimède, e di nuovo alla difesa
Del morto eroe tornasti; e, degli Ajaci
Giunto al cospetto, sostenesti il piede,
E dicesti : Alle navi io l’ ho spedito
Verso il Pelide; ma eh’ ci pronto or vegna.
Benché crucciato con Ettòr, noi credo;
Che per conto verun non fia ch’ei voglia
394
IIUDE
r. 901-9^
Pugnar co’ Teucri disarmato. Or dunque
La miglior guisa risolviam noi stessi
Di sottrarre al furor dell’inimico
Quell’estinto, c campar le proprie vite.
Saggio parlasti, o Menelao, rispose
n grande Ajace Telamdnio. Or tosto
Tu dunque e Merion sotto all’esangue
Mettetevi, e sul dosso alto il portate
Fuor del tumulto: frenerem da tergo
Noi de’Trojani e d’Ettore l’assalto.
Noi elle pari di nome e d’ardimento
La pugna uniti a sostener siam usi.
Disse^ e quelli da terra alto levaro
Il morto tra le braccia. A cotal vbta
Urlò la troica turba, c difilossi
Furibonda, di cani a simiglianza
Che, precorrendo i cacciator, s’avventano
A ferito cinghiai, desiderosi
Di farlo in brani^ ma se quei repente
Di suà forza securo in lor converte
L’orrido grifo, immantinente tutti
Dan volta, e per terror piglian la foga
Chi qua spersi, chi là; tali i Trojani
Inseguono attnippati il fuggitivo
Stuol, coll’ aste il pungendo e colle spade.
Ma come rivolgean fermi sui piede
Gli Ajaci il viso, di color cangiava
L’inseguente caterva, e non ^rdia
Niun farsi avanti, e dbputar l’estinto,
Che di mezzo al conflitto audacemente
Venia portato da quei forti al lido.
Benché fiera su lor crescca la zufla.
Come fuoco che involve all’improvviso
Popolosa cittade, e ruinosi
Sparir fa i tetti nella vasta fiamma.
Che dal vento agitata esulta e rogge;
Tale alle spalle dell’achco drappello
De’ guerrieri incalzanti e de’ cavalli
Rimbombava il tumulto. E a quella guisa
Che per aspero calle giù dal monte
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Limo XVII
395
r. 9(i-<)65
Traggon due muli di robusta lena
O trave 0 antenna da volar sull’onda,
E di sudore infranti e di fatiea
Studian la via; del par que’ due gagliardi
Portavano affandati il tristo incareo,
Difesi a tergo dagli Ajaci. E quale
Steso in larga pianura argin selvoso
De’ fiumi aifrena il violento eorso ,
E respinta devolve per Io chino
L’onda furente che spezzar noi puote;
Cosi gli Ajaci l’ irruente piena
Rispingono de’ Troi che tuttavolta
Gl’ inseguono ristretti, Enea tra questi
Principalmente, e il non mai stanco Ettorre.
Con quell’alto strider che di mulacchie
Fugge una nube o di stomei, vedendo
Venirsi incontro lo sparvier che strage
Fa del minuto volati'o; con tali
Acute grida innanzi alla ruina
De’ due trojani eroi foggia dispersa
La turba degli Achei, posto di pugna
Ogni pensier. Di belle armi, cadute
Ai fuggitivi, ingombra era la fossa,
E della fossa il margo: e il faticoso
Lavor di Marte non avea respiro.
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LIBRO DECIMQTTAVO
ARGOMENTO
AatSoco ipMiBtli aJ AdtìD# la morta di Patroclo. Di^vratìone ddl'rroa. Tclìdc eaar del
mare par eeakiolarto. CfU tqoI rarme al campo per Tindicare T amira. La madre lo «aorta a
mpraiaedarr» badA «Sa noo gli aUàa rarata una noora armatttn. 1 Gied aooo in pivicinto di
pardbi* il corpo di Patroclo. AchiDa* cooùgliato da GtttoODe, ch« a lui ^wdiare Iride ^ «a
moatn ìaerm* sul mar|in« della liaiaa » ed i Troiani tono compreai di tcrrorr. Il cadame h
poeto w aaleo. La notta OMita Sm elb pu^. Parlamento dei Trojani, dia riiolaono di rt«
MancTT mi campo. Lamenti d’Arkille. Tctide ai premnta a Vulcaoo, a Io eupplica di (àlibri-
cnrl» «tt'anoativj pd i^Uo. Deacrìiiona drOo scudo. Tctida dÌKrode dall* Olimpo,
ad AclùBa b anni.
Tutta oosi qual fiamma arde la pugna.
Veloce messaggter correa frattanto
Antiloco ad AchUle. Anzi all' eccelse
Sue nari il trova, che nel cor già volge
L' accaduto disastro, e, nel segreto
Della grand' alma sospirando , dice :
Perchè di nuovo, ohimè! verso le navi
Fuggon gli Achivi con tumulto, c vanno
Spaventati pel campo? Ah! non mi compia
L’ ira de’ numi la crudel sventura
Che un di la madre profetò, narrando
Che, me vivente ancor, de' Miianidóni
Il più prode gucrrier dai Teucri ucciso
Del Sol la luce abbandonato avria.
Ah! certo di Menézio il forte figlio
Mori. Infelice! E pur gl' imposi io stesso.
Che, risospinta la nemica fiamma.
Ritornasse alle navi, e con Ettorrc
Cimentarsi in battaglia oso non fosse.
In fjuesto rio pensier 1' aggiunse il figlio
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9. at»Oo
aiADB, LIBBO ITIII ÌQ'J
Di Nèstore, piangendo; c: Ohimè! gli disse,
Magnanimo Pelide; una novella
Tristissima ti reco, e che noi fosse
Oh piacesse agli Dei! Giace Patrdclo;
Sul cadavere nudo si combatte;
Nudo; chè l’armi n’ha rapito Ettorre.
Una negra a que’ detti il ricoperse
Nube di duol; con ambedue ^e pugna
La cenere afferrò; giù per la testa
La sparse, e tutto ne bruttò il bel volto-
E la veste odorosa. Ei col gran corpo
In grande spazio nella polve steso
Giacca, turbando colle man le chiome,
E stracciandole a ciocche. Al suo lamento
Accorsero d’Achille e di Patroclo
L’addolorate ancelle, e con alti urli
Si fèr dintorno al bellicoso eroe,
Pcrcotendosi il seno; e ciasceduna '
Sentia mancarsi le ginocchia e il core.
Dall’ altra parte Antiloco pietoso ,
Lagrimando dirotto , e di cordoglio
Spezzato il petto, rattenea d’Achille '
Le terribili mani, onde col ferro
Non si squarciasse per iuror la gola.
Udì del figlio l’ululato orrendo
La veneranda Teti che del mare
Sedea ne’ gorghi al vecchio padre accanto.
Mise un gemito; e tutte a lei dintorno
Si raccolser le Dee, quante ne serra
Il mar profondo, di Neréo figlinole,
Glauce, Tab'a, Gimddoce, Nesèa
E Spio vezzosa e Toe ed Alie, bella
Per bovine pupille, e la gentile
Cimótoe ed Attéa; quindi Melite
E Limnória e Anfitòe, Jera ed Agave,
Doto, Proto, Ferusa e Dinamena
E Desamena ed Amfindma, c seco
Calbanira e Dori c Panopéa,
E sovra tutte Galatèa famosa.
V* era Apscude c Nemcrte e con Janira
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398
tLIADE
V. 6i*ioo
Callianassa ed ìanassa*, alfine
L’ alma Glimene e Mera ed Oritia
Ed Àmatéa dall' anree trecce, ed altre
Nereidi dell’ onda abitatrici.
Tutto di lor fu pieno in un momento
11 crutallino speco , e tutte insieme
Batteansi il petto, allorché Teti in mezzo
Tal diè princl{)io al lamentar: Sorelle,
M’ udite, e quanto è il mio dolor vedete.
Ohimè miserai ohimè madre infelice
Di fortissima prole! Io generai
Un valoroso incomparabil figlio, ■
n più prestante degli eroi: lo crebbi.
Lo coltivai siccome pianta eletta
In fertile terrena poscia ne’ campi
D’ Ilio lo spinsi su le navi io stessa
A pugnar co’ Trojani. Ahi che m’ è tolto
L’ abbracciarlo tornato alla paterna
Reggia! e finch’ egli all’ amor mio pur vive.
Fin che gli è dato di fruir la luce,
Di tristezza si pasce ^ ed io, comunque
A lui mi rechi, sovvenir noi posso.
Nondimeno v’andrò; del caro figlio
Vedrò l’aspetto, e intenderò qual duolo
Dalla guerra lontano il cor gl’ ingombra.
Usci, ciò detto, dallo speco, e quelle,
Piangendo, la seguir: l’onda ai lor passi
Riverente' s’ apn'a. Come di Troja
Attinsero le rive, in lunga fila
Eimersero sul lido, ove frequenti
Le mirmiddnie antenne in ordinanza
Facean selva e corona al grande Achille.
A lui, che in gravi si struggea sospiri.
La diva madre s’ appressò , proruppe
In acuti ululati; ed abbracciando
L’amato capo, c lagrimando, disse:
Figlio, che piangi? Che dolore è questo?
Noi mi celai-; deh pai-la ! A compimento '
Mandò pur Giove il tuo pregar: gli Achivi
Son pur , siccome supplicasti , astretti
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V. lOl'I^O
LIBRO XVIII
399
Ripararsi alle navi , e del tuo bi-accio
Aver mesliero, di sciagure oppressi.
Con un forte sospir rispose Achille:
O madre mia, ben Giove a me compiacque
Ogni preghiera; ma di ciò qual dolce
Me ne procede, se il diletto amico.
Se Patroclo è 'già spento? Io lo pregiava
Sovra tutti i compagni; io di me stesso
Al par r amava , ahi lasso le l’ ho perduto :
L’uccise Ettorre, e lo spogliò dell’ armi.
Di quelle grandi e belle armi, a vedersi
Maravigliose , che gli eterni Dei,
Dono illustre, a Pelòo diero quel giorno
Che te nel letto d’ un mortai locaro.
Oh fossi tu dell’ Oceàn rimasta
Fra le divine abitatrici, e stretto
Peléo si fosse a una mortai consorte!
Chè d’ infinita angoscia il cor trafitto
Or non avresti pel morir d’ un figlio
Che alle tue braccia nel paterno tetto
Non tornerà più mai; poiché il dolore
Nè la vita, nò d’ uom più mi consente
La presenza soffrir, se prima Ettorre
Dalla mia lancia non cade trafitto ,
£ di Patroclo non mi paga il fio.
Figlio, noi dir (riprese, lagrimando.
La Dea), non dirlo; chè tua morte aifreUi:
Dopo quello d' Ettòr pronto è il tuo fato.
Lo sia ( con forte gemito interruppe
L’addolorato eroe); si muoja, e tosto,
Se giovar mi fu tolto il morto amico.
Ahi che lontano dalla patria terra
11 misero peri, desideroso
Del mio soccorso nella sua sciagm-a!
Or poiché il fato riveder mi vieta
Di Ftia le care arene, ed io crudele
Nè Patroclo a'itai nè gli altri amici,
De’quai molti domò 1’ ettòrea lancia.
Ma qui presso le navi inutil peso
Della terra mi seggo, io fra gli Achei
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4oo
aUDB
». i.)t-i8o
Nel travaglio dell^ armi il più posientc ,
Benché me di parole altri pur vinca.
Pera nel eor de' numi e de' mortali
La discordia fatai, pera lo sdegno
Ch' anco il più saggio a inferocir costrigne,
Che dolce più che miei le valorose
Anime investe come fumo e cresce.
Tal si fu l' ira che da te mi venne ,
Agamennón. Ma su 1' andate cose ,
Benché ne frema il cor, l' ohhlio si sparga ,
£ l' alme in sen necessità ne domi.
Del caro capo l' uccisore Ettorre
Or si corra a trovar; poi quando a Giove
E agli altri Eterni piacerà mia morte.
Venga pur, eh' io 1’ accetto. Il forte Alcide,
Dilettissimo a Giove e suo gran figlio,
Alcide stesso vi soggiacque, domo
Dalla Parca e dall'aspra ira di Giono.
Cosi pur io, se fato ugual m'aspetta.
Estinto giacerò. Questo frattanto
Tempo è di gloria. Sforzerò qualcuna
Delle spose di Dàrdano e di Troe
Ad asciugar con ambedue le mani
Giù per le guance delicate il pianto,
E a trar dal largo petto alti sospiri.
Sappiano alGn che il braccio mio dall’ armi
Abbastanza cessò; né dalla pugna
Tu, madre, mi sviar; ché indarno il tenti.
E a lui la Diva dall’ argenteo piede:
Giusta, o figlio, é l’impresa e d' onor degna,
Campar da scempio i travagliati amici.
Ma le tue scintillanti armi divine
Son fra’Trojani; ed Ettore, quel fiero
Dell’ elmo crollator, sen fregia il dosso,
E dell’ incarco esulta. Ma fia breve.
Lo spero, il suo gioir; ché negra al fianco
Già l’ incalza la Parca. Or tu di Marte
Per anco non entrar nel rio tumulto.
So tu qua pria venir non mi riveggia.
Verrò dimani al raggio mattutino,
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r. I Si alo LIBRO XVIII 1(0 I
' E recherotti io (teisa una forbita
Bella armatura, di Vulcan lavoro.
Cosi detto, dal Cglio alle sorelle
Ripiegò la persona^ e: Voi, soggiunse.
Rientrate del mar nell' ampio grembo,
E del marino genitor canuto
Rendetevi alle case, e tutto dite
Che vedeste ed udiste. Al grande Olimpo
Io salgo a ritrovar l’ inclito fabbro .
Vulcano, e il pregherò che luminose
Armi stupende al figlio mio conceda.
Disse ^ e quelle del mar tosto nell' onde
Discesero , e la Dea dal piò d' argento
Awiossi all’ Olimpo a procacciarne
Al diletto figliuolo armi divine.
Mcntr’ ella al ciel salia, con urlo immenso
Dal sanguinoso Ettor cacciati in fuga
Giunsèr gli Achivi delle navi al vallo
E al mugghiante Ellesponto. E non ancora
Del compagno achillèo la morta spoglia
Al nembo degli strali avean sottratta
Gli argólici guerrieri. Un'altra volta
Fiero assalto le dava una gran serra
Di cavalli e di fanti, e innanzi a tutti
Di Priamo il figlio , l' indefesso Ettorre
Che una fiamma parca. Tre volte il prode.
Per li piedi il cadavere afferrando.
Provò di trarlo, e con orrenda voce
I Trojani chiamò^ tre volte i due
Impetuosi e vigorosi Ajaci
Rcspinscrlo dal morto. E nondimeno
Saldo e securo in sua fortezza or dentro
Nella turba ci s'avventa, ed or s’arresta,
E con gran voce tuttavia pur grida.
Nè d’ un passo s’ arretra. E qual di nulle
Vigilanti pastori alla campagna
Da preso tauro allontanar non ponuo
Affamalo hon^ cosi de’ forti
Ajaci la virtù da quell’ esangue
Dispiccar non polca l’ardilo Ettorre.
Morii. Ilùulc. jO
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ILIADE
f\0%
£ 1’ avria tratto alfine c conseguita
Immensa gloria, s' Iride veloce,
A Giove occulta e a ogni altro iddio, dall'alto
Olimpo non correa col vento al piede
Messaggiera ad Achille; e la spedia.
Per eccitarlo alla battaglia, il cenno
Dell' augusta Giunon. Gli parve al fianco
Improvvisa la Diva, c questi accenti
Fc dal labbro volar: Sorgi, Pelide,
Terribile guerriero, c di Patroclo
Il cadavere salva. Intorno a lui
Ferve avanti alle navi orrida pugna
Con mutue stragi. lu sua difesa i Greci
Fan che puossi: per trarlo in Ilio i Teucri
S' avventano di punta. Il fiero Ettorrc
Innanzi a tutti di rapirlo agogna.
Bramoso di mozzar dal dilicato
Collo il bel capo, c d’ un infame tronco
Conficcarlo alla cima. Alzati, e pigro
Più non giacer. Ti tocchi il cor vergogna
Che de’ cani di Troja il tuo diletto
Debba le sanne trastullar. Se offesa
A'c riceve la salma, è tuo lo smacco.
Rispose Achille: E quale a me de’ numi
Ti manda ambasciatrice , Iri divina ?
Mi manda, replicò la Dea veloce,
Giunon, di Giove gloriosa moglie;
Nè Giove il sa, nè verun altro iddio
De’ sereni d’ Olimpo abitatore.
Come al campo n’andrò, soggiunse Achille,
Se in mano di color venner le mie
Armi, e che d’ armi or io mi cinga il vieta
La cara madre, se lei pria non veggio
Da Vulcano tornar, come promise,
Di leggiadra armatura apportatrice?
Di qual altra famosa or mi vestire
Al bisogno non so, tranne lo scudo
Dell’ egregio figliuol di Telamone.
Ma pur egli, mi spero, in questo punto
Sta combattendo pel mio spento amico-
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■ 26i-3oo libro XVIII {
E a lui di nuovo la taumanzia figlia:
Noto è ben anco a noi che le tue bello
Armi or sono d’ altrui. Ma su la fossa
Anco inerme ti mostra all’ inimico.
Lascerà spaventato la battaglia
Solo al vederti, e respirar potranno
I travagliati Achei. Salute è spesso
Nel caler della pugna un sol respiro.
Cosi dissej e disparve. In piedi allora
Rizzossi Achille, amor dì Giove, e tutto
Coll’egida Minerva il ricoperse.
D’ un’ aurea nube gli fasciò la fronte ,
Ed una fiamma dalla nube, uscia ,
Che dintorno accendea l’ aria di luce.
Siccome quando al ciel s’ innalza il fumo
D’ isolana città, cui d’ aspro assedio
Cinge il nemico^ con orrendo marte
Combattono dal muro i cittadini.
Finché gli alluma il Solj poi quando annotta,
Destan fuochi frequenti alle vedette,
E al ciel nc sbalza uno splendor che manda
Ai convicini del periglio il segno,
Se per sorte venir con pronte antenne
Volessero in aita^ a questo modo
Dalla testa d’Achille alta alle stelle
Quella fiamma salia. Varcato il muro,
Sul primo margo s’ arrestò del fosso.
Nè mischiossi agli Achei ^ chè della madre
Al precetto obbedra. Lì stando, un grido
Mise , c d’ un altro da lontan gli fece
Eleo Minerva, ed un terror ne’ Teucri
. Immenso suscitò. Come sonoro
D’una tuba talor s’ode lo squillo.
Quando , d’ assedio una città serrando ,
Armi grida terribile il nemico ;
Cosi chiara d’Achille era la voce.
N’ udirò i Teucri il ferreo suono , e a tulli
Tremare i petti ^ si rizzar sul collo
Ai destrieri le chiome ; e d’ alto aflaiino
Presaghi addietro rivolgean le bighe.
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ILIADE
*•- 3oi«34o
Gli aurighi sbigottir, vista la fiamma
Che da Minerva di repente accesa
Orrenda e lunga su la fronte ardea
Del magnanimo eroe. Tre volte Achille
Dalla fossa gridò; tre volte i Teucri
E i collegati sgominarsi, e dodici
De’ più prestanti fra i riversi rocchi
Trafitti vi perir dal proprio ferro.
Pronti intanto gli Achei, di sotto ai densi
Strali sottratto di Menczio il figlio, '
11 locàr nella bara, e gli fòr cerchio,
Lagrimando, i compagni. Anch’ci veloce
V’accorse Achille, c si disclolse in pianto,
Nel feretro mirando il fido amico
D’ acuta lancia trapassato il petto.
Egli stesso con carri, armi c destrieri
L’ avea spedito alla battaglia , e freddo
Lo riebbe al ritorno c sanguinoso.
Costrinse allor la veneranda Giuno,
Suo malgrado, a calar nelle correnti
Dell’ Oceàno l’ instancabil Sole.
Ei si sommerse, e dal crudel conflitto
Ebbcr tregua gli Achei. Dier posa all’ armi
Di rincontro i Trojani; i corridori
Sciolser dai cocchi, e pria che a cibo alcuno
Volger la mente, convocar consiglio.
Bitti in piedi a]>rir essi il parlamento;
Né verun di sedersi ebbe fidanza.
Perchè d’Achille la comparsa orrenda
Facea loro tremar le vene e i polsi;
Chè da lunga stagion ne’ lagrimosi
Campi di Marte non l’avean veduto.
Prese tra lor Polidamantc il primo
A ragionar. Di Panto era costui
Prudente figlio , c de’ Trojani il solo
Che le passate e le future cose
Al guardo avea presenti. Egli d’ Ettorrc
Era compagno, c una medesma notte
Li produsse ambedue : 1’ un di parole ,
L’altro d’asta valente. Ei dunque in mezzo^
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LIBRO XVIII
4u5
Con saggio avviso cosi tolse a dire:
Librate, amici, la bisogna^ ir dentro
Alla cittade, e tosto, è mio consiglio.
Seni’ aspettar davanti a queste navi
L’ alma luce del di. Troppo siara lungi
Qui dalle mura. Finché l' ira in petto
Àrse a questo guerricr couti'a TAtride,
Più lieve cr' anco il debellar gli Àcliivi,
Ed 40 pm-e vegliar godea le notti
Presso le navi, nella dolce speme
D’ occuparle. Or tremar fammi il Pelidc.
L’ ardor che il mena , non vorrà ristretto
Contenersi nel campo , ove 1' acheo
Col trojano valore in generose
Prove la gloria marzi'al divise^
Ma per Ilio a pugnar e per le mogli
Ne sforzerà. Nella cittade adunque
Ripariamo, e si segua il mio sentire^
Ché le cose avverran com' io v' assenno.
L’ alma notte or sopito in dolce calma
Tien d'Achille il furor; ma se dimani
All’ assalto prorompe , e qui uc trova ,
Certo talun conoscerallo , e quanti
Dar potranno le spalle, e dentro il sacro
Ilio camparsi, si terran beati;
Ma pria ben molti rimarran pastura
Dr voraci avoltoi. Deh eh' io non oda
Sì rio caso giammai! Se al mio ricordo,
Benché non grato, obbedirem, la notte
Spenderem ne' rinforzi e ne' consigli.
E le torri e le porte e i contraObrti
De' ben commessi tavolati intanto
Faran sicura la città. Poi tutti
D' arme orrendi domani al nuovo Sole
Starem su i merli. E s' ei , lasciato il lido ,
Verrà nosco a pugnar sotto le mura.
Duro affar troveravvi; c poiché stanca
In vane giravolte avrà la foga
De' suoi superbi corridor, gli Ha
Forza alle navi ritornar confuso;
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Nè di scagliarsi dentro alla cittadc
Daraglì il cuore ^ e pria che porla al fondo ,
£i farà sari del suo corpo i cani.
Qui tacque; e bieco gli rispose Ettorre:
Tu non mi fai gradevole proposta,
Polidamantc, no, quando n’esorti
A serrarci di nuovo entro le mura.
E non vi noja ancor di quelle torri
La prigionia? Fu tempo, in cui le genti
Di vario favellar tutte a una voce
Diccan ricca di molto auro e di bronzo
La città pri'ameja. Or dalle case
Dileguàrsi i tesori. Alle contrade
Dell’amena Meonia e della Frigia
Molta ricchezza ne passò venduta
Da che l’ ira di Giove i Teneri oppresse.
Ed or che Giove innanzi a questi legni
D’ alta vittoria mi fe lieto , e diemmi
Che al mar chiudessi le falangi achec.
Non far palese, o stolto, ai cittadini
Questo consiglio; chè nessuno avrai
Fra i Trojani si vii, che lo secóndi.
Nè patirollo io mai. Teucri, obbediamo
Tutti al mio detto. Ristorate i corpi
Al suo posto ciascuno, e vi sovvegna
Delle scolte per tutto e delle ronde.
Qualunque de’ Trojani in pcnsier stassi
Di sue ricchezze, le raguni, e poscia
Largo ai soldati le spartisca. E meglio
Che alcun nostro ne goda, e non l’Achco.
Sull' aurora dimani in tutto punto
Assalirem le navi : e se il divino
Achille all’ armi si svegliò davvero.
Gli fia la pugna, se la vuol, funesta.
Non fuggirollo io, no, nell’ affannoso
Ballo di Marte, ma staragli a fronte
Con intrepido petto. Uno de’ due
D’ un’illustre vittoria andrà superbo:
Il cimento è comune, ed avvicn spesso
Che morte incontra chi di darla ha speme.
4ji-46u libro XVIII 4*>7
Dissc^ c i Teucri levar d’applauso uu grido.
Stolti! chù Palla avea lor tolto il senno.
Tutti assentir d’ Ettorre al pazzo avviso j
Nessuno al saggio del figliuol di Patito.
Mentre col cibo a rivocar le forze
Intendono i Trojani, in alti lai
L’ intera notte dispendean gli Achivi
Sovi-a il morto Patróelo, e prorompea
Fra loro in pianti sospirosi Achille,
La man tremenda sul gelato petto
Dell’amico ponendo, e cupi e spessi
I gemiti mettea, come talvolta
Ben chiomato l'ione, a cui rapio
II cacciator nel bosco i lioncini.
Crucciato il fiero del suo tardo arrivo,
Tutta scorre la valle, e 1’ orme esplora
Del predator, se mai di ritrovarlo
In qualche lato gli riesca; c orrenda
Gli divampa nel cor la rabbia c l’ ira.
Tal si cruccia il Pelide, c con profondi
Sospiri in mezzo ai Mirmidóni esclama:
Oh mie vane parole il di eh’ io diedi
A Menézio il conforto , c la promessa
Che in Opunta gli avrei carco di gloria
E di gran preda ricondotto il figlio
Dall’ atteiTata Troja! Ahi che non tulli
Giove i disegni de’ morlali adempie !
Sotto Troja il destino ambo ne danna
A far vermiglia una medesma terra;
Chi me neppure abbracccrà tornato
Il buon vecchio PeliSo nel patrio tetto,
Nè Teli genitrice; ma sepolcro
Mi darà questo lido. Or poi che deggio
Dopo te, mio fedel, scender sotterra.
Tu, no, sul rogo non andrai, lo giuro,
Se non t’arreco in prima io qui d’ Ettorre,
Del tuo crudo uccisor, 1’ armi e la testa;
E dodici d’ illustri iliaci figli
Tronchcronne davanti alla tua pira.
Giaci intanto cosi, caro compagno,
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4o8
ILIilDE
»•. ^6i.5no
Qui presso alle mie navi^ e le Irojane
E le dardanie ancelle il largo seno
Tutte discinte intorno al tuo feretro
Notte e dì faran pianto, e ploreranno.
Esse ne fur comun fatica e preda,
Quando noi colla forza c colle lunghe
Aste domando le nemiche genti ,
L' opime n' atterrammo ampie cittadi.
Ciò detto, comandò 1' almo Pclidc
Che dai compagni al fuoco si ponesse
Sul trìpode un gran vaso, onde veloci
Di Patroclo lavar la sanguinosa
Tabe. E quelli sul fuoco, in un baleno.
Atto ai lavacri collocaro un bronzo',
E v’infusero l’onda, c di stecchiti
Rami di sotto alimentar la fiamma.
Abhracciavan le vampe, mormorando,
Del vaso il ventre, e rotto in sottil fumo
Scaldavasi l’ umor. Poichò nel cavo
Rame la linfa al suo boiler pervenne.
Diersi il corpo a lavar : 1’ unser dì pingue
Felice oliva, e le ferite empierò
Di balsamo novenne. Indi al funebre
Letto rcnduto, dalia fronte al piede
In sottil lino avvolserlo, e superno
Un bianco panno vi spiegar. Ciò fatto,
Tomaro ai pianti, e intorno al mesto Achille
Tutta in lamenti consumàr la notte.
Giove in questo alla sua moglie e sorella
Si volse e disse: Veneranda Giuno,
Ecco pieni alla fine i tuoi desiri;
Ricco all’ armi tornato il grande Achille.
Di te nacque, crcd’io, (cotanto l’ami)
L’ argiva gente. — E Giuno a lui : Che parli ,
Tremendo figlio di Saturno? All’uomo
Povero d’ alma e di consigli è dato
n dannaggio tramar del suo simile^
Ed io che incedo degli Dei rcina.
Perché saturnia prole e perchè sposa
Son dell’alto de’ numi impcradorc,
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treno xvni
4°9
r. 5o 1*540
Centra i Trojani co’ Trojani irata
Macchinar qualche ofiesa io non dovea?
Mentre seguian tra lor queste contese,
Teti agli alberghi di Vulcan pervenne,
Stellati eterni rilucenti alberghi.
Fra i celesti i più belli, e dallo stesso
Vulcan costrutti di massiccio bronzo.
Tutto in sudor trovoUo afiaccendato
De’ mantici al lavoro. Avea per mano
Dieci tripodi c dieci, adornamento
Di palagio rcgal. Sopposte a tutti
D’ oro avea le rotelle , onde ne gisse
Da sé ciascuno all’ assemblea de’ numi ,
E da sè ne tornasse onde si tolse:
Maraviglia a vederli! Ornai compiuto
L’ ammirando lavor , solo restava
Ch’ ci v’ adattasse le polite orecchie,
E appunto all’ uopo n’ aguzzava i chiovi.
Mentre venia tai cose elaborando
Con egregio artificio, entro la soglia
L’ alma Teti mettea 1’ argenteo piede.
La vide, e le si fe Gerite incontro.
Ornata il capo d’ eleganti bende,
Dell’incUto Vulcan moglie vezzosa^
Per man la strinse^ e, il roseo labbro aprendo:
Qual, le disse, cagione, o bella Teti,
Ti guida inaspettata a queste case ?
Rado suoli onorarle*, e nondimeno
Sempre cara vi giungi e riverita.
Indltrati , perch’ io pronta t’ appresti
Le vivande ospitali. — E, si dicendo,
La bellissima Dea 1’ altra introdusse,
E in un bel seggio collocolla, ornato
D’ argentee borchie a lavorìo gentile
Gol suo sgabello al piede. Indi a chiamarne
Gorse 1’ esimio fabbro , e sì gli disse :
Vieni, Vulcan; chè ti vuol Teti. — Ed egli:
Venerevole Diva e d’ onor degna
Nella casa mi venne. Ella malconcio
E afilitto mi salvò , quando dal cielo
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4 ' O ILIIDE 5.',l-5S«»
Mi fi:o gltttir l' iimTCconda madre,
Glie il distorto mio pié volea celato:
E mille allor m'avrei doglie sofferto,
Se me del mar non raccogliean nel grembo
Del rifluente Oceano la figlia
Euri'nome c la Dea Teti. Di queste
Quasi due lustri in'compagnia mi vissi,
E di molte vi feci opre d'ingegno.
Fibbie ed armille tortuose e vezzi
E bei monili, in cavo antro nascoso,
A cui spumante intorno ed infinita
D'Ocean la corrente mormorava :
Nè vcrun di mia stanza avea contezza ,
Nè mortale nè Dio, tranne le belle
Mie servatrici. Or poiché Teli è giunta
Alla nostra magion, piena le voglio
Render mercè del benefizio antico.
Tu dinanzi sollecita le poni
Il banchetto ospitai, mentr'io veloce
Questi mantici assetto e gli altri arnesi.
Disse; c dal ceppo dell'incudc il mostro
Abbronzato levossi, zoppicando.
Moveansi sotto a gran stento le fiacche
Gambe sottili. Allontanò dal. fuoco
I mantici ventosi; ogni fabbrile
Istrumento raccolse, e dentro un'arca
Li ripose d'argento. Indi con molle
Spugna ben tutto stropicciossi il volto
Affumicato ed ambedue le mani
E il duro collo ed il peloso petto.
Poi la tunica mise; cd il pesante
Scettro impugnato, tentennando uscio.
Scguian l'orrido rege, c a dritta e a manca
II passo ne reggean forme e figure
Di vaghe ancelle, tutte d'oro, e a vive
Giovinette simili , entro il cui seno
Avea messo il gran fabbro e voce c vita
E vigor d'intelletto, c delle care
Arti insegnate dai Celesti il senno.
Queste al fianco del Dio spedite e snelle
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», 58i,6ao LIDRO TVIII 4 I <
Camminavano; ed egli a tardo passo
Avvicinato a Tcti, in un lucente
Trono s' assise; c, la sua man ponendo
Nella man della Dea, così le disse:
Qual mia sorte t’adduce a queste soglie,
O sempre cara e veneranda Tcti,
In queirampio tuo peplo ancor più bella ^
Troppo rado ne fai di tua presenza
Contenti e lieti. Or parla, e il tuo desire
Libera esponi. A soddisfarlo il gi-ato
Cor mi sospinge, se pur farlo io possa,
E il farlo mi s’addica. — E a lui, sufTusa
Di lagrime i bei rai, Teti rispose:
Delle Dive d’Olimpo c qual sofferse
Tanti, o Vulcano, tormentosi affanni,
Quanti in me Giove n’adunò? Me sola
Fra le dive del mar suggetta ci fece
Ad un mortale, al re Pcléo. Ritrosa
Ne sostenni gli amplessi; cd egli or giace
Logro dagli anni nel regai suo tetto.
Nè il tenor qui restò di mie svcntuit;:
Mi nacque un Aglio; io l’educai gelosa,
E come pianta ei crebbe, c mi divenne
Il maggior degli eroi. Questo germoglio
Di fertile terren, questo diletto
Unico Aglio su le navi io stessa
Spedii di Troja alle funeste rive
A guerreggiar co’ Teucri. Avverso fato
Gli dinega il ritorno; ed io non deggio
Nella pelèa magion madre infelice
Abbracciarlo più mai. Nè questo è tutto.
Fin ch’ei mi vive, e la ria Parca il raggio
Gli prolunga del Sole, ei lo consuma
Nella tristezza, nè giovarlo io posso.
Dagli Achivi ottenuta egli s’avea.
Premio di sue fatiche, una fanciulla:
Agamenndn gliela ritolse; cd esso.
Dell’onta irato e nel dolor sepolto,
Si ritrasse dall’armi. I Teucri intanto
Alle navi rinchiusero gli Achei,
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4/2
ILliDB
V. 63i>6(ìo
Nè permettean l' uscita. Umili allora
I duci ergivi gli mandar preghiere
E d'orrevoli doni ampie profferte.
Egli fermo negò la chiesta aita;
Ma cinse di sue stesse armi l’amico
Patroclo, e al campo l’ inviò seguito
Da molti prodi. Su le porte Scee
Tutto un giorno durò l'aspro conflitto.
E il di stesso llion saria caduto,
S'alta strage menar visto il gagliardo
Di Menézio iìgliuol, non l’uccidea
Tra i combattenti della fronte Apollo,
Esaltandone Ettorre. Or io pel figlio
Vengo supplice madre al tuo ginocchio;
Onde a conforto di sua corta vita
Di scudo e d'elmo provveder tu il voglia,
E di forte lorica e di schinieri
Con leggiadro fermaglio. A lui perdute
Ha tutte l’armi dai Trojani ucciso
n suo fedel compagno; ed egli or giace
Gittata a terra, c dal dolore oppresso.
Tacque; e il mal fermo Dio cosi rispose:
Ti riconforta, o Teti, e questa cura
Non ti gràvi il pensier. Così potessi
Alla morte il celar, quando la Parca
Sul capo gli starà, com’io di belle
Armi fornito manderoUo, c tali.
Che al vederle ogni sguardo ne stupisca.
Lasciò la Dea , ciò detto , e impaziente
Ai mantici tornò, li volse al fuoco,
E comandò suo moto a ciascheduno.
Eiran venti che dentro la fornace
Per venti bocche ne venian sofhaudo; '
E al fiato che mcttean dal cavo seno, .
Or gagliardo, or leggicr, come il bisogno
Chiedea dell’opra e di Vulcano il senno.
Sibilando, prcndea spirto la fiamma.
In un commisti allor gittò nel fuoco
Argento ed auro prezioso e stagno
Ed indomito rame. Indi sul toppo .
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r. e6l.;oo LIBUO Xyill
Locò la dura risonante incade ^
Di pesante martello armò la dritta,
Di tanaglie la n>anca; e primamente
Un saldo ei fece smisurato scudo
Di dedalo rilievo, e d^aoro intorno
Tre bei fulgidi cerchi vi condusse;
Poi d'argento al di fuor mise la soga.
Cinque dell’ampio scudo eran le zone;
E gl’intervalli, con divin sapere,
D'ammiranda scultura aveà ripieni.
Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo,
E il Sole infaticabile, e la tonda
Luna, c gli astri diversi, onde sfavilla
Incoronata la celeste vòlta,
E le Plòjadi, e l’ìadi, e la stella
D’Orion tempestosa, e la grand’ Orsa, ’
Che pur Plaustro si noma. Intorno al polo
Ella si gira, ed O^'on riguarda.
Dai lavacri del mar sola divisa.
Ivi inoltre scolpite avea due belle
Popolose città. Vedi nell’ una
Conviti e nozze. Delle tede al chiaro
Per le contrade ne vem'an condotte
Dal talamo le spose; e: Imene, Imene
Con molti s’intonava inni festivi.
Menan carole i giovinetti in giro
Dai flauti accompagnate e dalle cetre.
Mentre le donne sulla soglia ritte
Stan la pompa a guardar maravigliose.
D’altra parte nel fòro una gran turba
Convenir si vedea. Quivi contesa
Era insorta fra due che d’nn ucciso
Piativano la multa: un la mercede
Già pagata assen'a; l’altro negava.
Finir davanti a un arbitro la lite
Chiedeano entrambi, e i testimon produrre.
In due parli diviso era il favore
Del popolo fremente, c i banditori
Sedavano il tumulto. In sacro circo
Sedeansi i padri su polite pietre;
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4.4
ILIADE
». joi-jV)
C, dalla mano degli araldi preso
Il suo scettro ciascun, con questo in pugno
Sorgeano, e l’uno dopo l’altro in piedi
Lor sentenza dicean. Doppio talento
D’auro ò nel mezzo da largirsi a quello
Che più diritta sua ragion dimostri.
Era l’altra città dalle fulgenti
Armi ristretta di due campi in due
Parer divisi, o di spianar del tutto
L’opulento castello, o che di quante
Son là dentro ricchezze in due partito
Sia l’ammasso. I rinchiusi alla chiamata
Non obbedian per anco, e ad un agguato
Armavansi di cheto. In su le mura
Le care spose, i fanciuUetti c i vegli
Fan custodia e corona^ e quelli intanto
Taciturni s’avanzano. Minerva
Li precorre e Gradivo entrambi d’oro,
E la veste han pur d’oro, ed alte c belle
Le divine stature, e d’ogni parte
Visibili: più bassa iva la torma.
Come in loco all’ insidie atto fur giunti
Presso un fiume, ove tutti a dissetarsc
Venian gli armenti, s’ appiattar que’ prodi
Chiusi nel ferro, collocati in pria
Due di loro in disparte, che de’ buoi
Spiassero la giunta c delle gregge.
Eid eccole arrivar con due pastori
Che, nulla insidia suspicando, al suono
Delle zampegne si prendean diletto.
L’insidiator drappello alla sprovvista
Gli assalia, ne predava in un momento
De’ buoi le mandrc c delie bianche agnelli',
Ed uccidea crudele anco i pastori.
Scossa all’ alto rumor l’ assediatrice
Oste a consiglio tuttavia seduta,
De’ veloci corsie.' sidiitamcnte
Monta le groppo, i predatori insegue,
E li raggiunge, Allor si ferma, c fiera
Sul fiume appicca la battaglia. Entrambe
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LIBRO XVIII
4l5
Si ferian coll’ acute aste le schiere.
Scorrea nel mezxo la Discordia, c seco
Era il Tumulto c la tcrribil Parca
Che un vivo già ferito c un altro illeso
Artiglia colla dritta, e un morto aflìerra
Nc'piò coll’altra, e per la strage il tira.
Manto di sangue tutto sozzo e rotto
Le ricopre le spalle: i combattenti
Parean vivi, c tracan de’ loro uccisi
I cadaveri in salvo alternamente.
Vi sculsc poscia un morbido maggese
Spazioso, ubertoso e che tre volte
Del vómero la piaga avea sentito.
Molti aratori lo vcm'an solcando,
E sotto il giogo in questa parte c in quella
Stimolando i giovenchi. E come al capo
Giungean del solco, un uom, che giva in volta,
Lor ponea nelle man spumante un nappo
Di dolcissimo bacco; e quei, tornando
Ristorati al lavor, l’almo terreno
Fcndcan , bramosi di fmirlo lutto.
Dietro nereggia la sconvolta gleba:
Vero arato sembrava^ c nondimeno
Tutta era d’ór: mirabile fattura!
Altrove un campo efligiato avea
D’alta messe già biondo. Ivi, le destre
D’acuta falce armati, i segatori
Micteau le spighe^ c le recise manne
Altre in terra cadeau ti'a solco c solco,
Altre con vinchi le venian stringendo
Tre legàtor da tergo, a eui festosi
Tra le braccia recandole i fanciulli
Senza posa porgean le tronclic ariste.
In mezzo a tutti colla verga in pugno
Sovra un solco sedea del campo il sire.
Tacito e lieto della multa messe.
Sotto una quercia i suoi sergenti intanto
Imbandiscon la mensa, e i lombi curano
D’un immolato bue, mentre le donne
Intente a mescolar bianche farine,
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4«6
tUADB
**• 7li-8aa
VaD preparando ai mietitor la cena.
Se^uia quindi un vigneto oppresso e curvo
Sotto il carco dell’uva. Il tralcio è d’oro,
Nero il racemo, ed un filar prolisso
D’argentei pali sostenea le viti.
Lo circondava una cerulea fossa
E di stagno una siepe. Un sentier solo
Al vendemmiante ne schiudea l’ingresso.
Allegri giovinetti e verginelle
Portano ne’ canestri il dolce fratto ,
E fra loro un garzon tocca la cetra
Soavemente. La percossa corda
Con sottil voce rispondeagii ; e quelli,
Con tripudio di piedi sufolando
E canticchiando, ne seguiano il suono.
Di giovenche una mandra anco vi pose
Con erette cervici. Erano scnlte
In oro é stagno, e dal bovile nsciéno
Mugolando e correndo alla pastura
Lungo le rive d’un sonante fiume
Che tra giunchi volgea l’onda veloce.
Quattro pastori, tutti d’oro, in fila
Clan coll’armento, e li seguian fedeli
Nove bianchi mastini. Ed ecco uscire
Due tremendi lioni, ed avventarsi
Tra le prime giovenche ad un gran tauro ,
Che abbrancato, ferito c strascinato.
Lamentosi mandava alti muggiti.
Per riaverlo, i cani ed i pastori
Pronti accorrcan^ ma le superbe fiere,
Del tauro avendo già squarciato /I fianco.
Ne mettean dentro alle bramose canne
Le palpitanti viscere ed il sangue.
Gl’ inseguivano indarno i mandriani.
Aizzando i mastini. Essi co’ morsi
Attaccar non osando i due feroci ,
Latravan loro addosso, e si schermivano.
Fecevi ancora il mastro ignipotente
In amena convalle una pastura
Tutta di gi'eggi biancheggiante c sparsa
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Di capanne, di chiusi c pecorili.
Poi vi sculse una danza a quella eguale
Che ad Ài'ianna dalle belle trecce
Nell’ampia Creta Dèdalo compose.
erano garzoncelli e vcrginette
Di bellissimo corpo, che saltando
Tcncansi al carpo delle palme avvinti.
Queste un velo sottil, quelli un farsetto
Ben tessuto vestia, soavemente
Lusti'o qual bacca di palladia fronda.
Portano queste al crin belle ghirlande,
Quelli aurato trafiere al fianco appeso
Da cintola d'argento. Ed or leggieri
Danzano in tondo con maestri passi.
Come rapida ruota che, seduto
Al mobil tomo, il vascllier rivolvc^
Or si spiegano in file. Numerosa
Stava la turba a riguardar le belle
Carole, e in cor godea. Finian la danza
Tre. saltator che in varj caracolli <
Rotavansi, intonando una canzona. ...
11 gran fiume Oceàn l’orlo chiudea
Dell’ammirando scudo'. A fin condotto >
Questo lavoro, una lorica ei fece
Che della fiamma lo splendor vincca^
Poi di raro artificio un saldo c vago
Elmo alle tempie ben acconcio, e sopra
D’auro tessuta v’innestò la cresta. .
Fur l’ultima fatica i bei schinieri
Di pieghevole stagno. E terminate
L’armi tutte, il gran fabbro alto levolle,
E al piè di Teli le depose. Ed ella,
Co’ bei doni del Dio, come sparviero
Ratta calossi dal nevoso Olimpo.
LIBRO DECIMONONO
AR(iL>MK>T()
AtLiIW riiuira le armi a lui recate dalla madiv>, e m* nr coaipure. Tctidc *{>arge d'aml>r(^
lia il corpo di Pàtrodo ptrr coownrarlo dalla eorruiiuoc. Achille convoca il parlamento de*
Greci: ai riconrilia con Agamennone. Vuol condurre tenta indugio le icliirre aliatUgUa. Ri«
tzKntraoie d'Ulitie. L* eroe accontenle che i guerrieri ti rìvtorioo col cilio, Agamennone gli
rende Brit^ide ccdi’aggiunla dei dunì promeiù. Giurameolo del re e solenne sacri&tiu. Lamenti
di BriWide sopra il morto Patroclo. 1 Greci t’unitcouo a banchettare , ma Adiille rkusa qoa-
luac^oe alimento. Giove spediue Minerva che gli stilli ru^ttare cd ambrosia mi seno. Egli ti
arma: monta sul carro: tue parole ai ravalb : risposta di Xanto, uno di questi} e replica
dell* eroe.
Uscia del mar l’Aurora in croceo velo,
Alla terra ed al ciel nunzia di luce ;
£ co’ doni del Dio Teli giungea.
Singhiozzante da canto al morto amico
Trovò l’amato figlio, a cui dintorno
Ploravano i compagni. Apparve in mezzo
L’ augusta Diva; e, strettolo per mano:
Figlio, disse, poiché piacque agli Dei
La sua morte, lasciam, benché dolenti,
Che questi qui si giaccia ; e tu le belle
Armi ti prendi di Vulcan, che mai
Mortai non indossò. — Così dicendo,
Le depose al suo pié. Dicr quelle un suono
Che terror mise ai MirmiJóni : il guardo
Non le sostenne, e si fuggir. Ma come
Le vide Achille, maggior surse l’ira,
E sotto le palpebre orrendamente
CH occhi qual fiamma balenar. Godea
Trattarle, vagheggiarle; e, dilettalo
Del mirando lavor, si volse, c disse:
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V 2I>6o
4'9
ILIAI1E, LIBRO XIX
Madre, sou degne del divino fabbro
Quest’ armi, nè può tanto arte terrena.
Or le mi vestoj ma timor mi grava
Che nelle piaghe di Patroclo intanto
Vile insetto non entri, che di vermi
Generator la salma ( ahi ! senza vita ! )
Ne guasti si, che tutta imputridisca.
Pcnsier di questo non ti prenda, o Gglio,
Gli rispose la Dea: l' infesto sciame.
Divoratore de’ guerrieri uccisi ,
Io ne ten'ò lontano. Ov’ anco ei giaccia
Intero un anno, farò si, che il corpo
Incorrotto ne resti, e ancor più bello.
Or tu raccogli in assemblea gli Àchivi^
E, placato all’Atridc, armati ratto
Per la battaglia, e di valor ti eingi.
Disse ^ e spirto audacissimo gl’ infuse.
Indi ambrosia all' estinto, e rubicondo
Néltare , a farlo d’ ogni tabe illeso ,
Nelle nari stillò. Lunghesso il lido
L’orrenda voce intanto alza il Pelide^
Nè soli i prenci achei, ma tutte accorrono
Le sparse schiere per le navi; e quanti
Di navi han cura, remator, piloti
E vivandieri e- dispensicr, van tutti
A parlamento, di veder bramosi
Dopo un lungo cessar l'apparso Achille.
Barcollanti v’ andare anco i due prodi
Diomede ed Ulisse, por le gravi
Piaghe all'asta appoggiati, e ne’primiei-i
Seggi adagiarsi. Ultimo giunse il sommo
Atridc, in forte mischia ci pur dal telo
Di Goon Anlcnóridc ferito.
Tutti adunati, Achille sursc e disse:
Alride, a te del par che a me sana
Meglio tornato che tra noi non fusse
Mai surta la fatai lite che il core
Sì ne ròse a cagion d’ una fiuciulla.
Dovea Diana saettarla il giorno
Ch’io saccheggiai Lirnesso, c mia la feci;
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ILIADE
V. 6*1-100
Ché tanti non avrian trafitti Achivi,
Mentre l’ira io eovai, morso il terreno.
Ettore e i Teucri ne gioir 5 ma lunga
Rimarrà tra gli Achei, credo, ed amara
De’ nostri piati la memoria. Or copra
Obblio le andate cose , e il cor nel petto
Necessità nc doni. Io qui depongo
L’ira, nè giusto è ch’io la serbi eterna.
Tu ridesta le schiere alla battaglia.
Vedrò se i Teucri al mio venir vorranno
Presso le navi pernottar. Di gambe.
Spero, ila lesto volentier chiunque
Potrà sottrarsi in campo alla mia lancia.
Disse^ e gli Achivi giubilar, vedendo
Aliln placato il generoso Achille.
Surse allora l’Atride, e dal suo seggio.
Senza avanzarsi , favellò : M’ udite ,
Eroi di Grecia, bellicosi amici.
Nè turbate il mio dir^ cbè Io frastuono
Anche il più sporto dicitor confonde.
E chi far mente, chi parlar potrebbe
In cotanto tumulto, ove la voce
La più sonora verna meno? Io volgo
Le parole ad Achille , e voi porgete
Attento orecchio. Con rimprocci ed onte
Spesso gli Achivi m’ accusàr d’ un fallo
Cui Giove e il Fato e la notturna Erinni
Commisero, non io. Fissi in consiglio
Quel di la mente m’oifuscàr, che il premio
Ad Achille rapii. Che farmi ? Un Dio
Cosi dispose, la funesta a tutti
Ate, tremenda del Saturnio figlia.
Lieve ed alta dal suolo ella sul capo
De’ mortali cammina , c lo perturba ,
E a ben altri pur nocque. Anche allo stesso
Degli uomini t de’ numi arbitro Giove
Fu nocente costei, quando ingannollo
L’augusta Giuno il di che in Tebe AIcmcna
L’ erculea forza partorir dovea.
Detto ai Celesti avea Giove per vanto:
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». I01-l4o libro XIX /j-n
Divi e Dive, ascoltate 4 io vo’ del petto
Rivelarvi un segreto: oggi llitia,
Curati-ice de’ parti, in luce un uomo
Del mio sangue trarrà, che su le tutte
V’icine genti stenderà lo scettro.
Mentirai, nè atterrai la tua parola,
Giulio riprese, meditando un frodo.
Giura, o Giove, il gran giuro, che nel vero
Fia de’ vicini regnator 1’ uom eh’ oggi
Di tua stirpe cadrà fra le ginocchia
D’ una madre mortai. Giurollo il nume
Senza sospetto, e ne fu poi peutito^
Chè Giuno dal ciel ratta in Argo scesa
Del Persei'de Stèndo all' illustre
Moglie sen venne. Àvea grav’ ella il seno
D' un caro figlio settimestre. A que.sto.
Benché immaturo, accelerò la luce
Giuno, e d'Alcmcna prolungando il parto,
Ne represse le doglie. Indi a narrarne
Corse al Saturnio la novella, c disse:
Giove , t’ annunzio che mo’ nacque un prode
Che in Argo impererà, lo Stenelide,
Tua progenie, Euristèo d’Argo re degno.
D’ alto dolor ferito infuriossi
Giove ^ e, tosto ai capelli Atc afferrando,
Per lo Stige giurò che questa a tutti
Furia dannosa non avria più mai
. Riveduto l’Olimpo. E, si dicendo.
La rotò colla destra, e fra’ mortali
Dagli astri la scagliò. Per la costei
Colpa reggendo di travagli oppresso
11 diletto figliuol sotto Euristèo,
Adiravasi Giove. E a me pur anco.
Quando alle navi Ettòr struggea gli Achivi,
Lacerava il pcnsier la rimembranza
Di questa Diva che mi tolse il senno.
Ma poiché Giove il volle , io vo’ del pari
Farne 1' emenda con immensi doni.
Sorgi, Achille, alla pugna, e gli altri accendi.
Tutto, che jeri nella tenda Ulisse
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ILIADE
Ti promise, io clarotti : c se t'aggrada,
L’ ardor sospendi clic a pugnar ti sprona.
E dal mio legno farò tosto i doni
Recar, cbe, visti, plachcranti il core.
Duce de’ prodi, glorioso Atride,
Rispose Achille , il dar quc’ doni a norma
Di tua giustizia o ritenerli, è tutto
Mei tuo poter. Ma tempo non è questo
Da parole: sia d’armi ogni pensiero,
Nè più s’ indugi ^ che il da fai'si è assai.
Uop’ è che Achille in campo rieda e spcrd.!
Le trojane falangi, e eh’ altri il vegga,
E l’esempio n’ imiti. — Illustre Achille,
Soggiunse allor 1’ accorto Ulisse, è grande
Il tuo valor^ ma non menar digiuni
Contro i Teucri gli Achei. Venuti al cozzo
Una volta gli eserciti, c infiammati
Quinci e quindi da un Dio, non (la sì breve
L’ aspro certame. Nelle navi adunque
Comanda che di cibo e di bevanda.
Fonte di forza, si ristaurin tutti;
Che digiuno soldato un giorno intero
Fino al tramonto non sostien la pugna.
Sete, fame, fatica a poco a poco
Dóman anco i più forti, e dispossato
Casca il ginocchio. Ma guerrier, cui fresche
Tornò le forze il cibo, il giorno tutto
Intrepido combatte, e sua stanchezza
Sol col finirsi del conflitto ei sente.
Dunque il campo congeda, e fa che pronte
Mense imbandisca. Agamennòn frattanto
Qua rechi i doni; onde ogni Acheo li vegga,
E il tuo cor ne gioisca. Indi nel mezzo
Del parlamento il re si levi, e giuri
Che mai non giacque colla tua fanciulla;
E questo giuro il cor ti plachi. Ei poscia.
Perchè nulla si fraudi al tuo diritto,
Di lauto desco nella propria tenda
Ti presenti e t’ onori. E tu più giusto
Mdstrati, Atride, in avvenir; che bello
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¥. i8|'320
LIBRO XIX
4a3
Rcgal atto è il placar , qual sia , 1' offeso.
A questo il sire Agamennón : M' è grato ,
Ulisse, il saggio e acconciamente espresso
Tuo ragionar. Io giurerò dall'imo
Cuor, nò dinauzi al Dio sarò spergiuro.
Ma tempri Achille del pugnar la foga
Sino che giunga il donativo^ e il sangue
Della vittima fermi il giuramento,
Qui presenti voi tutti. Or tu medesmo
Vanne, Ulisse^ c traseeltu, io tei comando.
De' primi achivi giovinetti il fiore.
Reca i doni promessi c le donzelle;
E Taltibio mi cerchi c m'apparecchi
Un cinghiai da svenarsi a Giove e al Sole.
Inclito Atride, gli rispose Achille,
Serbar si denno queste cose al tempo
Che dall’ armi avrem posa, e che non tanto
Sdegno m’infiammi. Giacciono squarciati
Nella polve gli eroi che spense Ettorre
Favorito da Giove, c voi ne fate
Ressa di cibo? Io, qual si trova, all' armi
Senza ritardo il campo esorterei;
E, vendicato 1’ onor nostro, allegre
Cene Abbondanti appresterei la sera.
Non verrà cibo al labbro mio nè beva,
S’ ulto pria non vedrò 1’ estinto amico.
D’ acuto acciar trafitto egli mi giace
Nella tenda co’ piè volti all’ uscita ,
E gli fan cerchio i suoi compagni in pianto.
Non altro è dunque il mio pensier che strage
E sangue, e il cupo di chi muor sospiro.
E Ulisse a lui: Fortissimo Peli'de,
Tu nell'asta me vinci, io te nel senno.
Perchè pria nacqui, e più imparai. Fa dunque
Di quotarti al mio detto. Umano core
Presto si sazia di conflitti in cui.
Molto miete l’ acciar, poco raccoglie
Il mietitor, se Giove, arbitro sommo
Di nostre guerre, le bilance inclina.
Pianger col ventre non si dee gli estinti.
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itunr.
E qual respiro il pianto avn'a, se mille
Fa cadeiTie la Parca ogni momento ?
Intero un sole al lagrimar si doni ;
Poi con coraggio, chi morì s’intombi:
E noi che vivi dalla mischia uscimmo,
Conforliamci di cibo^ onde più fieri,
D’invitto ferro ricoperti il petto,
Alla pugna tornar, senza che sia
Meslier novello incitamento. E guai
A chi tcrrassi su le navi inerte.
Mentre gli altri animosi ad acre assalto
Centra i Teucri dal vallo irromperanno!
Dissc^ e compagni i due hgliuoi si prese
Di Nestore, c Toantc c McrVonc
E il Filide Mcgéte e Melanippo
E Licomede di Creonte. Andare
D’Atride al padiglione presti il comando
N’ adempirò, c arrecar le già promesse
Cose: sette treppiè, venti lebeti,
Dodici corridori; indi prestanti
D' ingegno e di beltà sette captivc.
La Gglia di firisco, guancia rosata,
Ottava ne vcm'a. Li precedea
Con dieci di buon peso aurei talenti*
Ulisse, e lo seguian con gli altri doni
Gli altri giovani achei. Deposto il tutto
Nell’ assemblea, le vessi Agamennòne;
E Taltibio, di voce a un Dio simile.
Irto cinghiai gli appresentò. Fuor trasse
Il sospeso del brando alla vagina
Trafier l’Atride: e, della belva i primi
Peli recisi, alzò le palme, e a Giove
Pregò. Sedeansi tutti in riverente
Giusto silenzio per udirlo; ed egli,
Guardando al cielo c supplicando, disse:
Il sommo ottimo Iddio, la Terra, il Sole
E r Erinni laggiù gastigatrici
Degli spergiuri, tcstimon mi siciio
Che per desio lascivo iinqua io non posi
Sopra la figlia di Briséo le mani,
V. a6i-3oo
LIBRO TIX
4a5
E che la tenni nelle tende intatta.
Mi mandino, s' io mento, ogni castigo
Serbato al falso giurator gli Dei.
Disse^ e l'ostia scannò^ poscia ne' vasti
Gorghi marini la scagliò 1’ araldo ,
Pasto de' pesci. Allor rizzossi Achille,
G sciamò : Giove padre , oh di che danni
Tu ne gravi! Non mai m' avvia TAtridc
Mosso all'ira, nè mai per farmi oltraggio
Rapita a mio mal grado egli la schiava^
Ma tu il volesti, Iddio, tu che di tanti
Achei la morte decretavi. Or voi
Itene al cibo, e all' armi indi si voli.
Disse; e, sciolto il consesso, alla sua nave
Si disperse ciascun. Ma co’ presenti
I Mirmidòni s' avviar d’Achille
Verso le tende, e li posar, schierando
Su bei seggi le donne; e nell’ armento
Fur dai sergenti i corridor sospinti.
Di beltà simigliante all’ aurea Venere
Come vide Briseide de) morto
Patroclo le ferite, abbandonossi
Sull’estinto, e ululava, e colle mani
Laccravasi il petto e il delicato
Collo e il bel viso, e si dicea plorando:
Oh mio Patroclo! oh caro e dolce amico
D’ una meschina ! Io ti lasciai qui vivo
Partendo; e ahi quale al mio tornar ti trovo!
Ahi come viemmi un mal su 1’ altro ! Vidi
L’uomo a cui diermi i genitor, trafitto
Dinanzi alla città; vidi d’ acerba
Morte rapiti tre fratei diletti;
E quando Achille il mio consorte uccise
E di Minete la città distrusse , -
Tu mi vietavi il piangere, e d’Achille
Farmi sposa dicevi, e a Ftia condurmi
Tu stesso, e m’ apprestar fra’ Mirmidòni
II nuz'ial banchetto. Avrai tu dunque,
O sempre mite eroe, sempre il mio pianto.
Cosi piange : piangean 1’ altre donzelle
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ILIADE
3oi
Piltroclo ili vista, c il [iroprio danno in core.
Stretti intanto ad Achille i seniori
Lo confortano al cibo, ed egli il niega
Gemebondo: Se restami un amico
Che mi compiaccia, non ni’ esorti, il prego,
A toccar cibo in tanto duol: to’ starmi
Fino a sera, e potrollo, in questo stato.
Tutti, ciò detto, accomiatò; ma seco
Restar gli Atridi e Nèstore cd Ulisse,
E il re cretese e il buon Fenice, intenti
A stornarne il dolor; ma il cor sta chiuso
Ad ogni dolce, finché l’apra il grido
Della battaglia sanguinosa. Or tutto
Gol pensicr nell’amico alto sospira,
E prorompe cosi; Caro infelice!
Tu pur ne’ giorni di fcral conflitto
Degli Achivi co’ Troi m’apparecchiavi
Con presta cura nelle tende il cibo.
Or tu giaci, c digiuno io qui mi struggo
Del desio di te sol; né più cordoglio
Mi graveria, se morto il padre udissi
(Misero! ei forse or per me piange in Ftia,
Per me fatto campione in stranio lido
Dell’ abborrita Argiva ) , o morto il mio
Di divina beltà figlio diletto.
Che a me si educa, se pur vive, in Sciro.
Ahi ! mi sperava di morir qui solo;
Sperava che tu, salvo a Flia tornando
Su presta nave, un di da Sciro avresti
Teco addotto il mio Pirro, c móstri a lui
I miei campi, i mici servi c l'alta reggia;
Perocché temo che Pelèo pur troppo
O più non viva, o di dolor sol viva.
Aspettando ogni di, veglio cadente,
L’ amaro annunzio della morte mia.
Cosi geme: gemean gli astanti croi,
Ricordando ciascun gli abbandonati
Suoi cari pegni. Di quel pianto Giove
Impietosito, a Pallade si volse
Immantinente, c si le disse: O figlia,
r. 341-3*0 libro XIX 4»7
Perché lasci Puom prode in abbandono?
Pensier d'Achille non hai più ? Noi vedi
Là seduto alle navi e lagrimoso
Pel caro amico ? Àudàr già tutti al desco 4
Ri sol ricusa ogni ristor. Va dunque,
R dolce ambrosia e nettare nel petto,
Onde non caggia di languor, gl’ instilla.
Sprone aggiunse quel cenno alla già pronta
Minerva , che d’ un salto , con la foga
Delle vaste ali di stridente nibbio.
Calò dal cielo, e nettare ed ambrosia
Stillò d’Achille in petto; onde le forze
11 suo fiero digiun non gli togliesse;
Indi agli eterni del potente padre
Soggiorni rivolo. Gli Achivi intanto
Tutti in procinto dalle navi a torme
Versavansì nel campo. E a quella guisa
Che fioccano dal ciel, spinte dal solilo
Serenatore d’ aquilon , le nevi ;
Così dai legni uscir densi allor vedi
I lucid’ elmi, i vasti scudi, e i forti
Còncavi usberghi e le frassinee lance.
Folgora ai lampi dell’acciaro il cielo,
E ne brilla il terren, che al calpestio
Delle squadre rimbomba. In mezzo a queste
Armasi Achille. Gli strideano i denti.
Gli occhi eran fiamme, di dolore e d'ira
Rompessi il petto : e tale egli dell’ armi
Vulcanie si vestia. Strinse alle gambe
I bei stinieri con argentee fibbie;
Pose al petto l’usbergo, e di lucenti
Chiovi firegiato agli òmeri sospese
II forte brando; s’imbracciò lo scudo.
Che immenso e saldo di lontan splendca
Come luna, o qual foco ai naviganti
Sovr’ alta apparso solitaria cima.
Quando lontani da’ lor cari il vento
Li travaglia nel mar. Tale dal bello
E vario scudo dell’ eroe saliva
All’ etra lo splendor. Stella parea
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n-iADE ...
Su la fronte il grand' elmo , irto d' equine
Chiome, e fusa sul cono tremolava
L’ aurea cresta. In quest’ armi il divo Achille
Tenta sè stesso, c vi si vibra, c prova
Se gli son atte: e gli erano qual piuma
Ch' alto il solleva. ÀlGn dal suo riservo
Cavò l’ immensa e salda asta patema
Cui nullo Achivo palleggiar potea.
Tranne il Pelide , fràssino d’ eroi
Sterminatore, da Chiron reciso
Su le pcliachc vette, c dato al padre.
Alcimo intanto e Automedontc aggiogano,
Di belle barde adorni e di bei ireni,
I cavalli; c allungate ai saldi anelli
Le guide, e tolta nella man la sferza,
Salta sul cocchio Automedòn. Vi monta
Dopo, raggiante come Sole, Achille
Tutto presto alla pugna, e con tremenda
Voce ai paterni corridor sì grida:
Xanto e Bàlio, a Podarge incliti figli,
Sia vostra cura in salvo ricondurre
Sazio di stragi il signor vostro; c morto
Noi lasciate colà come Patròclo.
Chinò la testa l’ immortai corsiero
Xanto: diffusa per lo giogo andava
Fino a terra la chioma; ed ci, da Giuno
Fatto parlante, udir fé questi accenti:
Achille, in salvo questa volta ancora
Ti trarremo noi, sì; ma ti sovrasta
L’ultim’ora, nè fia nostra la colpa.
Ma di Giove e del Fato. Se dell’ armi
Spogliàr Pàtroclo i Troi, non accusarne
Nostra pigrizia c tardità, ma il forte
Di Latona figliuolo. Ei nella prima
Fronte l’uccise, e dienne a Ettòr la palma.
Noi Zefiro sfidiamo, il più veloce
De’ venti, al corso; ma nel Fato è scritto
Che un Dìo te domi ed un mortai... Troncaro
L' Erinni i detti. E a lui l’ irato Achille:
Xanto, a che morte mi predir? Non tocca
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V. ijji 4-j4 libro XIX 4'-*9
Questo a te. Qui cader dcgglo lontano,
Lo so, dal cari genitore tna pria
TraiTÒ tutta di, guerre a’ Troi la voglia.
Oisse^ e gridando i corridor sospinse.
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LIBRO VENTESIMO
ARGOMENTO
CioTt ra|;uoB a conrilio gli Dei, « loro impoM di pmulrr parte nelU batlaglu. CioDonf,
Psilade, Merrurin, IScitunno^ Vulcano dùcendooo ia ajulo de' Greci) tUnno dalla parte
de' TrojaDÌ Marte, Aptillo, Latona, Diana, Venere e lo Scamaodrò. Enea , venuto alle
prr«e con Achille, « nrroodato dì DcUtta e ulvato da Nclluaoo. Achille mette a morte
multi lU' Demki , fra' quali Polidoro, figlio di Priamo. Eltorr, avendo aiaalito AcluUe, vtttM
«ottnlto de Apollo. Prodeue di Achille che Ca atnge de' Trojani.
Così dintorno a te, marzio Pelidc,
Gli Achei melteansi in punto appo le navi,
E i Troi del campo sul nalto. A Temi
Giove allor comandò che dalle molte
Eminenze d'Olimpo a parlamento
Convocasse gli Dei. Volò la Diva
D'ogni parte, e chiamolli alla stellata
Magion di Giove. Accorser tutti; c, ti'anuc
11 canuto Oceàn, nullo de’ Fiumi
Nò delle Ninfe vi maucò, de’ boschi
E de’ prati e de] fonti abitatrici.
Giunti del grande adimator de’ nembi
Alle stanze, si assisero su tersi
Troni che a Giove con solerte cura
Vulcano fabbricò. Prese .ciascuno
Cheto il suo posto; ma d.al mar venuto
Obbediente ei pure il re Nellunno ,
Tra i maggiori sedendosi , la inclite
Di G iovc interrogò con questi accenti :
Perchè di nuovo, fulminante Iddio,
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V. 31 -6o
ILIADE, LIBRO XX
CLiamì i numi a consiglio? Alfin decisa
De’ Trojani vuoi forse c degli Achei,
Pronti a zuffa mortai, l’ultima sorte?
Ben vedesti, o Nettunno , il mio pensiero,
Giove rispose^ del chiamarvi è questa
La cagion: benché presso al fato estremo
E gli uni e gli altri, in cor mi stanno. Assiso
Su le cime d’Olimpo io qui mi resto
L’ire mortali a contemplar tranquillo.
Voi sul campo scendete, e a cui v’aggrada
De’ Teucri e degli Achei recate aita.
Se pugna Achille ci sol , noi sosterranno
Nè pur tampoco i Teucri, essi che jeri
Solo al vederlo nc tremare. Ed oggi
Che d’ira egli arde per l’amico, io temo
Non anzi il dì fatai Troja rovini.
Disse; c di guerra un iter desire accese
De’ Celesti nel cor, che in due divisi
Nel campo si calàr: verso le navi
Giuno e Palla Minerva, e coll’accorto
Util Mercurio s’ avviò Ncttunno.
Li segui'a zoppiccaudo, e truci intorno
Gli occhi volgendo, di sua forza altero.
Vulcano, ed il sottil stinco di sotto
Gli barcollava. Alla trojana parte
N’ andar dell’elmo il crollator Gradivo,
L’intonso Febo colla madre e l’alma
Cacciatrice sorella e Xanto e Venere,
Dea del riso. Finché dalle mortali
Turbe i numi fur lungi, orgoglio e festa
Menavano gli Achei , perché comparso
Dopo lungo riposo era il Pclide,
E corse ai Teucri un freddo orror per Tossa,
Visto nell’ armi lampeggiar, sembiante
Al Dio tremendo delle stragi, Achille.
Ma quando le celesti alle terrene
Armi fur miste, una ineffabil surse
Di genti agitatrice aspra contesa.
Terribile Minerva, or sull’estremo
Fosso volando, ed or sul rauco lido.
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43u
ILIADE
*. ffl-lOO
Da questa parte ombilmente grida;
Grida Marte dall'altra, a tenebroso
Turbili simile; ed or dall' ardue cime
Delle dardauie torri, ed or sul poggio
Di Colone lunghesso il Simocnta
Correndo, infiamma a tutta voce i Teucri.
Cosi r un campo c l’ altro inanimando ,
Gli Dei beati gli auulTàr, commisti
In conflitto crudcl. Dall'alto allora
De' mortali e de’ numi orrendamente
11 gran padre tuonò : scosse di sotto
L'ampia terra c de’ monti le superbe
Cime Nettuuno. Traballar dell' Ida
Le falde tutte e i gioghi e le trojane
Rócche e le navi degli Achei. Tremoune
Fiuto, il re de' sepolti, c spaventato
Diè un alto grido e si gittò dal trono,
Temendo non gli squarci la terrena
Vòlta sul capo il crollator Ncttunno,
Ed, intromessa colaggiù la luce,
Agli Dei non discopra ed ai mortali
Le sue squallide bolge, al guardo orrende
Anco del ciel: cotanto era il fragore
Che dal conflitto de' Celesti uscia.
Contea Nettunno il re dcU'arco Apollo;
Contea Marte Minerva, e coutra Giuuo
Sta delle cacce c degli strali amante
La sorella di Febo, alma Diana;
Contra il dator de’ lucri c scrvatorc
Di ricchezze, Mercui'io, era Latoua;
Coutra Vulcano il vorticoso fiume,
Dai mortali Scamandro, e dagli Dei
Xauto nomato. E questo era di numi
Contro numi il certame e l' ordiuauza.
Ma di scagliarsi fra le turbe in cerca
Del Priàmide Ettorre arde il Pelide ;
Chò innanzi a tutto gli comanda il core
Di far la rabbia marzial satolla
Di quel sangue abborrito. Allor, destando
Le guerriere faville, .Apollo spinse
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LIBRO XX
. 101-l4o
Contro il tessalo eroe d’Anchise il figlio:
E, presa la favella e la sembianza
Del Pr'iamejo Licaon, gl' infuse
Ardimento e valor con questi accenti:
Illustre duce, Enea, dove n' andavo
Le fatte tra le tazze alte promesse
Al re de’ Teucri, che pur solo avresti
Contro il Pelidc Achille combattuto?
Pnamidc, e perchè, contro mia voglia.
Enea rispose, ad affrontar mi sproni
Queir invitto guerrier? Gli stetti a fronte
Pur altra volta, ed altra volta in fuga
La sua lancia dall’ Ida mi sospinse,
Quando, assaliti i nostri armenti, ei Pédasu
E Lirnesso atterrò. Giove protesse
Il mio ratto fuggir: senza il suo nume
M’ avvia domo il Pelidc, esso e Minerva
Che, il precorrendo, lo spargea di luce,
E de’ Teucri e de’ Lélegi alla strage
La sua lancia animava. Alcun non sia
Dunque che pugni col Pelidc. Un Dio
Sempre va seco che il difende, e dritto
Vola sempre il suo telo, e non s’arresta
Finché non passi del nemico il petto.
Se della guerra si librasse eguale
Dai Sempiterni la bilancia, ci certo.
Fosse tutto qual vantasi di ferro,
Non avvia meco agevolmente il meglio.
E tu pur prega i numi, o valoroso.
Rispose Apollo^ che tu pure, è fama.
Di Venere nascesti, ed ei di Diva
Inferiore chù quella a Giove, c questa
Al marin vecchio è figlia. Orsù; diriz/.a
In lui l’invitto acciaro, e non lasciarli
Per minacce fugar dure c superbe.
Fatto animoso a questi delti il duce.
Processe di lucenti armi vestilo
Tra i guerrieri di fronte. E lui veduto
Per le file avanzarsi arditameute
Contro il Pelidc, ai collegati numi
•Moiiti. Iliade. a 8
434
ILIADE
V. i4i-i8o
SI volse Giuno, e disse: Il cor volgete,
Tu, Nettunno, e tu, Pallade, al periglio
Che ne sovrasta. Enea tutto nell’ armi
Folgorante s’ avvia contro il Pelide,
E Febo Apollo ve lo spinge. Or noi
O forziamlo a dar volta, o pur d’Achille
Vada in ajuto alcun di noi, che forza
All’uopo gli ministri; onde s’ avvegga
Ch’egli ai Celesti più possenti è caro,
E che di Troja i difensor fann’ opra
Infruttuosa. Vi rammenti, o numi.
Che noi tutti scendemmo a questa pugna.
Perché nullo da’ Teucri egli riceva
Questo di nocumento. Abbiasi dopo
Quella sorte che a lui filò la Parca,
Quando la madre il partono. Se istrutto
Di ciò noi renda degli Dei la voce.
Temerà nel veder venirsi incontro
Fra l’armi un nume; perocché tremendi
Son gli Eterni veduti alla scoperta.
Fuor di ragione non irarti, o Giuno,
Ché ciò sconvienti, rispondea Nettunno.
Non sia che primi commettiam la pugna
Noi che siamo i più forti. Alla vedetta
Di qualche poggio dalla via remoto
Assidiamci piuttosto, ed ai mortali
Resti la cura del pugnar. Se poscia
Cominceran la zuffa o Marte o Febo,
E, rattenendo Achille, impediranno
Ch’egli entri nella mischia, e noi pur tosto
Susciteremo allor l’aspro conflitto;
E presto, io spero, dal valor del nostro
Braccio domati, per le vie d’Olimpo
Ritorneranno all’ immortai consesso.
Li precorse, ciò detto, il nume azzurro
Verso l’alta bastia che pel divino
Ercole un giorno con Minerva i Teucri
Innalzàr, perché a quella egli potesse
Riparato schivar della vorace
Orca l'assalto allor che furibonda
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iSl-AlO
LIBRO XX
43S
L’ inseguisse dal lido alla pianura.
Qui co' numi alleali il Dio s' assise
D’ impenctrabil nube circonfuso.
Sul ciglio anch’ essi s’ adagiar dell' erto
Callicolon gli opposti numi intorno
A te, divino saettante Apollo,
E a Marte, di cittadi atterratore.
Così di qua, di là deliberando
Siedono i Divi; e niuna parte ardisce,
Benché Giove gli sproni, aprir la pugna.
E già tutto d'armati il campo è pieno,
E di lampi che manda il riforbito
Bronzo de' cocchi e de' guerrieri, n suona
Sotto il fervido piò de' concorrenti
Eserciti la terra. Ed ecco in mezzo
Aflrontarsi, di pugna desiosi.
Due fortissimi eroi, d'Anchisc il figlio.
Ed Achille. Avanzossi Enea primiero.
Minacciando e crollando il poderoso
Elmo^ e, proteso il forte scudo al petto,
La grand’asta vibrava. Ad incontrarlo
Mosse il Pelide impetuoso, e parve
Truculento Tionc, alla cui vita
Denso stuol di garzoni , anzi l' intero
Borgo si scaglia^ incede egli da prima
Sprezzatamente; ma se alcun de' forti
Assalitor coll'asta il tocca, ei fiero, .
Spalancando le fauci, si rivolve
Colla schiuma alle sanne^ la gagliarda
Alma in cor gli sospira, i fianchi e i lombi
Flagella colla coda, e sé medesmo
Alla battaglia irrita; indi repente
Con torvi sguardi avventasi ruggendo ,
Di dar morte già fermo o di morire.
Tal la forza e il coraggio incontro al franco
Enea sospinscr l'orgoglioso Achille;
E, giunti a fronte, favellò primiero
11 gran Pelide: Enea, perché tanl' oltre
Fuor della turba ti spingesti? Forse
Meco agogni pugnar, perché su i Teucri
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436
ILIADK
r. a3l'2(k>
Di Priamo speri un di stender lo scettro?
Ma s’egli avvegna ancor che tu m'uccida,
Ei non porrallo alle tue mani, ei padre
Di più figli, e d’età sano e di mente:
0 forse i Teucri, se mi metti a morte.
Un eletto poder bello di viti
Ti statuirò e di fecondi solchi?
Ma dora impresa t’assumesti, io spero ^
Ch’altra volta, mi par, ti pose in fuga
Questa mia lancia. Non rammenti il giorno
Che soletto ti colsi, e con veloce
Corso dall’ Ida ti cacciai lontano
Dalle tue mandre ? Tu volavi, e, mai
Non volgendo la fronte, entro Limesso
Ti riparasti. Col favore io poi
Di Giove e Palla la città distrussi,
E ne predai le donne, e, tolta loro
La cara libertà, meco le trassi.
Gli Dei quel giorno ti scampar^ non oggi
Lo faranno , cred’ io , come t’ avvisi.
Va, ritirati adunque, io te n’assenno;
Rientra in torba, nè mi star di fironte.
Se il tuo peggio non vuoi; chè dopo il fatto
Anche lo stolto dell’ error si pente.
Me co’ detti atterrir come fanciullo
Indarno tenti, Enea rispose; anch’io
So dir minacce ed onte, e l’un dell’altro
1 natali sappiamo, e per udita
I genitori; chè nè tu conosci
Per vista i miei, ned io li tuoi. Te prole
Dell’egregio Peléo dice la fama,
E della bella equòrea Teti. Io nato
Di Venere mi vanto, e gencrommi
II magnanimo Ànchise. Oggi per certo
O gli uni o gli altri piangeranno il figlio;
Chè veruno di noi di puerili
Ciance contento non vorrà, cred’ io,
Separarsi ed uscir di questo arringo.
Ma se più brami di mia stirpe udire
Al mondo chiara, primamente Giove
Digilized by Coogl
. a6i*.Vìo
LIBRO XX
437
Dórdano generò, che fondamento
Pose qui poscia alle dardanic mura^
Perocché non ancora allor nel piano
Sorgean le sacre iliache torri, e il molto
Suo popolo le idée falde copriva.
Di Dàrdano fu nato il re , d' ogni altro
Più opulente, Erittdnio. A lui tre mila
Di teneri puledri allegre madri
Le convalli pascean. Innamorossi
Borea di loro; e, di destrier morello
Presa la forma, alquante ne comprèsse.
Che sei puledre e sei gli partorirò.
Queste, talor ruzzando alla campagna,
Gorrean sul capo delle bionde ariste
Senza pur sgretolarle; e se co’ salti
Prendean sul dorso a lascivie del mare.
Su le spume volavano de’ flutti
Senza toccarli. D’ Erittdnio nacque
Tróe, re de’Trojani, e poi di Troe
Generosi tre figli, Ilo ed Àssàraco,
E il diHforme Ganimede, al tutto
De’ mortali il più bello, c dagli Dei
Rapito in cielo, perchè fosse a Giove
Di coppa mescitor per sua bcltade,
Ed abitasse con gli Eterni. Ad Ilo
Nacque l’alto figliuol Laomedonte;
Titone a questo e Priatho c Lampo e Clizio
E l’alunno di Marte, Icctaone:
Àssàraco ebbe Capi, e Capi Anchise,
Mio genitore, e Priamo il divo Ettorrc.
Ecco il sangue eh’ io vanto. Il resto scende
Tutto da Giove che ne’ petti umani
Il valor cresce o scema a suo talento.
Potentissimo iddio. Ma tregua ornai
Fra 1’ armi a borie fanciullesche. Entrambi
Possiam d’ ingiurie aver dovizia c tanta,
Che nave non potria di cento remi
Levarne il pondo. De’ mortai volubile
È la lingua, e ne piovono parole
D’ ogni maniera in largo campo , e quale
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Dirai motto, cotal ti ila rimesso.
Ma perchè d'onte tenzonar, siccome
Stizzose femmiiictte che nel mezzo
Della via si rabbuQano, col vero.
Spinte dall’ ira , aOastclIando il falso ?
Me qui pronto a pugnar non distorrai
Colle minacce dal cimento. Or via^
Alle prove dell’asta. — E, cosi detto.
La ferrea lancia fulminò nel vasto
Terribile brocchicr che dell’ acuta
Cuspide al picchio rimugghiò. Turbossi
Il Pelide , c dal petto colla forte
Mano lo scudo allontanò, temendo
Noi trafori la lunga ombrosa lancia
Del magnanimo Enea. Di mente uscito
Eragli, stolto! che mortai possanza
Difficilmente dòma armi divine.
Non ruppe la gagliarda asta trojana
11 pavese achilleo^ chè la rattenne
Dell’aurea piastra l’ immortai fattura,
E sol due falde ne forò di cinque
Che 'ITulcano v’avea l’una sull’altra
Ribattute: di bronzo le due prime ^
Le due dentro di stagno ^ e tutta d’ oro
La media che il crudel tronco represse.
Vibrò secondo la sua lunga trave
11 Pelide, e colpi dell’inimico
L’orbicolar rotella all’orlo estremo.
Ove sottil di rame era condotta
Una falda, e sottile il sovrapposto
Cuojo taurino. La peliaca antenna
Da parte a parte lo passò. La targa
Rimbombò sotto il colpo: esterrefatto
Rannicchiossi e scostò dalla persona
Enea lo scudo sollevato ; e 1’ asta ,
Rotti i due cerchi che il cingean, sul dori
Trasvolò furiosa, e al suol si fisse.
Scansato il colpo, si ristette, e immenso
Duol di paura gli abbujò le luci.
Sentita la vicina asta confitta.
LIBRO XX
341 18o
Pronto il Pelide allor, tratta la spada,
Con terribile grido si disserra
Contro il nemico. Era nel campo un sasso
D’ enorme pondo che soverchio fora
Alle forze di due quai la presente
Età produce. Diè di piglio Enea
À questo sasso, e, agevolmente solo
L’agitando, si volse all’ aggressore 4
E nel vulcanio scudo o nell’elmetto
Avventato 1’ avvia, ma senza offesa^
E a lui per certo del Pelide il brando
Toglica la vita, se di ciò per tempo
Avvistosi Nettunno, ai circostanti
Celesti non facea queste parole :
Duoimi, 0 numi, d’assai del generoso
Elnea che domo dal Pelide all’ Orco
Ime tosto doirrà, dalle lusinghe
Mal consigliato dell’ arderò Apollo.
Insensato ! chè nulla incontro a morte
Gli varrà questo Dio. Ma della colpa
Altrui la pena perchè dee patirla
Quest’ innocente , liberal di grati
Doni mai sempre agl’immortali? Or via 4
Moviamo in suo soccorso, e s’ impedisca
Che il Pelide 1’ uccida , e che di Giove
L’ire risvegli la sua morte. 1 fati
Dccretàr ch’egli viva, onde la stiiq>c
Di Dàrdano non péra interamente.
Di lui che Giove, innanzi a quanti figli
Alvo mortai gli partorio, dilesse 4
Perocché da gran tempo egli la gente
Di Priamo abborrc, e su i Trojani ornai
D’ Enea la forza regnerà con tutti
De’ figli i figli, e chi verrà da quelli.
Pensa tu teco stesso, o re Nettunno,
(liuno rispose, se sottrarre a morte
Enea si debba, o consentir, malgrado
La sua virtude, che Io domi Achille.
Quanto a Pallade e a me, presenti i numi,
Noi giurammo solenne giuramento
439
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440 ILIADE 38l^jo
Di non mai da' Trojani la mina
Allontanar, no, s’ anco tutta in cenere
Troja cadesse tra le fiamme achee.
Udito quel parlar, corse per mezzo
Alla mischia e al Iragor delle volanti
Aste Nettunno; e, giunto ove d' Enea
E dell’inclito Achille era la pugna.
Una subita nube intorno agli occhi
Del Peh'de diffuse, e dallo scudo
Del magnanimo Enea svelto il ferrato
Frassino, al piede del rivai lo pose.
Indi spinse di forza, c dalla terra
Levò sublime Enea, che preso il volo
Dalla mano del Dio, varcò d' un salto
Molte file d’ eroi , molte di cocchi ,
E all’ estremo arrivò del rio conflitto.
Ove in procinto si mettean di pugna
De’Càuconi le schiere. Ivi davanti
Gli si fece Nettunno, e cosi disse;
Sconsigliato! qual Dio contra il Peh'de
Ti sedusse a pugnar, contra un guerriero.
Di te più caro ai numi e più gagliardo?
S’ altra volta lo scontri, ti ritira.
Onde anzi tempo non andar sotterra.
Morto Achille, combatti audacemente^
Chè nullo Acheo t’ ucciderà. — Disparve
Dopo questo precetto, e alle pupille
Del Peh'de sgombrò la portentosa
Caligine : tornar tutto ad un tempo
Chiari al guardo gli obbietti, onde fremendo
Nel magnanimo cor: Numi, diss’ egli,
Quale strano prodigio ? Al suol giacente
Veggo il mio telo, ma il gucrricr non veggo,
In cui bramoso di ferir lo spinsi.
Dunque è caro a’ Celesti ei pur davvero
Questo figlio d’Anchise! ed io stimava
Falso il suo vanto. E ben, si salvi. Andata
Gli sarà, spero, di provarsi meco
In avvenir la voglia, assai felice
D’ aver posta in sicuro oggi la vita.
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LIBRO XX
Orsù ; l’ achco valor riconfortato,
Facciam degli altri Teneri esperimento.
Sì dicendo, saltò dentro alle file,
E tutti rincorò: Prestanti Achei,
Non vogliate discosto or più tenervi
Da’ nemici : guerrier centra guerriero
Scagliatevi, e pugnate ardimentosi.
Per forte ch’io mi sia, m’è dura impresa
Sol con tutti azzuffarmi ed inseguirli.
Nè Marte pure, immortai Dio, nè Palla
A tanti armati reggerian. Ma quanto
Queste man, questi piedi e questo petto
Potranno, io tutto vel consacro, e giiu-o
Di non posarmi un sol momento. Io vado
A sfondar quelle iìlej e non fia lieto
Chi la mia lancia scontrerà, mi penso.
Cosi gli sprona; e minaccioso anch’esso
Ettore i suoi conforta, e contro Achille
Ir si promette: Del Peh'de, o prodi,
Non temete le borie ; anch’ io saprei
Pur co’ numi combattere a parole ,
Coll’asta, no; ch’ei son più forti assai.
Nè tutti avran d’Achille i vanti effetto :
Se l’un pieno gli andrà, l’altro gli fia
Tronco nel mezzo. Ad incontrarlo io vado,
S’ anco la man di fuoco egli s’ avesse ;
Sì, di fuoco la man, di ferro il pobo.
Da questo dire accesi, alto levaro
L’ aste avverse i Trojani, e con immenso
Romor le forze s’ accozzar. Si strinse
Allora Apollo al teucro duce, e disse:
Ettore, non andar contro il Pelide
Fuor di fila; ma tienti entro la schiera,
E dalla turba Io ricevi, e bada
Che di brando o di strai non ti raggiunga.
Udì del Dio la voce, e sbigottito
Nella timba de’ suoi 1’ eroe s’ immerse.
Ma di gran forza il cor vestito Achille,
Con gridi orrendi si balzò nel mezzo
De’ Trojani , e prostese a prima giunta
44>
ILUDB
V. ^6i*5oo
Di numerose genti un condottiero,
n prode Ifiz'ion che ad Otrintéo,
Guastator di città, nell'opulento
Popolo d’Ide sul nevoso Tmolo
Nàide Ninfa partorì. Venia
Costui di punta a furia. Il divo Achille
Coll’asta a mezzo capo lo percosse,
E in due lo fésse. Rimbombando ei cadde ^
Ed orgoglioso il vincitor sovr’ esso
Elsclamd: Tremendissimo Otrintide,
Eccoti a terra: e tu sepolcro umile
In questa sabbia avrai , tu che superba
Cuna sortisti alla gigéa palude
Ne’ patemi poderi appo il pescoso
Dio e dell’ Ermo il vorticoso flutto.
Cosi l’oltraggia; della morte il bujo
Coprì gli occhi al meschino, e de’ cavalli
L’ugna e li chiovi deUe rote achee
Il lasciar nella calca infranto e pesto.
Feri dopo costui Demoleonte,
D’Ànténore figliuolo e valoroso
Combattitore; lo ferì sul polso
Della tempia, nè valse aUa difesa
La ferrea guancia del polito elmetto.
, L’ impetuosa punta spezzò 1’ osso ,
Sgominò le cervella, che di sangue
Tutte insozzàrsi: e così giacque il fiero.
Gittatosi dal carro, Ippodamante
Dinanzi gli fuggia. L’ asta d’Achille
Lo raggiunse nel tergo. L’ infelice
Eisalava lo spirto, e mugolava
Come tauro che a forza innanzi all’ are
D’ Elice è tratto da garzon robusti,
E ne gode Nettunno. A questa guisa
Muggia quell’ alma feroce , e spirava.
S’ avventò dopo questi a Polidoro.
Era costui di Priamo un figlio : il padre
Gli avea difeso di pugnar, siccome
D minor de’ suoi nati c il più diletto.
Che tutti al corso li vincea. Di questa
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LtBftO TX
443
r. Sol-S^O
Sua virtude di pii con fancinllesca
Demenza vanitoso, egli tra' primi
Combattenti correa senza consiglio,
Finché morto vi cadde. Il colse a tergo
In quei trascorsi Achille, ove la cinta
Dall’ auree fibbie s’ annodava , e doppio
Scontravasi l’ usbergo. Q telo acuto
Riuscì di rimpetto all' ombilico :
Ululò quel trafitto, e su i ginocchi
Cascò', curvato colla man compresse
Le intestina, e mortai nube lo cinse.
Come in quell' atto miserando il vide
Il suo germano Ettorre, una profonda
Nube di duolo gl’ ingombrò le luci.
Nè gli sofierse il cor di più ristarsi
Dentro la turba; ma, crollando immensa
Una lancia, volò contro il Pelide,
Come fiamma ondeggiante. A quella vista
Saltò di gioja Achille; e baldanzoso :
Bieco l’uom, disse, che nel cor m'aperse
Sì gran piaga, colui che il mio m’uccise
Caro compagno: or più non fuggiremo
L’ un 1’ altro a lungo pei sentier di guerra.
Disse; e al divino Ettòr bieco guatando.
Gridò : T’ accosta ; chè al tuo fin se’ giunto.
Non pensar, gli rispose imperturbato
L’eroe trojano, non pensar di darmi
Per minacce terror, come a fanciullo;
Chè oprar so l'armi della lingua io pure,
E conosco tue forze, e mi confesso
Men valente di te; ma in grembo ai numi
Sta la vittoria: ed avvenir può forse
Ch’io men prode dal sen 1’ alma ti svelga:
Affilata ha la punta anche il mio telo.
Disse; e 1’ asta scagliò; ma dal divino
Petto d'Achille la sviò Minerva
Con levissimo soffio. Risospinta
Dall’ alito immortai, 1' asta ritorno
Fece ad Ettorre, e al piè gli cadde. Allora
Con oiribile grido disserrossi
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444
ILIADE
*• 54i*AHo
Furibondo il Pelide, impaziente
Di trucidarlo. Ma gliel tolse Apollo,
Lieve impresa ad un Dio, tutto coprendo
Di folta nebbia Ettór. Tre volte Achille
Coll'asta Tassali, tre volte un vano
Fumo tra6sse^ e con furor venendo
Il divino guerriero al quarto assalto.
Minaccioso tuonò queste parole;
Cane trojan, di nuovo ecco fuggisti
L’estremo fato che t’ avea raggiunto^
E Febo ti scampò, quel Febo , a cui
Tra il sibilo dei dardi alzi le preci.
Ma s’ altra volta mi darai nell’ ugna,
E se a me pure assiste un qualche iddio.
Ti finirò. Di quanti in man frattanto
Mi verranno de’ tuoi, farò macello.
Cosi dicendo, a Driiope sospinse
Sotto il mento la picca, e questi al piede
Gli traboccò. Così lasciollo: e, ratto
Scagliandosi a Demiico, un grande e prode
Di Filétore figlio, alle ginocchia
Lo feri, 1’ arrestò; poscia col brando
L’alma gli tolse. Dopo questi Dàrdano
E Laògono assalse, illustri figli
Di Biante; e, travolti ambo dal cocchio.
L’un di lancia atterrò, l’altro di spada.
Poi distese il trojairo Alastorìde
Che, a’ suoi ginocchi supplice cadendo,
Chiedea la vita in dono, ed ai conformi
Suoi verd’ anni pietà. Stolto! chè vano
11 pregar non sapea, nè quanto egli era
Mite DO, ma feroce. In umil atto
Gli abbracciava i ginocchi, cd altro dire
Volea pure il meschin; ma quegli il ferro
Ncll’épate gl’ immerse, che di fuori
Riversossi, e di sangue un nero fiume
Gli fe lago nel seno. Venne manco
L’alma, e gli occhi copri di morte il velo.
Indi Mulio investendo, entro un’orecchia
Gli fisse il telo, c uscir per 1’ altra il fece.
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V. 58i4Iao
Limo XX
Ad Echeclo d'Àgénore un fendente
Calò di spada al mezzo della testa,
E la spaccò; si tepefece il grande
Aeciar nel sangue, e la purpurea morte
E la Parca possente i rai gli chiuse.
Colse dopo di punta nella destra
Deucalion là dove i nervi vanno
Del cubito ad unirsi. Intormentito
Nella mano, il guerrier vedeasi innanzi
La morte, e passo non movea. Gli mena
Un mandritto il Pelide alla cervice;
Netto il capo gli mozza, e via coll'elmo
Lungi il butta. Schizzàr dalle vertebre
Le midolle, e disteso il tronco giacque.
Rigmo poscia aggredì, Rigmo, dai pingui
Trac] campi venuto, e di Piréo
Generoso figliuol. Lo colse al ventre
11 tessalico telo , e giù dal cocchio
Lo scosse. Allor diè volta ai corridori
L'auriga Arè'itóo; ma del Peh'de
L' asta il giunge alle spalle, e capovolto
Tra i turbati cavalli lo precipita.
Quale infuria talor per le profonde
Valli d’ arido monte un vasto fuoco
Che divora le selve, e in ogni lato
L'agita e spande di Garbino il soffio;
Tale in sembianza d' un irato iddio
D' ogni parte si volve furibondo
n Peh'de, ed insegne e uccide e rossa
Fa di sangue la terra. E come quando
Nella tonda c polita aja il villano
Due tauri accoppia di ben larga fronte
Di Cerere a trebbiar le bionde ariste ;
Fuor del guscio in un subito saltella
Di sotto al piede de' mugghianti il grano;
Del magnanimo Achille in questa forma
Gl' immortali cornipedi sospinti
I cadaveri calcano e gli scudi.
L' orbe tutto del cocchio e tutto l' asse
Gronda di sangue dalle zampe sparso
446 ILIADE, LIBRO XX «^,,6,4
De’ caralli a gran sprazzi e dalle rote.
Desio di gloria il cuor d’Achille infiamma,
E r invitte sue mani tntte sozze
Son di polve, di tabe e di sudore.
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LIBRO VENTESIMOPRIMO
ARGOMEIVTO.
A«ki]U inalnniJo i Trojani, {taru ae ipùgc orlU cittì • paru oeDo Scamandro. Fa pri>
i;iocn dodiri giovani per aagriRcarli all* ombra ili Patroclo. Morto di Licoooo o di Aiton^>éo.
Lotta detTcroe rollo Sramandro. Nel ponto di caitr aopnSitto dal £iuno è lalvato per opera
di Gionone, U quale Ci diuecrare da Vulcano col fuoco le correnti dell* aequa. Pugna degli
Dei fn loro. Agf^oere aaaale Achille , rd h lalvato da Apollo. 11 Nume, presa la figura di
Agt^oore, delude l'eroe, che, teuetidogU dietro, ù dirrta dal ambattÙMnlo. Frattanto i Trojani
M gettano oella città.
Ma divenuti i Teucri alle bell’ onde
Del vorticoso Xanto, ameno fiume
Generato da Giove, ivi il Pelide
Intercise i fuggenti^ c parte al muro
Per lo piano ne incalza, ove testcso
Davan le spalle al furibondo Ettorre
Scompigliati gli Achei (per l’orme istesse
Or dispersi si versano i Trojani,
E a tardarne il fuggir densa una nebbia
Giuno intorno spandea), parte negli alti
Gorghi si getta dell’argenteo fiume
Con tumulto. La rotta onda rimbomba,
Nc gemono le ripc^ e quei mettendo
Cupi ululati , nuotano dispersi
Come il, rapido vortice li gira.
Qual cacciate dall’impeto del fuoco
Alzan repente le locuste il volo
Sul margo del ruscello 5 arde veloce
L’inopinata fiamma, e quelle in fretta
Spaventate si gettano nel rio^
Digiti; . d bv Google
448
ILIADE
V. al*6o
Tal dinanzi al Pclide la sonante
Corsia del Xanto riempiasi tutta
Di guerrieri e cavalli alla riufnsa.
Su la sponda del fiume allor poggiata
Alle mirici la peliaca antenna,
Strinse l’eroe la spada, e dentro il flutto,
Come deradn lanciossi, rivolgendo
Opre orrende nel cor. Menava a cerchio
11 terribile acciar; s’udia lugubre
Dei trafitti il lamento , e tinta in rosso
L’onda correa. Qual fugge innanzi al vasto
Delfin la torma del minuto pesce',
Che di tranquillo porto si ripara
Nei recessi atterrito, ed ei n’ingoja
Quanti ne giunge; paurosi i Teucri
Così ne’ greti s’ascondcan del fiume.
Poiché stanca d’ ucciderli il Pelide
Sentì la destra, dodici ne prese
Vivi e di scelta, gioventù, che il fio
Dovean pagargli dell’estinto amico.
Stupidi per terror come cervetti
Fuor degli antri ei li tira, e cu’ politi
Cuoi di che strette avean le gounc, a tutti
Dietro annoda le mani , e a’ suoi compagni ,
Onde trarli alle navi, li commette.
Vago ei poscia di stragi in mezzo all’ acque
Dicssi di nuovo impetuoso, e il figlio
Del dardànidc Priamo, Licaonc,
GU occorse in quella che fuggia dal fiume.
Ne’ paterni poderi un’altra volta.
Venutovi notturno, egli l’avea
Sorpreso c seco a viva forza addotto
Mentre inaccorto con tagliente accetta
I nuovi rami recidendo stava
Di selvatico fico, onde foggiarne
Di bel carro il contorno: all'improvvisla
Gli fu sopra in quell’opra il divo Achille,
Che, trattolo alle navi, in Lenno il cesse
Per prezzo al figlio di Giasone, Euuéo.
Ospito poi d’Eunéo con molti doni
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. 6i'ioo
libro XXI
449
Ne fc riscatto l'imbrio Cezione, *
Che in Arisba il mandò. Di là fuggito
Nascostamente, alle paterne case
Avea fatto ritorno: e già la luce
Undecima splendea che con gli amici
Si ricreava di servaggio uscito^
Quando di nuovo il dodicesmo giorno
Un Dio nemico tra le mani il pose
Del terribile Achille, onde inviarlo.
Suo malgrado, alle porte atre di Fiuto.
Riguardollo il Pelide^ e siccom’era
Nudo la fronte (chè celata e scudo
E lancia e tutto avea gittate oppresso
Dalla fatica nel fuggir dal fiume,
E vacillava di stanchezza il piede).
Lo riconobbe, e irato in suo cor disse:
Quale agli occhi mi vicn strano portento?
Che sì che i Teucri dal mio ferro ancisi
Tornan dall' ombre di Gocito al giorno!
Come vivo costui? come, venduto
Già tempo in Lenno, del frapposto mare
Potè l’onda passar che a tutti è freno?
Or ben, dell’asta mia giisti la punta.
Vedrem s’ci torna di là pure, ovvero
Se l’alma terra, che ritien costretti
Anche i più forti, riterrà costui.
Queste cose ei discoiTc in suo segreto
Senza far passo. Sbigottito intanto
Licaon s’avvicina, desioso
D’ abbracciargli i ginocchi, e al nero artiglio
Della Parca involarsi. Alza il Fetide
La lunga lancia per ferir^ ma quello
Gli si fa sotto a tutto corso, e chino
Atterrasi al suo piè. Divincolando
L’asta sul capo gli trapassa, e in terra
Sitibonda di sangue si conficca.
Supplichevole allor coll’ una mano
Le ginocchia gli stringe il meschiuello,
Coll’altra gli rattien l' asta confitta ,
Nè l’abbandona^ e tuttavia pregando:
Mosti. Iliade. ^9
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45o
aiADE
». I0l-l'|0
Deh ferma! ei grida: umilemente io tocco
Le tue ginocchia, Achille; ahi mi rispetta;
Miserere di me! pensa che sacro
Tuo supplice son io; pensa, o divino
Germe di Giove, che nudrito fui
Del tuo pane quel di che nel paterno
Poder tua preda mi facesti, e tratto
Lungi dal padre e dagli amici in Lenno,
Di cento buoi ti valsi il prezio, ed ora
Tre volte tanti io ti varrò redento.
È questa a me la dodicesma aurora
Che dopo molti affanni in Ilio giunsi;
Ed ecco elle crudel fato mi mette
In tuo poter: ciò chiaro assai mi mostra
Che in odio a Giove io sono. Ah! che a ben corta
Vita la madre a partorir mi venne.
La madre Laotòe, d’Alto figliuola.
Di queir Alte che vecchio ai bellicosi
Lélegi impera, e tien suo seggio al fiume
Satnl'ocnte nell’eccelsa Pedaso.
Di questo ebbe la figlia il re trojano
Fra le molte sue spose , e due nascemmo
Di lei, serbati a insanguinarti il ferro.
E l’un tra i fanti della prima fronte
Già domasti coll’asta, il generoso
Mio fratei Polidoro, ed or me pure
Ria sorte attende; chè non io già spero.
Poiché nemico mi vi spinse un Dio,
Le tue mani sfuggir. E nondimeno '
Nuovo un prego ti porgo, e tu del core
La via gli schiudi. Non volermi, Achille,
Trucidar: d’uno stesso alvo io non nacqui
Con Ettor che t’ha morto il caro amico.
Cosi pregava umil di Priamo il figlio ì
Ma dispietata la risposta intese:
Non parlar, stolto, di riscatto, e taci.
Pria che Patròclo il dì fatai compiesse,
Erami dolce il perdonar de’ Teucri
Alla vita, e di vivi assai ne presi,
Ed assai ne vendetti: ora di quanti
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LIBRO \\i
45 1
Fiu che nc mandi allo mie mani Iddio,
Nessun da morte scamperà^ nessuno
De' Teucri, e meno del tuo padre i figli.
Muori dunque tu pur. Perchè sì piangi?
Muri Patroclo che miglior ben era.
E me, bello qual vedi e valoroso,
E di gran padre nato e di una Diva,
Me pur la morte ad ugni istante aspetta,
E di lancia o di strale un qualcheduno
Anche ad Achille rapirà la vita.
Senti mancarsi lo ginocchia e il core
A quel dir F infelice^ e, abbandonata
L'asta, accosciossi coll’ aperte braccia.
Strinse Achille la spada, e alla giuntura
Lo percosse del collo. Addentro tutto
Gli si nascose l'affilato acciaro,
E boccon egli cadde in sul terreno.
Steso in lago di sangue. Àllor , d' un piede
Presolo Achille, lo gittù nell'onda,
E con acerbo insulto: Or qui ti giaci.
Disse, tra' pesci che di tua ferita
Il negro sangue lambiran securi.
Nè te la madre sul funereo letto
Piangerà, ma del mar nell'ampio seno
Ti tran'à lo Scamandro impetuoso^
E là qualeuno del guizzante armento
Ti salterà dintorno, e sotto l’atrc
Crespe dell'onda l' adipose polpe
Di Licaon si roderà. Possiate
Cosi tutti perir, finché del sacro
Ilio sia nostra la città, voi sempre
Fuggendo, e io sempre colle stragi al tergo ^
Nè giovcranvi i vortici di questo
Argenteo fiume, a cui di molli turi
Fate sovente sacrificio, e vivi
Gettar solete i corridor nell'onda.
Nè per questo sarà che non vi tocchi
Di rio fato perir, finché la morte
Di Patroclo sia sconta e in un la strage
Che, me lontano, degli Achei faceste.
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45a
ILIADE
p. i8i«9M
Dagl' imi gorghi udì Xanto d’Achille
Le superbe parole, e, d’alto sdegno
Fremendo, divisava in suo pensiero
Come alla furia dell’eroe por modo,
E de’ Teucri impedir l’ultimo danno.
Intanto il figlio di Peléo brandita
A nuove stragi la gran lancia, assalse
Asteropóo, figliuol di Pelegone,
Di Pelegon cui l’Assio ampio-corrente
Generò Dio commisto a Peribéa,
D’Acessaméno la maggior fanciulla.
A costui si fe sopra il grande Achille;
E <juei, del fiume uscendo, ad incontrarlo
Con due lance ne venne. Animo e fona
Gli avea messo nel cor lo Xanto, irato
Pe’ tanti in mezzo alle sue limpid’onde
Giovani prodi dal Pelide uccisi
Spietatamente. Avvicinati entrambi.
Disse Achille primiero: Chi se’ tu
Ch’osi fermiti incontro, e di che gente?
Chi m’attenta, è figliuol d’un infelice.
E a lui di Pelegon l’ inclita prole :
Magnanimo Pelide, a che mi chiedi
Del mio lignaggio? Dai remoti campi
Della Peonia qua ne venni (ò questo
Già l’undecimo sole), e alla battaglia
Guido i Peonj dalle lunghe picche.
Del nostro sangue 6 autor l’Assio di lai^a
Bellissima corrente, c genitore
Del bellicoso Pelegon. Di questo
10 nacqui, e basU. Or mano all’ armi, o prode.
All’ altere minacce alto solleva
11 divo Achille la peliaca trave.
Fassi avanti del par con due gran teli
L’ambidestro campione Asteropéo.
Coglie col primo l’inimico scudo.
Ma noi giunge a forar; ché l’aurea squama
Lo vieta, opra d’un Dio: sfiora coll altro
Il destro braccio dell’eroe, di nero
Sangue lo sprizza, c dopo lui si figgo.
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¥. 2Ìl’9fiO
LIBRO XXI
453
Di maggior piaga desioso , in terra.
Fe secondo volar contro il nemico
La sua lancia il Pelide, intento tutto
A trapassargli il cor, ma colse in fallo:
Colse la ripa, e mezzo infitto in quella
Il gran fusto restò. Dal fianco allora
Trasse Achille la spada, e furibondo
Assalse Asteropéo che invan dalPalta
Sponda si studia di sferrar d'Achille
Il frassino: tre volte egli lo scosse
Colla robusta mano, e lui tre volte
La forza abbandonò. Mentre s’accinge
Ad incurvarlo colla quarta prova
E spezzarlo, d’Achille il folgorante
Brando il prevenne, arrecator di morte.
Lo percosse nell’epa all’ombelico;
N’andàr per terra gl’intestini; in negra
Caligine ravvolti ei chiuse i lumi,
E spirò. L’uccisor gli calca il petto,
Lo dispoglia dell’ armi, e si l’insulta:
Statti cosi, meschino; e, benché nato
D’un fiume, impara che il cozzar co’ figli
Del saturnio signor t’è dura impresa.
Tu dell’Assio, che larghe ha le correnti,
Ti lodavi rampollo, ed io di Giove
Sangue mi vanto, e generommi il prode
Eàcide Peléo che i numerosi
Mirmidòni corregge, e discendéa
Eiaco da Giove. Or quanto ò questo Dio
Maggior de’ fiumi che nel vasto grembo
Devolvonsi del mar, tanto sua stirpe
La stirpe avanza che da lor procede.
Eiccoti innanzi un alto fiume, il Xanto:
Di’ che ti porga, se lo puote, aita.
Ma che puot’egli centra Giove, a cui
Né il regale Achelòo, né la gran possa
Del profondo Oceano si pareggia?
E l’Oceàn, che a tutti e fiumi e mari
E fonti e laghi é genitor, pnr egli
Della folgore trema, e dell’orrendo
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454
ILIADE
V. s6i-3o4j
Fragor che mette del gran Giove il tuono.
Sì dicendo, divclse dalla ripa
La ferrea lancia, e su la sabbia steso
L'esanime lasciò. Bruna il bagnava
La corrente, e famelici dintorno
Aflbllavansi i pesci a divorarlo.
Visto il forte lor duce Astcropéo
Cader domato dal Pelide , in fuga
Spaventati si volsero i Peonj
Lungo il rapido fiume, flagellando
Prontamente i corsier. Gl' insegne Achille,
E Tcrsiloco uccide e Trasio e Mneso,
Enio, Midonc, Asti’pilo, Ofeleste;
E più n'avria trafitti il valoroso.
Se irato il fiume dai profondi gorghi
Non levava in mortai forma la fronte
Con questo grido: Achille, tu di fona
Ogni altro vinci, è ver, ma il vinci insieme
Di fatti indegni, e troppo insuperbisci
Del favor degli Dei che sempre hai teco.
Se ti concesse di Saturno il figlio
Di tutti i Troi la morte, dal mio letto
Cacciali, e in campo almen fa tue prodezze.
Di cadaveri e d’armi ingombra è tutta
La mia bella corrente, ed impedita
Da tante salme aprirsi al mar la via
Più non può te ^ e tu segni a farle intoppo
Di nuova strage. Orsù; desisti, o fiero
Prence, e ti basti il mio stupor. — Scamandro,
Figlio di Giove, gli rispose Achille,
Sia che vuoi; ma non io degli spergiuri
Teucri l’eccidio cesserò, se pria
Dentr’Ilio non li chiudo, e corpo a corpo
Non mi cimento con Ettòr. Qui deve
Restar privo di vita od esso od io.
Sì dicendo, coll’impeto d’nn nume
Avventossi ai Trojani. Allor si volse
Xanto ad Apollo: Saettante iddio,
Giove fatto t’avea l’alto comando
Di dar soccorso ai Teucri insin che giunga
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Liuno XXI
455
¥. 3ol'.ì4o
La sera, c il volto della terra adombri.
E tu del padre non adempì il cenno?
Mentr'egli si dicea, l’audace Achille
Si scagliò dalla ripa in mezzo al fiume.
11 fiume allor si rabbufio, gonfiossi,
lutorbidossi, e furiando sciolse
A tutte l’onde il freno: urtò la stipa
De’ cadaveri opposti, e li respinse.
Mugghiando come tauro, alla pianura.
Servati i vivi ed occultati in seno
A’ suoi vasti recessi. Orrenda intorno
Al Pelide ruggia la torbid’onda,
E gli urtava lo scudo impetuosa
Sì, eh’ ci fermarsi non potea su i piedi.
A un eccelso e grand’olmo alfin s’apprese
Colle robuste mani^ ma, divelta
Dalle radici, minò la pianta,
Seco trasse la ripa, e coi prostrati
Folti rami la fiera onda rattenne,
E le sponde congiunse come ponte.
Fuor balza allor l’eroe dalla vorago,
E, messe l’ali al piè, nel campo vola
Sbigottito. Né il Dio perciò si resta.
Ma, colmo e negro rinforzando il flutto,
Vie più gonfio l’ insegue, onde di Marte
Rintuzzargli le furie, e de’ Trojani
L’eccidio allontanar. Diè un salto Achille
Quanto è il tratto d’ un’ asta, ed il suo corso
Somigliava il volar di cacciatrice
Aquila fosca che i volanti tutti
Di forza vince e di prestezza. 11 bronzo
Dell’usbergo gli squilla orribilmente
Sul vasto petto; con obliqua fuga
Scappar dal fiume ei tenta, e il fiume a tergo
Con più spesse e sonanti onde l’incalza.
Come quando per l’orto e pe’ filari
Di liete piante il fontanier deduce
Da limpida sorgente un ruscelletto, ,
E, la marra alla man, sgombra gl’intoppi
Alla rapida linfa che, correndo,
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456
ILIADE
9. 34i«38u
I lapilli rimescola, e si volve
Giù per la china gorgogliando, e avanza
Pur chi la guida ; così sempre inscgue
L'alto flutto il Pelide, c lo raggiunge
Benché presto di piè; chè non resiste
Mortai virtude all' imraortal. Quantunque
Volte la fronte gli converse il forte,
Mirando se giurati a porlo in fuga
Tutti fosser gli Dei, tante il sovrano
Fiotto del fiume gli avvolgea le spalle.
Conturbato nell'alma, egli non cessa
D'espedirsi e saltar verso la riva,
Ma con rapide ruote il fiero fiume
Sottentrato gli snerva le ginocchia,
E di costa aggirandolo, gli ruba
Di sotto ai piedi la fuggente arena. '
Levò lo sguardo al cielo il generoso.
Ed urlò: Giove padre, adunque nullo
De' numi aita l'infelice Achille
Contro quest'onda? Ah! ch'io la fuggaj c poi
Contento patirò qualsia sventura.
Ma nullo ha colpa de' Celesti meco.
Quanto la madre mia che di menzogne
Mi lattò, profetando che di Troja
Sotto le mura perirei trafitto
Dagli strali d' Apollo. Oh foss’io morto
Sotto i colpi d'Ettorre, il più gagliardo
Che qui si crebbe! Avrìa rapito un forte
D'un altro forte almen l'armi e la vita.
Or vuole il Fato che sommerso io pera
D'oscura morte, ohimè! come fanciullo
Di mandre guard’ian cui ne' piovosi
Tempi il torrente, nel guadarlo, affoga.
Accorsero veloci al suo lamento,
E appressarsi all'eroe Palla e Ncttunno
In sembianza mortai: lo confortare,
11 presero per mano, e della terra
Sì disse il grande scotitor: Pelidc,
Non trepidar: qui siamo in tua difesa
Due gran Divi, Minerva ed io Nettunno,
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LIBnO TLTLi
Nè Giove il vieta, nè dal Fato è fisso
Che ti conquida un fiume; e tu di questo
Vedrai tra poco abbonacciarsi II flutto.
Un saggio avviso porgeremti intanto,
Se obbedirne vorrai: dalla battaglia
Non ti ristar, se pria dentro le mura
Dell'alta Troja non rinserri i Teuci7
Quanti potranno dalla man fuggirti,
Nè alle navi tornar, che spento Ettorre:
Noi ti daremo di sua morte il vanto.
Disparvero, ciò detto, e ai congiurati
Numi tornir. Riconfortato Achille
Dal celeste comando, in mezzo al campo
Precipitossi. 11 campo era già tutto
Una vasta palude, in cui disperse
De' trafitti nuotavano le belle
Armature e le salme. Alto al Pch'de
Saltavano i ginocchi, ed ei diretto
La fiumana rompea, che a rattenerlo
PIÙ non bastava; perocché Minerva
Gli avea nel petto una gran forza infuso.
Nè rallentò per questo lo Scamandro
Gl'impeti suoi; ma, più che pria sdegnoso.
Contro il Pelidc sollevossi in alto.
Arricciando le spume, e al Simoenta,
Destandolo, gridò queste parole:
Caro germano, ad afilrenar vien meco
La costui furia, o le dardanie torri
Vedrai tosto atterrate, e tolta ai Teucri
Di resister la speme. Or tu deh! corri
Veloce in mio soccorso; apri le fonti;
Tutti gonfia i tuoi rivi, e con superbe
Onde t'innalza, e tronchi aduna e sassi,
E con fracasso ruotali nel petto
Di questo immane guastator che tenta
Uguagliarsi agli Dei. Ben io t' affermo
Che nè bellezza gli varrà, nè forza.
Nè quel divin suo scudo che di limo
Giacerà ricoperto in qualche gorgo
Voraginoso. Ed io di negra sabbia
457
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458
ILIADE
V.
InTolverò luì stesso^ c tale un monte
Di ghiaja immenso e di pattume intoriiu
Gli verserò, gli ammasserò, che Fossa
Gli Achei raccome non potran: cotanta
La belletta sarà che lo nasconda.
Fia questo il suo sepolcro; onde non v’abbia
Mcsticr. di fossa nell’ esequie sue.
Disse; cd alto insorgendo e d’atre spume
Ribollendo e di sangue e corpi estinti.
Con tempesta piombò sopra il Pelidc.
E già la sollevata onda vermiglia
Occupava 1’ eroe; quando, temendo
Che vorticoso noi rapisca il fiume.
Diè Giuno un alto grido, ed a Vulcano:
Sorgi, disse, mio figlio; a te si spetta
Pugnar col Xante: non tardar; risveglia
Le tremende tue fiamme. Io di Ponente
E di Noto a destar dalla marina
Vo le gravi procelle; onde 1’ incendio
Per lor cresciuto i corpi inveiva e l’arme
De’ Trojani , e le bruci. E tu del Xanto
Lungo il margo le piante incenerisci;
Fa che avvampi egli stesso; e non lasciarti
Nè per minacce nè per dolci preghi
Svolger dall’ opra , nè allentar la forza ,
S’ io non tcn porga con un grido il segno.
Frena allora gl’ incendj j e ti ritira.
Ciò detto appena, un vasto foco accese
Vulcano, e lo scagliò. Si sparse quello
Prima pel campo, e i tanti, di che pieno
Il Pelide 1’ avea, morti combussc.
Si dileguar le limpid’ acque, c tutto
Seccossi il pian, qual suole in un istante
D’autunnale aquilon scingarsi al soffio
L’ orto irrigato di recente, c in core
Ne gode il suo cultor. Seccato il campo,
E combusti i cadaveri, si volse
Contro il fiume la vampa. Ardean stridendo
I salci c gli olmi e i tamarigi, ardea
II loto c l’alga cd il cipèro in molta
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K 4^t*r>oo
LIBAO XXt
459
Copia cresciuti su la verde ripa.
Dal caldo spirto di Vulcano afllitli,
E qua e là per le belle onde dispersi
Guizzano i pesci. 11 cupo fiume istesso
S'infoca, e in voce dolorosa esclama:
Vulcano, al tuo poter nullo resiste
De’ numi: io cedo alle tue fiamme. Ah! cessa
Dalla contesa: immantinente Achille
Scacci pur tutti di citiade i Teucri^
Di soccorsi e di risse a me che cale ? —
Così i-iarso dalle fiamme ei parla.
Come ferve a gran fuoco ampio Icbcte
In cui di verro saginato il pingue
Lombo si frolla; alla sonora vampa
Crescon forza di sotto i crepitanti
Virgulti, e l’onda d’ ogni parte esulta;
Si la bella del Xanto acqua infocata
Bolle, nè puote piu fluir consunta
Ed impedita dalla forza infesta
Dell’ ignifero Dio. Quindi a Giunone
Queir offeso pregò con questi accenti :
Perchè prese il tuo figlio, augusta Giuno,
Su l’ altre a tormentar la mia corrente 1!
Reo ti son forse più che gli altri tutti
Protettori de’ Troi ? Pur se il comandi,
Mi rimarrò ; ma si rimanga anch’ esso
Questo nemico, e non sarà, lo giuro,
Mai de’ Teucri per me conteso il fato,
No , s’ anco tutta per la man dovesse
De’ forti Achivi andar Troja in faville.
La Dea l’intese; ed a Vulcan rivolta:
Fermati, disse, glorioso figlio;
Dar cotanto martfr non si conviene
Per cagion de’ mortali a un Immortale.
Spense Vulcano della madre al cenno
Quell’ incendio divino , e ne’ bei rivi
Retrograda tornò l’onda lucente.
Domo il Xanto, quetàrsi i due rivali;
Chè cosi Giuno comandò, quantunque
Calda di sdegno. Ma tra gli altri numi
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46o
ILIADE
« 501.540
Più tremenda risorse la contesa.
Scissi in due parti s’avanzàr sdegnosi
L’ un contro P altro con fracasso orrendo :
Ne muggì l’ampia terra, c le celesti
Tube squillar; sull’ alte vette assiso
Dell’ Olimpo n’ udì Giove il clangore,
E il cor di gioia gli ridea, mirando
La divina tenzone: e già sparisce
Tra gli eterni guerrieri ogn’ intervallo.
Truce di scudi forator diè Marte
Le mosse, e primo colla lancia assalsc
Minerva, e ontoso favellò: Proterva
Audacissima Dea , perchè de' numi
L’ ire attizzi cosi? Non ti ricorda
Quando a ferirmi concitasti il figlio
Di Tidéo, Diomede, e, dirigendo
Della sua lancia tu raedesma il colpo.
Lacerasti il mio corpo? Il tempo è giunto
Che tu mi paghi dell’ oltraggio il fio.
SI dicendo, avventò l’insanguinato
Marte il gran telo, e ne ferì 1’ orrenda
Egida che di Giove anco resiste
Alle saette. Si ritrasse indietro
La Dira, e ratta colla man robusta
Un macigno afferrò che negro e grande
Giacea nel campo, dalle prische genti
Posto a confine di poder. Con questo
Golpi l’impetuoso iddio nel collo,
E gli sciolse le membra. Ei cadde, e steso
Ingombrò sette jugeri; le chiome
Insozzarsi di polve, e orrendamente
L’ armi sul corpo gli tonàr. Sorrise
Pallade , e altera l’ insultò : Demente !
Che meco ardisci gareggiar: non vedi
Quant’ io t’avanzo di valor? Va,, sconta
Di tua madre le furie, e dal suo sdegno
Maggior castigo, dell’ aver tradito
Pe’ Teneri infidi i giusti Achei, t’aspetta.
Cosi detto, le lucide pupille
Volse altrove. Frattanto al Dio prostrato
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Lino SUI
461
Venere accorse, per la mano il prese,
E lui, ebe grave sospira, e a fatica
Riaver può gli spirti, altrove adduce.
L'alma Giuno li vide, ed a Minerva;
Guarda , disse , di Giove invitta figlia ,
Guarda quella impudente: ella di nuovo
Fuor dell’ aspro conflitto via ne mena
Queir omicida. Ah! vola, e su lor piomba.
Volò Minerva, e gl’ inseguì. Di gioja
11 cor ballava; e, fattasi lor sopra.
Colla terribil mano a Citeréa
Tal diè un tocco nel petto, che la stese:
Giaceano entrambi riversati, e altera
Su lor Minerva gloriossi, e disse:
Fosser tutti così questi di Troja
Proteggitori, a disfidar venuti
I loricati Achei I Fossero tutti
Di fermezia e d’ardir pari a Ciprigna
Di Marte ajutatrice e mia rivale!
E noi, distrutte d’ Ilion le torri,
Già poste l’armi da gran tempo avremmo.
Udì la Diva dalle bianche braccia
II motteggio, e sorrise. A Febo allora
Disse il sire del mar: Febo, già sono
Gli altri alle prese; e noi ci stiamo in posa?
Ciò del tutto sconviensi; onta saria
Tornar di Giove ai rilucenti alberghi
Senza far d’ armi paragon. Comincia
Tu minore d’età; chè non è bello
A me, più saggio e antico, esser primiero.
Oh povero di senno e d’ intelletto !
Non ricordi più dunque i tanti affanni
Che noi da Giove ad esular costretti
Intorno ad Ilio sopportammo insieme.
Noi soli e numi, allor che all’orgoglioso
Laomedonte intero un anno a prezzo
Pattuimmo il servir ? Duri comandi ,
11 tiranno ne dava. Ed io di Troja
L’ alta cittade edificai , di belle
Ampie mura la cinsi e di securi
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462 ILI\DE I». 58|'6}u
Baluardi^ c tu, Febo, alle selrosc
Idée pendici pascolavi intanto
Le cornigere mandre. Ma condotta
Dalle grate Ore del servir la fine,
Ne frodò la mercede il re crudele,
E minaccióso ne scacciò, giurando
Che te di lacci avvinto e mani e piedi
In isola remota avrìa venduto,
E mozze inoltre ad ambeduo 1’ orecchie.
Frementi di rancor per la negata
Pattuita mercede, immantinente
Noi ne partimmo. E questo forse il merlo
Ch’ or le sue genti a favorir ti move ,
Anzi che nosco procurar di questi
Fedifraghi Trojani e de’ lor figli
E delle mogli la total mina?
Possente Enosigeo, rispose Apollo,
Stolto davvero ti parrei, se teco
A cagion de’ mortali io combattessi,
Che miseri c quai foglie or fireschi sono,
Or languidi e appassiti. Usciamo adunque
Del campo, e sia tra lor tutta la briga.
Ciò detto , altrove s’ avviò , nè volle
Alle mani venir, per lo rispetto
Di quel Nume a lui zio. Ma la sorella
Di belve agitatrice aspra Diana
Con acri molli il rampognò: Tu fuggi.
Tu che lungi saetti? e tutta cedi
Senza contrasto al re Ncttun la palma ?
Vile! a che dunque nelle man quell’arco?
Ch’ io non t’ oda più mai nella patema
Reggia tra’ numi, come pria, vantarli
Di combattere solo il re Neltunno.
Non le rispose Apollo; ma sdegnosa
Si rivolse alla Dea di strali amante
La veneranda Giuno, e sì la punse
Con acerbo ripiglio : E come ardisci !
SUrmi a fronte, o proterva? Di poss-anza
Mal tu puoi meco gareggiar, quantunque
D’ arco armata. Gli è ver che fra le donne
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K 6ai«66o
LIBRO 1X1
463
Ti fe Giove un l'ione, e qual ti piaccia
Ti concesse ferir ^ ma per le selve
Meglio ti fia dar morte a capri e cervi,
Che pugnar co’ più forti. E se provarti
Vuoi pur, ti prova, e al paragone impara
Quanto io sono da più. — Ciò detto, al polso
Colla manca le afferra ambe le mani,
Colla dritta dagli òmeri le strappa
Gli aurei strali, e, ridendo, su 1’ orecchia
Gli sbatte alla rivai che d’ogni parte
Si divincola^ e sparse al suol ne vanno
Le aligere saette. Alfin di sotto
Le si tolse, e fuggi come colomba
Che, da grifagno augel per venturoso
Fato scampata, ad appiattarsi vola
Nel cavo d’una rupe. Ella, piangendo.
Così fuggia, lasciate ivi le frecce.
Parlò quindi a Latona il messaggiero
Àrgicida: Latona, io non vo’teco
Cimentarmi^ il pugnar colle consorti
Del nimbifero Giove, è dura impresa.
Va dunque, e franca fra gli eterni Dei
D’ avermi vinto per valor ti vanta.
Cosi dicea -Mercurio^ e quella intanto
Gli sparsi per la polve archi e quadrelli
Raccogliea della figlia, e la scguia^
Chè all’Olimpo salita entro l’ eterne
Stanze di Giove avea già messo il piede.
Su i patemi ginocchi, lagrimando,
La vergine s’ assise , c le tremava
L’ ambrosio manto sul bel corpo. Il padre
La si raccolse al petto, e con un dolce
Sorriso dimandò ; Chi de’ Celesti
Temerario t’ offese, o mia diletta,
Come còlta in error? — La tua consorte.
Cinzia rispose, mi percosse, o padre,
Giunon che sparge fra gli Dei le risse.
Mentre in cielo seguian queste parole,
Febo entrava nel sacro Dio a difesa
Dell’alto muro^ perocché temea
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,{64
ILlÀO£
V. 66i>7oo
Noi prendeste in qncl di, pria del destino,
Degli Àchivi il valor. Ma gli altri Eterni
All'Olimpo tomaro, irati i vinti,
Festosi i vincitori; e ognnn dintorno
Ai procelloso genitor s' assise.
11 Pelide struggea pel campo intanto
I Trojani, c stendea confusamente
Cavalli e cavalier. Come fra densi
Globi di fumo, che si volve al ciclo,
Un gran fuoco, in cui soffia ira divina,
Una cittade incende, e a tutti arreca
Travaglio e a molti esizio; a questa immago
Dava Achille ai Trojani angoscia e morte.
Stava sull’alto d' una torre il veglio
Priamo; e, visti fuggir senza ritegno.
Senza far più difesa, i Troi davanti
Al gigante guerricr, mise nno strido,
E calò dalla torre, onde ai custodi
Degl' ingressi lasciar lungo le mura
Questi avvisi; Alle man tenete, o prodi,
Spalancate le porte insin che tutti
Nella città sicn salvi i fuggitivi
Dal diro Achille sbaragliati. Ahi, giunto
Forse è l'ultimo danno! Come dentro
Siensi messe le schiere, e ognun respiri,
Riscrrate le porte, e saldamente
Sbarratele; eh’ io temo non irrompa
Fin qua dentro il furor di questo fiero.
Al comando rogai schiusero quelli
Tosto le porte, e ne levar le sbarre;
Onde una via s' aperse di salute.
Fuor delle soglie allor lauciossi Apollo
In soccorso de' Troi che dritto al muro
Fuggian da tutto il campo arsi di sete,
Sozzi di polve. E impetuoso Achille,
Come il porta furor, rabbia, ira e brama
Di sterminarli, gl’inseguia coll’asta;
Ed era questo il punto, in che gli Achei
Dell’alta Troja avrian fatto il conquisto.
Se Febo Apollo l’ antenóreo figlio ,
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70I /4®
LIBRO XXI
465
Agenore, guerrier d'alta prestanza,
Non eccitava alla battaglia. Il Dio
Gli fe coraggio, gli si mise al fianco.
Onde lungi tenergli della Parca
I gravi artigli; ed appoggiato a un faggio,
*Di caligine tutto si ricinse.
Come Agénore il truce ebbe veduto
Guastator di città, fermossi, e, molti
Pensier volgendo, gli ondeggiava il cure,
G dicca doloroso in suo segreto:
Misero me! se dietro agli altrì io fuggo
Per timor di quel crudo, egli, malgrado
La mia rattezza, prenderammi , e morte
Non decorosa mi darà. Se mentre
Ei va questi inseguendo, io d’altra parte
M’involo, e d’ilio traversando il piano,
Dell’lda ai gioghi mi riparo, e quivi
Nei roveti m’appiatto, indi la sera
Lavato al fiume, e rinfrescato a Troja
Mi ritorno... Oh! che penso? Egli non puote
Non veder la mia fuga, e arriverammi
Precipitoso con più presti piedi.
E allor dall’ ugna di costui , che tutti
Vince di forza, chi mi scampa? Or dunque.
Poiché certa è mia morte, ad incontrarlo
Vadasi in faccia alla cittade. Ei pure
Ha corpo che si fora, e un’alma sola;
E benché Giove glorioso il renda,
Mortai cosa lo dice il comun grido.
Verso Achille, in ciò dir, vòlta la fronte,
E desioso di pugnar l’aspetta.
Come da folto bosco una pantera
Sbucando, affronta il cacciator, né teme
I latrati , nè fugge , e s’ anco avvegna
Ch’ ei l’impiaghi primier, la generosa
II furor non rallenta, innanzi eh’ ella
O gli si stringa addosso, o resti uccisa;
Così ricusa di fuggir 1' ardito
D'Antenore figliuol, se col Pelide
Pria non fa prova di valor. Protese
Mosti. Iliatie. 3o
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Dunque al petto lo scudo, e, nel nemico
Tolta la mira, alto gridò: Per certo
De’ magnanimi Teucri , illustre Achille ,
Atterrar ti speravi oggi le mura.
Stolto! n’avrai penoso affare ancora^
Chè là dentro siam molti e valorosi.
Che ai cari padri, alle consorti, ai figli
Difendiam la cittade^ e tu, quantunque
Guerrier tremendo, giacerai qui steso.
Sì dicendo, lanciò con vigoroso
Polso la picca, e nello stinco il colse
Sotto il ginocchio. Risonò lo stagno
Dell’ intatto stinier^ ma il ferro acuto.
Senza forarlo, rimbalzò respinto
Dalle tempre divine. Impetuoso
Scagliossi Achille al feritore ma ratto,
Gl’ invidiando quella lode. Apollo
Involò l’avversario alla sua vista.
L’avvolgendo di nebbia, e queto queto
Dal certame lo trasse, e via lo spinse.
Indi tolta d’Agònore la forma ,
Diessi in fuga, e sviò con quest’inganno
Dalla turba il Pelide che veloce
Dietro gli move, e incalzalo, e piegarne
Vèr Io Scamandro studiasi la fuga.
Noi precorre il fuggente a tutto corso.
Ma di poco intervallo; e colla speme
Sempre Palletta d’ una pronta presa,
E sempre lo delude. Intanto a torme
Spaventati si versano i Trojani
Dentro le porte. In un momento tutta
Di lor. fu piena la città; chè nullo
Rimanersene fuori non sostenne.
Nè il compagno aspettar, nè dei campati
Dimandar, nè de’ morti. Ognun, che snelle
A salvarsi ha le piante, alla rinfusa
Dentro si getta , e dal terror respira.
LIBRO VENTESIMOSECONDO
ARGOMENTO
EooikIom i Trojaai riArhiiiù Della nttà, il >olo Ettore rùnaue «otto le mura ini .ittrnJi-rc
Achille <li pictle fermo. Timore e |«rule di Priamu e di Ecul«a. Ettore ù pone iu fuga ^ia
\itta d’Achille, che, rìronoKiiitn ]'iog.inno iti A|>oUo, ritorna verso 'rmja. (jio«e le sorti
ilei due capitani. Minerva «otto U figura ili neifobo ìiuliga Ellure a ciascnlarsi con Achille.
ComUattimeDlo degli erui. Ettore , (èritu a morte , supplKa il ueaiicu di rendere il suo cada*
vere ai genitori. Dura risposta di AchiUe. Parole c nsorte di Ettore. Iiuullt d’Achille sull'c»
stinto * vaiu laldama dei Greci. Achille, disinvitato il cadavere, gli fora i piedi, e li In lega,
e strasciua dietro U soo carro. Coslenusioiic e lamenti di Eculia. di Priamù e d’AuJrùma<-a.
Cosi quai cervi paurosi, i Teucri
Nella città fuggian confusamente,
E davano, appoggiati agli alti merli,
Al sudor refrigerio cd alla sete.
Mentre gli Achei con inclinali scudi
Si fan sotto alle mura. Ma la Parca
Dinanzi ad Ilio su le porte Scec
Rattcnne immoto, come astretto iti ceppi,
Lo sventurato Ettór. Fece ad Achille
L’ arcicro Apollo allor queste p.arolc:
Perchè mortale un Immortal persegui,
O figlio di Pelèo? Non anco avvisi,
Cieco furente, che un Celeste io sono ?
Dei fugati Trojani e nel riparo
D'Ilio già chiusi ogni pensicr ponesti,
E qua sviasti il tuo furor. Che speri !
Uccidermi ? Son nume. — E nume infesto,
E di tutti il peggior ( rispose acceso
Di grand’ ira il Pelide ). A questa parte
M’hai deviato dalle mura, c tolto
468
ILIADE
¥. si4So
Che molti, prima d’arrivar là dentro,
Mordessero la polve. Ah! mi rapisti
Un gran vanto, e quei vili in salvo hai messo.
Perchè non temi la vendetta mia)
Ma la farei ben io, se la potessi.
Tacque) e drizzassi alla città, volgendo
Terribili pensieri , e il piè movea
Rapido come vincitor de' ludi
Animoso destrier che per 1' arena
Fa le ruote volar. Primo lo vide
Precipitoso correre pel campo
Priamo, e da lungi folgorar, siccome
L’astro che cane d' Orion s' appella,
E precorre 1’ autunno) scintillanti
Fra numerose stelle in densa notte
Manda i suoi raggi; splendidissim’ astro ,
Ma luttuoso e di cocenti morbi
Ai miseri mortali apportatore.
Tal del volante eroe sul vasto petto
Splendean Tarmi. Ululava, e colle mani
Alto levate si battea la fronte
11 buon vecchio, e chiamava a tutta voce
L’amato figlio, supplicando: e questi
Fermo innanzi alle porte altro non ode.
Che il desio di pugnar col suo nemico.
AUor le palme il misero gli stese,
E questi profierì pietosi accenti:
Mio diletto figliuolo, Ettore mio.
Deh! lontano da’ tuoi da solo a solo
Non affrontar costui, che di fortezza
D’assai t’è sopra. Oh fosse in odio il crudo
Agli Dei, quanto a me! Pasto di belve
Ei giacerla qui steso ( e del mio petto
Avria fine l’ angoscia ) , ei che di tanti
Orbo mi fece valorosi figli,
Quale ucciso, qual tratto alle remote
Rive, e venduto. Ed or fra i qui rinchiusi
Teucri i due figli , ahi lasso ! ancor non veggo,
Che l’esimia consorte Laotóe
A me produsse, Polidoro, io dico.
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V 6i-ioo
LIBRO KXIl
i'«)
R Licaon. Se prigionieri ei sono,
Con auro e bronzo ne farem riscatto;
Ch'io n’ho molte conserve, e molto avere
Diè l’egregio vegliardo Alte alla figlia.
Se poi ne’ regni già passar di Piato ,
Alto sarà su la lor morte il pianto
Della madre ed il mio , ma brevi i' lutti
Del popolo, ove spento tu non cada
Dal Pelide, tu pur. Rientra adunque,
Mio dolce figlio, nelle mura, e i Teucri
Conservane e le spose. Al diro Achille
Non lasciar sì gran lode: abbi pensiero
Della cara tua vita ; abbi pietade
Di me meschino, a cui non tolse ancora
La sventura il sentir, di me che misi
Già nelle soglie di vecchiezza il piede,
Dall’alta condannato ira'di Giove
Di ria morte a perir, vista di mali
Prima ogni faccia, trucidati i figli.
Rapite le fanciulle, i casti letti
Contaminati, crudelmente infranti
Contro terra i bambini, e strascinate
Dall’empio braccio degli Achei le nuore.
£d ultimo me pur su le regali
Porte trafitto e spoglia abbandonata
Voraci i cani sbraneran, que’ cani
Che custodi io nudria del regio tetto
Alla mia mensa io stesso; e allor, da ingorda
Rabbia sospinti, disputar vedransi
11 mio sangue, e di questo alfin satolli
Ne’ portici sdraiarsi. Ah, bello è in campo
Del giovine il morir! Coperto il petto
D’onorate ferite, onta non avvi.
Non offesa che morto il disonesti.
Ma che ludibrio sìa degli affamati
Mastini il capo venerando e il bianco
Mento d’ un veglio indegnamente ucciso,
Che sia bruttato il nudo e verecondo
Suo cadavere, ah! questo, è questo il colmo
Dell’ umane sventure. E, sì dicendo,
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ILIADE r. 10I-l4i>
Strappasi il veglio dall' augusto capo
1 canuti capei; ma non si piega
L’ alma d’ Èttorre. Desolata accorse
D’altra parte la madre; c, lagrimando,
E nudandosi il seno, la materna
Poppa scoperse; e: A questa abbi rispetto,
Singhiozzante sciamava, a questa, o figlio.
Che calmò, lo ricorda, i tuoi vagiti.
Rientra, Ettore mio; fuggi cotesto
Sterminatore; non istargli a petto.
Sciaurato! Non io, s’cgli t’uccide,
Non io darti potrò, caro germoglio
Delle viscere mie, su la funebre
Bara il mio pianto, nè il potrà 1' illustre
Tua consorte: e tu lungi appo le navi
Giacerai degli Achivi, esca alle belve.
Questi preghi di lagrime interrotti
Porgono al figlio i dolorosi, c nulla
Persuadon 1’ eroe che fei-mo attende
Lo smisurato già vicino Achille.
Quale in tana di tristi erbe pasciuto
Fero colubro il viandante aspetta,
E gonfio di grand’ ira , orribilmente
Guatando intorno, nelle sue latebre
Lubrico si convolvc; e tale il duce
Trojan, di sdegni generosi acceso.
Appoggiato lo scudo a una sporgente
Torre, sta saldo; e nel gran cor rivolge
Questi pensieri : Che farò ? Se metto
Là dentro il piè, Polidamante il primo
Rampognerammi acerbo, ei che la scorsa
Notte esortommi alla città ritrarre.
Comparso Achille, i Teucri; ed io noi feci:
E si quest’ era il meglio. Or che la mia
Pertinacia fatai tutti li trasse
Nella mina, sostener l’aspetto
Più non oso de’ Troi nè dell’ altere
Trojane; e parmi già i peggioi'i udire :
Ecco là queir Ettór che, di sue forae
Troppo fidando, il popolo distrusse.
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. l4l-l8o LIBRO XXII 47 ‘
Così diranno, e meglio allor mi fia
Combattere, e reddir, prostrato Achille,
Nella citlade, o per la patria mia
Aver qui morte gloriosa io stesso.
Pur se deposto e scudo e lancia ed elmo,
Io medesmo mi féssi incontro a questo
Magnanimo rivale, e la spartana
Donna cagion di tanta guerra, e tutte
Gli promettessi le con lei portate
Da Paride ricchezze, ed altre ancora
Da partirsi agli Achei, quante ne chiude
Questa città 4 se con tremendo giuro
Quindi i Trojani a rivelar stringessi
I riposti tesori, ed in due parti
Dividendoli lutti... Oh che vaneggia
Mai la mia mente! Io supplice, io dimesso
Presentarmi ? Il crudel , nulla m’ avendo
Nè pietà nè rispetto ( ov’ io dell’ armi
Nudo a lui vada), disarmato ancora.
Qual donna imbelle, metterammi a morte^
Ch’ ei non è tale da poter con esso
Novellar dal querceto o dalla rupe
Come amanti garzoni e donzellette.
A donzellette adunque ed a garzoni
Le dolci fole 4 a me la pugna: e tosto
Vedrassi cui darà Giove la palma.
Cosi seco ragiona, e fermo aspetta.
Ed ecco Achille avvicinarsi, al truce
Dell’ elmo agitator Marte simile.
Nella destra scotea la spaventosa
Peliaca trave; come viva fiamma,
O come disco di nascente Sole
Balenava il suo scudo. Il riconobbe
Ettore , e freddo corsegli per 1’ ossa
Un tremor; nè aspettarlo ci più sostenne;
Ma, lasciate le porte, a fuggir diessi
Atterrito. Spiccossi ad inseguirlo
Fidato Achille ne’ veloci piedi.
Qual ne’ monti sparvicr che, de’ volanti
II più ratto, si scaglia impetuoso
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47»
ILIADE
r. i8t*2au
Su pavida colomba^ ella scn fugge
• Obbliquamentc, c quei, doppiando il volo,
Vie più l’ incalza con acuti stridi ,
Di ghermirla bramoso^ a questa guisa
L’ ardente Achille difilato vola
Dietro il trepido Ettdr che in tutta fiiga
Mena il rapido piè, rasente il muro.
Trascorsero veloci la collina
Delle vedette^ oltrepassar, lunghesso
La callaja, il selvaggio aèreo fico
Sempre sotto alle mura^ e già venuti
Son deir alto Scamandro alle due Tonti.
Calida è l'una, c qual di fuoco acceso
Spandesi intorno di sue linfe il fumo^
Fredda come gragnuola o ghiaccio o neve
Scorre l’altra di state: ambe son cinte
D' ampi lavacri di polita pieti'a,
A cui, pria che l’Acheo venisse i giorni
Della pace a turbar, solean de’ Teucri
Liete le spose e le avvenenti figlie
I bei veli lavar. Da questa parte
Volano i due campion, l’uno fuggendo,
L’ altro inseguendo. 11 fuggitivo è forte;
Ma più forte c più ratto è chi l’ insegue,
E d' un tauro non già , nè della pelle
Si gareggia d’ un bue , premio a veloce
Di corsa vincitor, ma della vita
Del grande Ettorre. E quale a vincer usi
Giran le mete corridori ardenti,
A cui proposto è di gentil donzella
O d’ un tripode il premio, ad onoranza
D’ alcun defunto eroe; così tre volte
Dell’iliaca città fér questi il giro
Velocemente. A riguardarli intento
Stava il consesso de’ Celesti, e Giove
A dir si fece : Ahi sorte indegna ! io veggo
D’ Ilio intorno alle mura esagitato
Un diletto mortai; duoimi d’ Ettorre
Che su l’ idée pendici e sull’ eccelsa
Pergàmea ròcca a me solea di scelte
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e. Mi-360 libro kxii 4?3
Vittime offrire i pingui lombi, ed ora
Del minaccioso Achille il presto piede
L’incalza intorno alla città. Pensate,
Vedete, o numi , se per noi si debba
Dalla morte camparlo, o pur, quantunque
Cosi prode, il domar sotto il Pelide.
Procelloso Tonante, oh! che dieesti?
Gli rispose Minerva^ e che t’ avvisi?
Alla morte involar uom sacro a morte ?
E tu r invola. Ma non tutti al certo
Noi Celesti tal fatto assentiremo.
T’ accheta , o &glia , rcplieò de’ nembi
L’ adunator ^ eh’ io nulla bo fermo ancora ,
E nulla io voglio a te negar. Fa tutto ,
Senza punto ristarti, il tuo desire.
Spronò quel detto la già pronta Diva
Che dall’ olimpie eime impetuosa
Spiccossi, e scese. Alla dirotta intanto
Incalza Achille il fuggitivo Ettorre.
Come veltro cerviero alla montagna
Giù per coovalli e per boscaglie insegne
Dalla tana destato un caprìuolo^
Sotto un arbusto il meschinel s’ appiatta
Tutto tremante, e 1’ altro ne ritesse
L’orme, e corre e ricorre irrequieto,
Finché lo trova ^ così tutte Achille
Del sottrarsi ad Ettór tronca le vie.
Quante volte sBlar diritto ei tenta
Alle dardanie porte, o delle torri
Sotto gli spaldi, onde co’ dardi aita
Gli dian di sopra i suoi, tante il Pelide
Lo previene, e il ricaccia alla pianura,
Vicino alla città. Come nel sogno
Talor ne sembra con lena affannata
Uom, che fugge, inseguir, nè questi ha forza
D’ involarsi, nè noi di conseguirlo;
Cosi nè Achille aggiunger puote Ettorre,
Nè questi a quello dileguarsi. E intanto
Come schivar potuto avrìa la Parca
Di Priamo il figlio, se l’estrema volta
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<74
ILIADE
«*■ iCi<!luo
Nuoto al petto vigor non gli porgca
Propizio -Apollo, e nuova lena al piede?
Accennava col capo il divo Achille
Alle sue genti di non far co’ dardi
Al fuggitivo offesa, onde veruno,
Ferendolo , 1’ onor non gli precida
Del primo colpo. Ma venuti entrambi
La quarta volta alle scamandrie fonti,
L’ auree bilance sollevò nel cielo
Il gran Padre, e dne sorti entro vi pose
Di mortai sonno eterno: una d’Achille;
L’altra d’ Ettorre : le librò nel mezzo,
E del duce trojano il fatai giorno
Cadde, e vèr l’Orco decbinò. Dolente
Febo allora lasciollo in abbandono;
Ed al Peb'de fattasi vicina.
Sì Minerva parlò: Diletto a Giove,
Inclito Achille , or si che giunto io spero
11 momento, in che noi su queste rive.
Spento alla 6ne il bellicoso Ettorre,
D’ alta gloria andrem lieti. Ei più non puotc
Scapparne ei, no, quand’ anche il Saettante,
Ai piè prostrato dell’ Egioco Padre ,
Di liberarlo s’argomenti. Or tu
Qui sdstati, e respira. Andronne io stessa
Al tuo nemico, e metterdgli in core
Di venir teco a singoiar conflitto.
Obbedì, s’ appoggiò lieto al ferrato
Suo frassino il Peh'de; e dipartita
Da lui la Diva, al volto, alla favella
Dèifobo si fece, c all’anelante
Ettor venuta: O mio german, dicea.
Troppo costui dintorno a queste mura
Con piè ratto t’incalza e ti travaglia.
Or via restiamei, e difendiamei a fermo.
Rispose Ettòr: Dèifobo, di quanti
Mi diè fratelli Priamo ed Ecùba,
Sempre il più caro tu mi fosti, ed ora
Lo mi sei più che prima , c più mi traggi
Ad onorarti; perocché tu solo
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.‘v>i-34o
LTBRO ^XU
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Da quelle mura osasti a mia difesa,
Tu solo uscir, veduto il mio periglio.
Fratello amato, replicò la Diva,
I venerandi genitori, c tutti
Stringendosi gli amici a’ miei ginocchi ,
Di non uscire mi pregar, cotanto
Tcrror gl' ingombra^ ma l’interno vinse,
Che per tc mi struggea. Cero dolore.
Combattiam dunque arditamente, e nullo
Sia più d’aste risparmio; onde si vegga
S’ egli, noi spenti, tornerà di nostre
Spoglie onusto alle navi, o se piuttosto
Qui cadrà per la tua lancia traCtto.
Si dicendo , la Diva ingannatrice
Precorse; e quelli, l’uà dell’altro a fronte
Divenuti , primier 1’ armi crollando ,
Fe questi detti 1’ animoso Ettorrc :
Più non fuggo , o Pelide. Intorno all’ alte
Iliache mura mi aggirai tre volte.
Nè aspettarti sostenni. Ora son io
Che intrepido t’aOronto, c darò morte,
O l’ avrò. Ma gli Dei , Cdi custodi
De’ giuramenti, teslimon ne sièno
Che se Giove 1’ onor di tua caduta
Mi concede, non io sarò spietato
Col cadavere tuo, ma renderollo.
Toltene solo le bell’ armi, intatto
À’ tuoi. Tu giura in mio favor lo stesso.
Non parlarmi d’ accordi , abbominato
Nemico., ripigliò torvo il Peh'de:
Nessun patto tra l’uomo ed il bone,
Nessuna pace tra 1’ eterna guerra
Dell’agnello e del lupo, e tra noi due
Nè giuramento nè amistà nessuna.
Finché 1’ uno di noi steso col sangue
L’ invitto Marte non satòll;. Or bada ,
Chè n’hai mestiero, a richiamar la tutta
Tua prodezza, e a lanciar dritta la punta.
Ogni scampo è preciso, e già Minerva
Per 1’ asta mia ti doma. Ecco il momento
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Che dei morti da te miei cari amici
Tutte ad un tempo «conterai le pene.
Disse; e forte avventò la bilanciata
Lunga lancia. Antivide Ettorre il tiro,
E, piegato il ginocchio e la persona,
Lo schivò. Sorvolando il ferreo telo,
Si confìsse nel suol; ma ne lo svelse
Invisibile ad Ettore Minerva,
E tomollo al Pclide. — Errasti il colpo.
Gridò 1’ eroe trojan; nè Giove ancora.
Come dianzi cianciasti, il mio destino
Ti fe palese. Deiforme sei,
Ma cinguettiere, che con vani accenti
Atterrirmi ti speri, e nella mente
Addormentarmi la virtude antica.
Ma nel dorso tu, no, non pianterai
L’ asta ad Ettorre che diritto viene
Ad assalirti, e ti presenta il petto ;
Piantala in questo se t’ assiste un Dio.
Schiva intanto tu pur la ferrea punta
Di mia lancia. Oh si possa entro il tuo corpo
Seppellir tutta quanta, e della guerra
Ai Teucri il peso alleviar, te spento,
Te lor funesta principal rovina!
Disse; e, l'asta di lunga ombra squassando.
La scagliò di gran forza, e del Pelide
Colpì senza fallir lo smisurato
Scudo nel mezzo. Ma il divino amesb
La respinse lontan. Crucciossi Ettorre,
Visto uscir vano il colpo; e, non gli essendo
Pronta altra lancia, chinò mesto il volto,
E a gran voce Dèifobo chiamando.
Una picca chiedea ; ma lungi egli era.
Allor s’ accorse dell’ inganno , e disse :
Misero ! a morte m’ appellar gli Dei.
Credeami aver Dèifobo presente ;
Egli è dentro le mura, e mi deluse
Minerva. Al fianco ho già la morte, e nullo
V è più scampo per me. Fu cara un tempo
A Giove la mia vita, e al saettante
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LIBUO IXII 4?7
Suo figlio, ed essi mi campar cortesi
Ne’ guerrieri perigli. Or mi raggiunse
La negra Parca. Ma non fia per questo
Che da codardo Io cada : periremo ,
Ma gloriosi, e alle future genti
Qualche bel fatto porterà il mio nome.
Ciò detto, scintillar dalla vagina
Fe la spada che acuta e grande e forte
Dal fianco gli pendea. Con questa in pugno
Drizza II viso al nemico, e si disserra
Com’ aquila che d’ alto per le fosche
Nubi a piombo sul campo si precipita
A ghermir una lepre o un’ agnelletta.
Tale, agitando 1’ affilato acciaro,
SI scaglia EUorre. Scagliasi del pari.
Gonfio il cor di feroce ira, il Pelide
Impetuoso. Gli ricopre il petto
L’ ammirando brocchiere sovra il guemito
Di quattro coni fulgid’elmo ondeggia
L’aureo pennacchio che Vulcan v’ avea
Sulla cima difiuso. £ qual sfavilla
Nei notturni sereni in fra le stelle
Espero, il più leggiadro astro del cielo^
Tale 1’ acuta cuspide lampeggia
Nella destra d’Achille che l’estremo
Danno in cor volge dell’illustre Ettorre,
E tutto con attenti occhi spiando
Il bel corpo, pon mente ove al ferire
Più spedita è la via. Chiuso il nemico
Era tutto nell’ armi luminose
Che all’ ucciso Patroclo avea rapite.
Sol, dove il collo all’ òmero s’ innesta ,
Nuda una parte della gola appare.
Mortalissima parte. A questa Achille
L’ asta diresse con furor : la punta
Il collo trapassò; ma non offese
Della voce le vie si, che precluso
Fosse del tutto alle parole il varco.
Cadde il ferito nella sabbia, e altero
Sciamò sovr’ esso il feritor divino :
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4;8
ILIADE
¥. 4 31 '4^)
Ettore, il giorno che spogliasti il morto
Patroclo, in salvo ti credesti, e nullo
Terror ti prese del lontano Achille.
Stolto! restava sulle navi al mio
Trafitto amico un vindice, di molto
Più gagliardo di lui : io vi restava.
Io, che qui ti distesi. Or cani e corvi
Te strazieranno turpemente, e quegli
Avrà pomposa dagli Achei la tomba.
E a lui cosi l’eroe languente: Achille,
Per la tua vita, per le tue ginocchia.
Per li tuoi genitori io ti scongiuro.
Deh! non far che di belve io aia pastura
Alla presenza degli Achei : ti piaccia
L’ oro e il bronzo accettar che il padre mio
E la mia veneranda genitrice
Ti daranno in gran copia: e tu lor rendi
Questo mio corpo , onde 1’ onor del rogo
Dai Teucri io m’abbia c dalle teucre donne.
Con atroce cipiglio gli rispose
11 fiero Achille : Non pregarmi , iniquo ^
Non supplicarmi nè pe’ miei ginocchi ,
Ne’ pe’ miei genitor. Potessi io , preso
Dal mio furore , minuzzar le tue
Carni, ed io stesso, per l’immensa offesa
Che mi facesti, divorarle crude.
No, nessun la tua testa al fero morso
De’ cani involerà : uè s’ anco dieci
£ venti volte mi s’ addoppii il prezzo
Del tuo riscatto^ nè se d' altri doni
Mi si faccia promessa^ nè se Priamo
A peso d’ oro il corpo tuo redima :
No, mai non fia che sul funereo letto
La tua madre ti pianga. Io vo’ che tutto
Ti squarcino le belve a brano a brano.
Ben lo previdi che pregato indarno
T’avrei, riprese il moribondo Ettorre.
Hai cor di ferro, e lo sapea. Ma bada
Che di qualche celeste ira cagione
lo non ti sia quel dì che Febo Apollo
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LlliRO XXII
•5oo
E Paride, malgrado il tuo valore,
'P anciderauDO sulle porte Scee.
Cosi detto, spirò. Sciolta dal corpo
Prese 1’ alma il suo voi verso 1’ abisso ,
Lamentando il suo fato ed il perduto
Fior della forte gioventude. E a lui.
Già fredda spoglia , il vincitor soggiunse :
Muori ^ chè poscia la mia morte io pure.
Quando a Giove sia grado e agli altri Eterni,
Contento accetterò. Cosi dicendo ,
Svelse dal morto la ferrata lancia.
In disparte la pose, e dalle spalle
L’ armi gli tolse insanguinate. Intanto
D’ ogn’ intorno v’ accorsero gli Achivi ,
Contemplando d’ Ettòr maravigliosi
L’ ammirande sembianze e la statura ^
Nè vi fu chi di fargli una ferita
Non si godesse , al suo vicin dicendo :
Per gli Dei, che a toccarsi egli s' è fatto
Più tenero ohe quando arse le navi :
E in questo dir coll’asta il ripungea.
Spoglio ch’ei l’ebbe, fra gli astanti Achei
Ritto Achille pai'lò queste parole:
Amici e prenci e capitani, udite:
Poiché diermi gli Dei che domo alfine
Costui ne fosse che d’ assai più nocque.
Che gli altri tutti insieme, alla cittade
Volgiam l’armi, e vediam se, spento Ettorrc,
Fanno i Teucri pensier d’ abbandonarla ,
O, benché privi di cotanto ajuto.
Coraggiosi resistere .... Ma quale
Vano consiglio mi ragiona il cure ?
Senza pianto sul lido e senza tomba
Giace il morto Patroclo. Insin che queste
Mie membra animerà soffio di vita,
Ei fia presente al mio pensiero ^ e s’ anco
Laggiù nell’ Orco obblivi'on scendesse
Della vita primiera, anco nell' Orco
Mi seguirà del mio diletto amico
La rimembranza. Or via^ dunque si rieda
4^0 ILIIOB ,, 5oi-A4<i
Alle navi, e costui vi si strascini.
E voi frattanto, giovinetti achivi.
Intonate il peana; alto è il trionfo
Che riportammo: il grande Ettór, dai Teucri
Adorato qual nume, è qui disteso.
Disse; e, centra l'estinto opra crudele
Meditando , de’ piè gli fora i nervi
Dal calcagno al tallone, ed un guinzaglio
Insertovi bovino, al cocchio il lega.
Andar lasciando strascinato a terra
11 bel capo. Sul carro indi salito
Con l'elevate gloriose spoglie,
Stimolò col flagello a tutto corso
I corridori che volàr bramosi.
Lo strascinato cadavere un nembo
Sollevava di polve; onde la sparta
Negra chioma agitata e il volto tutto
Bruttavasi, quel volto in pria sì bello,
Allor da Giove abbandonato all’ ira
Degl’ inimici nella pati'ia terra.
All’ atroce spettacolo si svelse
La genitrice i crini; e, via gittando
II regai velo, un ululato mise
Che alle stelle n’ andò. Plorava il padre
Miseramente, e gemiti e singulti
Per la città s’ udian , come se tutta
Dall’ eccelse sue cime arsa cadesse.
Rattenevano a stento i cittadini
11 re canuto che, di duol scoppiando,
Dalle dardanie porte a tutto costo
Fuor voleva gittarsi. S’ avvolgea
11 misero nel fango, e tutti a nome
Chiamandoli , e pregando : Ah ! vi scostate ;
Lasciatemi, gridava; è intempestivo
Ogni vostro timor; lasciate, amici.
Ch'io me n’esca, ch’io vada tutto solo
Alle navi nemiche. Io vo’ cadere
Supplichevole ai piè di quell’ iniquo
Violento uccisor. Chi sa che il crudo
Il mio crin bianco non ripctti, e senta
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.580 LIBRO IBI! 4^ ■
Pietà di mia vecchiezza ? Ei pnre ha un padre
D' anni carco, Peléo, che generoUo
E de' Teucri nudrillo alla mina,
Soprattutto alla mia, tanti uccidendo
Giovinetti miei figli: nè mi dolgo
Si di lor tutti, ohimè! quanto d' un solo.
Quanto d’ Ettór, di cui trarrammi in breve
L' empia doglia alla tomba. Oh fosse ei morto
Tra le mie braccia almen! Cosi la madre.
Che sventurata partorillo, e io stesso
Sfogo avremmo di pianti e di sospiri.
Questo ei dicea , piangendo ; e co' lamenti
Facean eco al suo pianto i cittadini.
Dalle Troadi intanto circondata.
In alti lai rompea la madre: Oh figlio!
Tu se' morto, ed io vivo ? io giunta ai sommo
Delle sventure te perdendo, ahi lassa!
Te che in ogni momento eri la mia
Gloria e il sostegno della patria tutta.
Che t' accogliea qual nume. Ahi! ne saresti.
Vivo, il decoro^ e ne sei, morto, il lutto.
Seguia questo parlar di pianto un fiume.
Ma del fato d' Ettór nulla per anco
Andromaca sapea; chè nullo a lei
Del marito rimasto anzi alle porte
Recato avea 1' avviso. Nell' interne
Regie stanze tessendo ella si stava
A doppie (ila una lucente tela
Di diverso rabesco j e per suo cenno
Avean frattanto le leggiadre ancelle
Posto un tripode al fuoco, onde al consorte
Pronto fosse, al tornar dalla battaglia,
Caldo un lavacro. Non sapea, demente!
Che da' lavacri assai lungi domato
L' avea Minerva per la man d'Achille.
Ma come dalla torre un suon confuso
D' ululi intese e di lamenti, tutte
Le tremaro le membra j al suol le cadde
La spola*, e, vòlta aUc donzelle, disse:
Accorrete sollecite, seguitemi
Mosti. Iliade. 3 1
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4«a
ILIADE
¥' 58i*63«i
Due di voi tosto ; vo' veder che avvenne.
Dell’onoranda suocera la voce
Mi percuote 1’ orecchio , e il cor mi balza
Con sussulto nel petto, e manca il piede.
Certo, qualche gran danno, ohimè! sovrasta
Di Priamo ai £gli. Allontanate, o numi.
Questo presagio; ma ben forte io temo
Che il divo Achille all’ animoso Ettoire
Non abbia del salvarsi entro le mura
Già tagliata la strada, ed or pel campo
Lo m’ insegna da tutti abbandonato ,
E la bravura esizial non dòmi
Che il possedea: restarsi egli non seppe
Mai nella folla, e sempre oltre si spinse,
A nessun prode di valor secondo.
Così dicendo, dell' "eggia uscio
Qual forsennata, e le tremava il core.
La seguivan le ancelle; e fra le turbe
Giunta alla torre, s’arrestò, girando
Lo sguardo intorno dalle mura. Il vide;
11 riconobbe da corsier veloci
Strascinato davanti alla cittade
Verso le navi indegnamente. Oscura
Notte i rai le coperse, ed ella cadde
All’ indietro svenuta. Si scomposero
I leggiadri del capo adornamenti
E nastri e bende e l’ intrecciata mitra
E la rete ed il vel che dielle in dono
L’ aurea Venere il dì che dalle case
D’ Eezìòne Ettór la si condusse
Di molti doni nuziali ornata.
Afibllàrsi pietose a lei dintorno
Le cognate che smorta tra le braccia
Reggeau 1’ afflitta di morir bramosa
Per immenso dolor. Come in sè stessa
Alfiu rivenne, e l’alma al cor s’accolse,
Fe degli occhi due fonti, e così disse:
Oh me deserta ! oh sposo mio ! noi dunque
Nascemmo entrambi col medesmo fato:
Tu nella reggia del tuo padre; ed io
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O. 6ii-66o 1-»K0 XXII 4^3
Nella tcbaua Ipdplaco selvosa,
Seggio d’ Eeuón che psvgoletta
Àllevommi, meschino una meschina!
Oh non m’ avesse generata! Ai regni
Tu di Plato discendi entro il profondo
Sen della terra, e me qui lasci al lutto
Vedova in reggia desolata. Intanto
Del figlio, ohimè! che fia? Figlio infelice
Di miserandi genitor, bambino
Egli è del tutto ancor^ nè tn puoi, morto.
Più farti suo sostegno, Ettore mio.
Ned egli il padre vendicar^ chè dove
Pur sia che degli Achei la lagrimosa
Guerra egli sfugga; nondimen dolenti
Trarrà sempre i suoi giorni, e a lui l’avaro
Vicin mutando i termini del campo,
Spoglierallo di questo. Abbandonato
Da’ suoi compagni è 1’ orfanello; ei porta
Ogtior dimesso il volto, e lagrimosa
La smunta guancia. Supplice indigente
Va del padre agli amici, e all’ uno il sajo,
Tocca all’altro la veste. 11 più pietoso
Gli accosta alquanto il nappo, e il labbro bagna.
Non il palato. Ed altro tal che lieto
Va di padre e di madre, alteramente
Dalla mensa il ributta, e lo percote,
E villano gli grida; Sciagurato!
Esci: il tuo padre qui non siede al desco.
Torna allor, lagrimando, Astianatte
Alla vedova madre, egli che dianzi
D’ eletti cibi si nudria, scherzando
Sul paterno ginocchio. E quando ei , stanco
D’innocenti trastulli, al dolce sonno
Ghiudea le luci alla nudi'ice iu grembo.
Dentro il suo letticciuol su molli piume.
Sazio di gioia il cor, s’ addormentava.
E quanti or privo dell’ amato padre.
Ahi quanti affanni soffrirà ! nè punto
D’ Astianatte gioveragli il nome
Che gli posero i Troi; perchè le porte
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484 tLUDE, Lnmo XXII v. 66i-<;;t
Tu sol ne difenderi e F ardue mura.
Or te sul lido fra le navi, e lungi
Da chi vita ti dii, lubrici i vermi
Roderan , come sazio avrai de’ veltri
Nudo le gole; ahi nudo! e nella reggia
Tante avevi leggiadre ed esqnisite
Vesti, lavoro dell’ esperte ancelle.
Or poiché vane a te son fatte, e tolto
N' è il coprirti di queste in sul feretro ,
Tutte alle fiamme gitterolle io stessa;
Onde al cospetto de’ Trojani almeno
Questo segno d’ onor ti sia rcnduto.
Così dicea, piangendo; ed al suo pianto
Co' sospiri facean eco le donne.
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LIBRO VENTESIMOTERZO
iRGOMENTO
LaoMnlu «fei Minnidoot »ul corpo di Pilroclu. Achili# vicino d mirto
rwbvert di Ellurc. 1 Minuidoui looo • Lonrbetto wilL nave d’AcbiUe. Questi sccoi
•edere a meua twlU tenda d’Aitamenuone. Du|m> il eravitu idrajast sulla (piaggia dd
vùiofM dell* eroe addonatolato. Ilogo di PatroUo • ceriinuola fuuelh. Giuochi io ooo
nxirtOf
Mentre in Troja si piange , all’ Ellesponto
Giungon gli Àchivi, e spargesi ciascuno
Alla sua nave. Ma l’ andar dispersi
Non permise il Pelide ai bellicosi
Suoi Mirmidóni, da cui cinto disse:
Mici diletti compagni e cavalieri,
Non distacchiamo per ancor dai cocchi
I corridori: procediam con qnesti
A piangere Patrdclo, a tribntargli
L’ onor dovuto ai trapassati. E quando
Avrcm del pianto al cor dato’ il diletto,
Sciolti i destrieri, apprcsterem le cene.
Disse ^ e tutti innalzàr ristretti insieme
II fùnebre lamento, Achille il primo.
Corser tre volte colle bighe intorno
All’estinto, ululando, e ne’ lor petti
Destò Tcti di pianto alto desio.
Si bagnava di lagrime 1’ arena ,
Di lagrime gli usberghi : cotant’ era
11 desiderio dell’ eroe perduto.
486
ILIADE
¥. 21-60
Ma fra tutti piagnea dirottamente
Achille; c poste le omicide mani
Dell’amico sul cor: Salve, dicea;
Salve, caro Patróclo, anco sotterra.
Tutto io voglio compir che ti promisi.
D’Ettore il corpo al tuo piè strascinato
Farò pasto de’ cani, e alla tua pira
Dodici capi troncherò d’eletti
Figli de’ Teucri, di tua morte irato.
Disse; ed opra crudel contea il divino
Ettor volgendo iu suo pensiero, il trasse
Per la polve boecon presso al lerétro
Del (ìgliuol di Menézio: e gli altri intanto
Scinsero le corrusche armi, c, staccati
Gli annitreuti corsicr, folti sull’alta
Capitana d’Achille a lauto desco
S’ assiscro. Muggian sotto la scure
Molti candidi buoi; molte, belando,
Cadean capre scannate e pecorelle;
E molti di pinguedine fiorenti
Cinghiai sannuti alle vulcanie vampe
Venian distesi a brustolarsi. Il sangue
Senrrea dintorno al morto in larghi rivi.
Al sommo Atride intanto i prenci achei
Scortar, vinto da’ preghi c per l’amico
Sempre d’ira infiammato, il re Pelide.
Giunti i duci alla tenda, immantinente
Ai pronti araldi Agamennòn comanda
Che alle fiamme un gran trìpode si metta.
Onde il Pelide indnr, se gli riesca,
A lavarsi del sangue ogni sozzura.
Recusollo il feroce, c fermamente
Giurò : Non sia per Giove ottimo c sommo
Che lavacro mi tocchi anzi eh’ io ponga
L’amico mio sul rogo, e gli consacri
Sull’eretto sepolcro il crin reciso.
Ah! mai pari dolor, fin ch’io mi viva,
In questo petto non cadrà, giammai.
Nondimeno si segga all’abborrita
Mensa; ma tu, supremo Atride, imponi
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¥. 6i-ion
LIBRO xxm
487
Alla tua gente che doman per tempo
Molta selva qua porti \ e qual conviensi
Ad illustre defunto che nell’atra
Notte discende, le cataste appresti,
Onde rapido il foco lo consumi;
E tolto agli occhi il doloroso obbietto,
Tornio le schiere ai consueti ofBci.
Obbedir tutti al detto; e prontamente
Poste le mense, a convivar si diero,
E vivandò ciascuno a suo talento.
Del cibarsi e del ber spenta la voglia.
Tolti sbandarsi alle lor tende, e al sonno
Gesser le membra. Ma del mar sonante
Lungo il lido si stese in mezzo ai folti
Tessali Achille su la nuda arena.
Di cui l’onda gli estremi orli lambia.
Ivi stanco di gemili e sospiri
E della molta in perseguendo Ettorre
Sostenuta fatica, il dolce sonno
Alleggiator dell’ aspre cure il prese.
Soavemente circonfuso. Ed ecco
Comparirgli del misero Patroclo
In vis'ion lo spettro, a lui del tutto
Ne’ begli occhi simile e nella voce.
Nella statura, nelle vesti; e tale
Sovra il capo gli stette, e così disse:
Tu dormi, Achille, nè di me più pensi:
Vivo m'amasti, e morto m’abbandoni.
Deh ! tosto mi sotterra , onde mi sia
Dato nell'Orco penetrar. Respinto
Io ne son dalle vane ombre defunte.
Nè meschiarmi con lor di là dal fiume
Mi si concede. Vagabondo io quindi
NP aggiro intorno alla magion di Pluto.
Or deh! porgi la man; chè teco io pianga
Anco una volta; perocché consunto
Dalle fiamme del rogo a te dall'Orco
Non tornerò più mai. Più non potremo
Vivi entrambi, e lontan dagli altri amici.
Seduti in dolci parlamenti aprire '
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ILUDE
iei-i4o
I segreti del cor^ chè preda io sono
Della Parca crudele, a me nascente
Un dì sortita. E a te pur anco, AchUIe,
A te che un Dio somigli, è destinato
II perir sotto le dardanie mura.
Ben ti prego, o mio caro, e raccomando
Che tu non voglia, se mi sei cortese.
Dal tuo disgiunto il cener mio. Noi fummo
Nella tua reggia allor nudriti insieme
Che Menezio d’Opunte a Ftia menommi
Giovinetto quel dì che per la lite
Degli astragali irato e fuor di senno
D'Anfidamante a morte misi il figlio.
Mio malgrado. M’accobe il re Peléo
Ne' suoi palagi umanamente, e posta
Nell' educarmi diligente cura,
Mi nomò tuo donzello. Una sol' urna
Chiuda adunque le nostre ossa, quell' urna
Che d'ór ti diè la tua madre divina.
A che ne vieni, o anima diletta?
Gli rispose il Pelidc^ e a che m'ingiungi
Partitamente queste cose? Io tutto
Che comandi, farò; ma deh! t'appressa;
Ch' io t'abbracci, che stretti almen per poco
Gustiam la trista voluttà del pianto.
Così dicendo, coll' aperte braccia
Amoroso avventossi, e nulla strinse;
Chè, stridendo calò F ombra sotterra,
E svanì come fumo. In piè rizzossi
Sbalordito il Pelide; c, palma a palma
Battendo, in suono di lamento disse:
Oh ciel! dell'Orco gli abitanti han dunque
Spirito ed ombra, ma non corpo alcuno?
Del misero Patroclo in questa notte
Sovra il capo mi stette il sospiroso
Spettro piangente, tutto desso al vivo,
E più cose m'ingiunse ad una ad una.
Ridestar delle lagrime la brama
Queste parole; raddoppiossi il lutto
Sul miserando corpo: c l'Alba intanto
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UBftO XXlll
489
V.
Co) roseo dito P Oriente apria.
Da tutte parti allor fece l’Àtride
Dalle trabacche uscir giumenti e turbe
Per lo trasporto del funereo bosco,
Duce il valente Meri'on, del prode
Idomenéo scudier. Givan costoro,
Di corde armati e di taglienti scuri,
Co’ giumenti dinanzi. E per distorti
Aspri greppi montando e discendendo
E rimontando, agli erti boschi alfine
Giunser dell’ Ida che di fonti abbonda.
Qui dier subita man con affilate
Bipenni al taglio dell’ aeree querce
Che strepitose al suol cadeano, c poscia
Legavansi spaccate in sulla schiena
De’ giumenti, che, ratte orme stampando,
Scendean, bramosi d’arrivar pe’ folti
Roveti alla pianura: e li seguiéno
Carchi il dosso di ciocchi i tagliatori^
Chè tal di Merion era il precetto.
Giunti sul lido, scarlcér le some,
Ne fèr catasta al luogo ove il Pelide
Un tumulo sublime al morto amico
Ed a sè stesso disegnato avea.
E tutta apparecchiata in questa guisa
L’immensa selva, riposar seduti.
Nuovi cenni aspettando. Intanto Achille
Ai bellicosi Mirmldòn comanda
Di porsi in armi, ed aggiogar ciascuno
Alle bighe i destrier. Sorsero quelli
Frettolosi, e fur tutti in tutto punto.
Montan su i cocchi aurighi e duci, e danno
Alla pompa principio. Immenso un nembo
Di pedoni li segue, e, a questi in mezzo.
Di Pàtroclo procede il cataletto
Da’ compagni portato , che sul morto
Vem'an gittando le recise chiome,
Di che tutto il coprian. Di retro Achille
Colla man gli reggea la tremolante
Testa, e plorava sui funébri onori,
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49° ILIADE 18,.,*,
Con che all’Orco spcdia l’illustre amieo.
Giunti al luogo lor detto, il mesto incarco
Deposero, e a ribocco intorno a quello
Adunàr pronti la funerea selva.
Recatosi In sé stesso, un altro avviso
Fece allora il Pelide: allontanossi
Dal rogo alquanto, e il biondo si recise.
Che allo Sperebió nudria, florido crine;
E, al mar guardando con dolor, sì disse:
Sperebio, Invan ti promise II padre mio.
Che, tornando al natio dolce terreno,
Io t’avrei tronco la mia chioma, e oiferto
Una sacra ecatombe, ed Immolato
Cinquanta agnelli accanto alla tua fonte
Ov’hai delubro ed odorati altari.
Del canuto Peléo fu questo il voto:
Tu noi compiesti. Poiché dunque or tolto
N' è alla patria il ritorno, abbia il mio crine
L’eroe Patroclo, e lo si porti seco.
Così detto, alla man del caro amico
Pose la chioma, e rinnovossi il pianto
De’ circostanti : e tra gli omei gli avria
Còlti II cader della diurna luce.
Se non si fea davanti al grande Atride
n figlio di Peléo con questi accenti:
Agamennón, di lagrime potremo
Satollarci altra volta. Or tu, cui tutti
Obbcdiscon gli Achei, tu li congeda
Da questa pira, e a ristorar li manda
Colla mensa le membra. Avvera del resto
Noi la cura; chè nostro innanzi a tutti
Dell’ esequie è II pensiero, e rimarranno
Nosco, a tal uopo di pletade, i duci.
Udito questo, Agamennón disperse
Tosto le schiere per le tende, e soli
Vi restaro i deletti al ministero
Dell' esequie c del rogo. Essi uua pira.
Cento piedi sublime In ogni lato.
Innalzar primamente, e sovra il sommo.
D’angoscia oppressi, collocAr l’estinto.
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r. ll|.>6a LIDRO XXIII 49>
Poi davanti alla pira una gran torma
Scuojàr di pingui agnelle e di giovenchi;
E, traendone l'adipe, il Peli'de
Copn’ane il morto dalla fronte al piede,
E le scuojate vittime dintorno
Gli accumulò. Da canto indi gli pose
Colle bocche sul feretro inclinate
Due di miele e d’unguento urne ricolme.
Precipitoso ei poscia e sospiroso
Sulla pira gittò quattro corsieri
D’alta cervice, e due smembrati cani
Di nove che del sir nudrìa la mensa.
Preso al6n da spielata ira, le gole
Di dodici segò prestanti 6gli
De’ magnanimi Teucri, e, sulla pira
Scagliandoli, destò del fuoco in quella
L’invitto spirto struggitor, che il tutto
Divorasse, e chiamò con dolorosi
Gridi l’amico: Addio, Patroclo, addio
Ne’ regni anche di Pluto. Ecco adempite
Le mie promesse: dodici d’illustre
Sangue Trojani si consuman teco
In queste fiamme; ed Ettore fia pasto
Delle fiamme non già, ma delle belve.
Queste minacce ei fea; ma gl’ incitati
Mastin la salma non toccàr d’Ettorre;
Chù notte e dì sollecita la figlia
Di Giove, Citerea, gli alinntànava,
E il cadavere ugnea d’una celeste
Rosata essenza che impedia del corpo
Strascinato l’offesa. Intanto Apollo
Sul campo indusse una cerulea nube
Che tutto intorno ricoprìa lo spazio
Dal cadavere ingombro; onde alle membra
E de’ nervi al tessuto innocua fosse
Dell’igneo Sole la virtute attiva.
Ma del morto Patroclo il rogo ancora
Non avvampa. Allor prende altro consiglio
Il divo Achille. Trattosi in disparte.
Ai due venti Ponente c Tramontana
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49»
ILIADE
V. 26t*3oo
Supplicando, solenni ostie promette^
E in aurea eoppa ad ambedue libando,
Di venirne li préga, e intorno al morto
Sì le fiamme animar, che in un momento
Lo si struggano tutto, esso e la pira.
Udito la veloce Iride il prego.
Ai venti lo recò, che, accolti insieme
Nella reggia di Zefiro, un festivo
Tcncan convito. S'arrestò la Diva
Su la marmorea soglia, e alla sua vista
Sursero tutti frettolosi: ognuno
A sè chiamoUa, ognun le offerse il seggio,
Ma ricusollo la Taumanzia, e disse:
Di seder non è tempo: alle correnti
Dell' Oceano ritornar mi deggio
Nell’etiope terreno ove s’appresta
Agl’Immortali un’ecatombe, e bramo
Ne’ sacrifici aver mia parte io pura.
Ma il Pelide te. Borea, e te, sonora
Zefiro, prega di solfiar nel rogo.
Su cui giace di Patroclo la spoglia
Dagli Achei tutti deplorata, e molte
Vittime ei v’ offre, se avvampar lo fatc<
Cosi detto, disparve ^ e <piei leràrsi
Con immenso strider, densate innanzi
A sè le nubi. Si sfrenàr, soffiando
Sulla marina, sollevaro i flutti,
E di Troja arrivati alla pianura,
Ruinàr su la pira: e strepitoso
Immane incendio si destò. Dai forti
Soli) agitata divampò sublime
Tutta notte la fiamma, c tutta notte
U Pelide da vasto am'co cratere
Il vino attinse con rìtonda coppa,
E spargendolo al suol devotamente,
N’iiTÌgava la terra, e l’infelice
Ombra invocava dell’estinto amico.
Come un padre talor piange, bruciando
L’ossa d’un figlio che morì già sposo,
E, morendo, lasciò gli sventurati
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r. 3o 1-340 Lmo XXIil
Suoi genitori di cordoglio oppressi 4
Cosi dando alle fiamme il suo compagno,
Geme il Pelide, e crebri alti sospiri
Traendo, intorno al rogo si strascina.
Come poi nunzio della luce al mondo
Lucifero brillò, dopo cui stende
Sul pelago l’Aurora il croceo velo,
Mori la vampa sul consunto rogo,
E per lo tracio mar, che rabbuifato
Muggia, tomaro alle lor case i venti.
Stanco allora il PeUde, e dalla pira
Scostatosi, sdrajossi, e dolce il sonno
L’occupò. Ma il tumulto e il calpestio
De’ capitani, che alI’Atride in folla
Si raccogliean, destollo 4 el surse, e assiso
Cosi loro parlò: Supremo Atrìde,
E voi primati degli Achei, spegnete
Voi tutti or meco con purpureo vino
Di tutto il rogo in pria le brage4 e poscia
Raccogliam di Patroclo attentamente
Le sacrate ossa: e scemerle fia lieve 4
Imperocché nel mezzo ei si giacca
Della catasta, e gli altri all’orlo estremo
Separati, fur arsi alla rinfusa
E nomini e cavalli. Indi d’ opimo
Doppio zirbo ravvolte, in urna d’oro
Le riporremo, finché vegna il giorno
Ch’io pur di Pluto alla magion discenda.
Non vo’ gli s’ erga una superba tomba ,
Ma modesta. Potrete ampia e sublime
Voi poscia alzarla, o duci achei, che -vivi
Dopo me rimarrete a questa riva.
Del Pelide al comando obbedienti
Con larghi sprazzi di vermiglio bacco
Di tutto il rogo ei spensero alla prima
Le vive brage, e giù cadde profonda
La cenere. Adunar quindi, piangendo,
Del mansueto eroe le candid’ ossa 4
Le eomposer nell’urna avvolte in doppio
Adipe, e, dentro il padiglion deposte,
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<94
lUADE
r.
Di sottil lino le coprir. Ciò fatto,
Disegnàr presti in tondo il monumento^
Ne gittaro dintorno all’arsa pira
I fondamenti^ v’anunassàr di sopra
Lo scavato terreno*, e a fin condotta
La tomba, si partian. Ma li rattenne
II Pelide^ e li fatto in ampio agone
11 popolo seder, de’ ludi i prem]
Fe dai legni recar: tripodi e vasi
E destrieri e giumenti e generosi
Tauri e captive di gentil cintiglio
E forbite armature. E primamente
Alla corsa de’ cocchi il premio pose:
Una leggiadra in bei lavori esperia
Donzella a chi primier tocca la meta.
Con un tripode a doppia ansa, e capace
Di ventldue misure. Uua giumenta
Che al sest’ anno già venne, ancor non doma,
E il sen già grave di bastarda prole.
Al secondo. Un lebete intatto e bello
E di quattro misure, al terzo auriga^
Al quarto, un doppio aureo talento; e al quinto,
Una coppa dal foco ancor non tocca.
Surto in piedi allor disse: Atride, Argivi,
Gioventù bellicosa, a voi dinanzi
Bieco i premj che attendono nel circo
Degli aurighi il valor. S’ altra cagione
Questi ludi eccitasse, i primi onori
Miei per certo sarian; chè la prestezza
De’ miei destrieri non ha pari, e voi
Lo vi sapete; perocché son essi
Immortali, e donolli il re Nettunno
Al mio padre Peléo, che a me li cesse.
Queto io dunque starommi, e queti insieme
I miei cavalli. 1 miseri perduto
Hanno il lor forte condottiero c mite.
Che lavarne solca le belle chiome
Alla chiara corrente, ed irrorarle
Di liquid’oliu rilucente; cd ora
Piangunlo immoti, colle meste giubbe
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LIBRO XXIII
4g5
9.
Al suol dilliise, e il cor di doglia oppresso.
Chiunque degli Achei pertanto ha speme
Ne’ cocchi e ne’ destrier, si metta in punto.
Ciò disse appena, che animosi e pronti
Presentarsi gli aunghi ; Eumelo il primo,
Regai germe d’Admeto, e delle bighe
Perito agitator. Mosse secondo
11 gagliardo Tidide Diomede
Co’ destrieri di Troe tolti ad Enea,
Cui da morte campò l’opra d’ Apollo.
Il biondo Menelao, sangue di Giove,
Levossi il terzo; e sotto al giogo addusse
Due veloci cavalli, il suo Podargo,
Ed Età, del fratello una puledra.
Dell’aringo bramosa a meraviglia.
Donata al rege Agamennon l’avea
L’Anchisiade Echepólo, onde francarsi
Dal seguitarlo a Troja, e neghittoso
Nell’opulenta Sicion, sua stanza.
Rimanersi a fruir le concedute
Dal saturnio Signor molte ricchezze.
Del magnanimo Nèstore buon figlio.
Antiloco, aggiogò quarto i criniti
Suoi cavalli di Pilo, ancor del cocchio
Buoni al tiro. Si trasse il vecchio padre
A lui già saggio per sé stesso, e un saggio
Utile avviso gli porgea, dicendo:
Antiloco, te amar Giove e Nettunno
Giovane ancora, e t’erudìr di tutta
L’arte equestre; perciò poco fia l’uopo
D’ ammaestrarti; perocché sai destro
Girar la meta; ma son tardi al corso
I tuoi destrieri, e qualche danno io temo.
Destrier più ratti han gli altri, ma non arte
Nè scienza maggior. Dunque, o mio caro.
Tutti richiama al cor gli accorgimenti,
Se vuoi che il premio da tue man non fugga.
L’arte, più che la forza, al fabbro è buona;
Coll’arte in mar da venti combattuto
Regge il piloto la sua presta nave.
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ILIADE 9, ^ai-4^
» E coll'arte il coeebief passa il cocckiero.
Chi sol del coechio e de' corsier si fida,
Qua e là s'aggira senza senno; incerti
Divagano i cavalli, ed ei non puote
Più governarli. Ma l'esperto auriga,
Bcnchà meno valenti i suoi sospinga.
Sempre ha l'occhio alla meta, e vòlta stretto,
E sa come lentar, sa come a tempo
Con fermi polsi rattener le briglie,
Ed osserva il rivai che lo precede.
Or la meta, perchè tu senza errore
La distingua, dirò: sorge da teira
Alto sei piedi un tronco di larice
O di quercia che sia, secco e da pioggia
Non putrefatto ancor. Stan quinci e quindi.
Dove sbocca la via, due bianche pietre,
Da cui si stende tutto piano in giro
De' cavalli lo stadio. O che sepolcro
Questo si fosse d'nn illustre estinto,
O confln posto dalla prisca gente,
Meta al corso lo fece oggi il Pelide.
Tu fa di rasentarla, e vi sospingi
Vicin vicino il cocchio c i corridori.
Alcun poco piegando alla sinistra
La persona, e flagella e incalza e sgrida
n cavallo alla dritta, c gli abbandona
Tutta la briglia; e fa che l'altra intanto
Rada la meta si, che paja il mozzo
Della mota volubile toccarla;
Ma vedi, ve', che non la tocchi; infranto
N' andrebbe il carro , offesi i corridori ,
E tu deriso e di disnor coperto.
Sii dunque saggio e cauto. Ove la meta
Trascorrer netto ti riesca, alcuno
Non fìa che poi t'aggiunga o ti trapassi.
No, s'anco a tergo ti venisse a volo
Quel d' Adrasto corsier nato d'un Dio,
11 veloce Arione, o qnei famosi
Che qui Laumedonte un dì nudria.
Divisate al figliuol distintamente
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LIBRO 1X111
497
V. 46i>5<x>
Queste avvertenze, si raccolse il veglio
Nell'erboso suo seggio. Ultimo intanto
Con bella coppia di corsier superbi
Merìon nella lizza era venuto.
Montati i carri, si gittàr le sorti.
Àgitolle il Peb'de, e usci primiero
Antiloco ^ indi Eumelo; indi l’Àtride;
Fu quarto Merìon^ quinto, il fortissimo
Diomede. Locàrsi in ordinanza
Tutti; ed Achille mostrò lor lontana
Nel pian la meta, a cui giudice avea
Posto del padre lo scudier. Fenice,
Venerando vegliardo; onde notasse
Le corse attento, c riferisse il vero.
Stavano tutti colle sferze alzate
Su gli ardenti destrieri; e, dato il segno,
Lentòr tutti le briglie, e co’ flagelli
E co’ gridi animare i generosi
Corsier che ratti si lanciàr nel campo,
E dal lido sparirò in un baleno.
Sorge sotto i lor petti alta la polve.
Che, di nugolo a guisa o di procella.
Si condensa, ed al vento abbandonate
Svolazzano le giubbe. Or vedi i cocchi
Rader bassi la terra, ed or sublimi
Balzarti; nè perciò perde mai piede
Degli aurighi veruno, e batte a tutti
Per desiderio della palma il core;
E in un nembo di polve ognun dà spirto
A’ suoi volanti alipedi. Varcata
La meta, c preso il rimanente corso
Di ritorno alle mosse, allor rifube
Di ciascun la prodezza, allor si stese
Nello stadio ogni cocchio. Innanzi, a tutti
Le puledre volavano veloci
Del Fereziade Eumelo; e dopo queste,
Ma di poco intervallo, i corridori
Di Troe, guidati dal Tidide, e tanto
Imminenti, che ognor parean sul carro
Montar d’Elumelo, a cui co’ fiati ardenti
Moitl Iliade. 5’i
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4f>8 ILIADE , Soi.Vio
Già scaldano le spalle, e già le toccano
Colle fervide teste. E oltrepassato
Forse l’avrebbe, o pareggiato almeno,
Se, al figlio di Tidéo Febo la palma
Invidiando, non gli fea sdegnoso
Balzar dal pugno la lucente sferza.
Lagrime d’ira e di dolor le gote
Inondàr dell'eroe, vista d’Eumelo
Lontanarsi più rapida la biga,
E per difetto di ilagel più lenta
Correr la sua. Ma Pallade, d’Àpollo
Scòrta la frode, e del Tidide il danno.
Presta a lui corse ^ e, alla sua man rimessa
La sferza, aggiunse ai corridor la lena.
Indi al figlio d’Admeto avvicinossi
Irata, e il giogo gli spezzò. Turbate
Si sviar le cavalle^ andò per terra
11 timon; riversossi il cavaliero
Presso alla ruota, e il cubito e la bocca
Lacerossi e le nari, e su le ciglia
N’ ebbe pesta la fronte: le pupille
S’ empir di pianto, s’arrestò la voce;
£ Diomede il trapassò, sferzando
Gli animosi destrier, che innanzi a tutti
Scappan di molto; perocché Minerva
Gli afforza, e vincitor vuole il Tidide.
Vien dopo questi Menelao, cui preme
Di Nestore il figliuol che, confortando
I patemi destrier, grida: Correte,
Stendetevi prestissimi: non io
Già vi comando gareggiar con quelli
Del forte Diomede , a’ quai Minerva
Diè l’ali al piede, e a lui la palma: solo
Raggiungete l’Atride, e non soffrite.
Restando addietro, eh’ Età, una giumenta,
Vi sorpassi di corso e disonòri.
Che lentezza s’è questa? ov’ è l’antica
Vostra prestanza? lo lo vi giuro, e il giuro
S'adempirà: se pigri un premio vile
Riporterem, negletti, anzi trafitti
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LIBRO XXUI
499
Da Nèstore sarete. Or via , volate ^
Ch’io, di astuzia giovandomi, senz’erro
Trapasserò l’Àtride nello stretto.
Àntiloco si disse ^ e quei, temendo
Le sue minacce, rinforzare il corso:
Ed ecco dopo poco il passo angusto
Del concavo cammin. Vera una frana
Ove l’acqua invernai, raccolta in copia,
Dirotta avea la strada, c tutto intorno
Affondato il terren. Per quella parte
Si drizzava l’Àtride j onde il concorso
Iscliivar delle bighe. Ivi si spinse
Antiloco pur esso^ e, deviando
Dalla carriera un cotal poco, e forte
Flagellando i corsier, lo stringe, e tenta
Prevenirlo. Temettene l’Atride,
E gridò: Dove vai, pazzo? rattieni,
Antiloco, i destrier: stretta è la via.
Aspetta che s’allarghi, e trapassarmi
Potrai: qui entrambi romperemo i cocchi.
Àntiloco non l’odej e, stimolando
Più veemente i corridor, s’avanza.
Quanto è il tratto d’un disco da robusto
Giovin scagliato per provar sue forze,
Tanto trascorse la nestórea biga.
Iscansossi l’Atride, e volontario
I suoi destrieri rallentò, temendo
Che da quegli altri urtati in quello stretto
Non gli versino il cocchio , e al suol stramazzino
Bissi medesmi nel voler per troppo
Amor di lode accelerarsi. Intanto
Dietro al figlio di Nestore l'Àtride
Gridar s’udiva: Antiloco, non avvi
II più tristo di te^ va pure: a torto
Noi saggio ti tenemmo; ma tu premio
Non toccherai, per dio! se pria non giuri.
Quindi, animando i suoi corsier, dicea:
Non v’impigrite, non mi state afflitti;
Pria di voi perderan quelli la lena;
Ch’ei son vecchi ambidue. — Cosi lor grida;
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5oo
ILIADE
I*. 58i>^io
E docili i destrieri alla soa voce
Doppiare il corso, e tosto li raggiunsero.
Nel circo assisi intanto i prenci achei
Staransi attenti ad osserrar da lungi
I volanti cavalli che nel campo
Sollevavan la polve. Idomenéo,
Re de’ Cretesi, gli avvisò primiero.
Che fuor del circo si sedea sublime
A una vedetta. E di lontano udita
Del primo auriga, che venia, la voce.
Lo conobbe, e distinse il precorrente
Destrier che tutto sauro in fronte avea
Bianca una macchia, tonda come luna.
Rizsossi in piedi, e disse: O degli Achei
Prenci amici, m’inganno, o ravvisate
Quei cavalli voi pure? Altri mi sembrano
Da quei di prima, ed altro il condottiero.
Le puledre, che dianzi eran davanti.
Forse sofferto han qualche sconcio. Al certo
Girar primiere le vid’ io la meta^
Or come che pel campo il guardo io volga.
Più non le scorgo. O che scappar di mano
All’auriga le briglie^ o ch’ei non seppe
Rattcneme la foga, e non fe netto
II giro della meta. Ei forse quivi
Cadde, e infranse la biga, e le cavalle
Dev'iàr furliose. Or voi pur anco
Alzatevi, e guardate: io non discerno
Abbastanza^ ma parmi esser quel primo
L’òtolo prence argivo, Diomede.
Che vai tu vaneggiando? aspro riprese
Ajace d’Oiléo. Quelle, che miri
Da lungi a noi volar, son le puledre.
Più non sei giovinetto, o Idomenéo:
La vista hai corta, e ciance assai; nè il farne
Multe t’è bello ov’ altri è più prestante.
Quelle davanti son, qual pria, d’Eumelo
Le puledre, e ne regge esso le briglie.
E a lui cruccioso de’ Cretesi il sire ;
Maledico rissoso, in questo solo
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F. «1I-S60 t-IBRO XXIIl So I
Tra noi valente, ed ultimo nel resto,
Villano Ajace, deponiam, su via,
Cn tripode o un lebetc, e Agamennóne
Giudichi e dica che corsier sian primi ^
E, pagando, il saprai. Sorgea parato
A far risposta con acerbi detti
Lo stizzito Oilide, e la contesa
Crescea^ ma grave la precise Achille:
Fine, o duci, a un ontoso ed indecoro
Parlar che in altri biasmereste. In pace
Sedetevi, e guardate: i gareggianti
Corridori son presso, e voi ben tosto
Chi sia primo saprete, e chi secondo.
Fra questo dire, a furia ecco il Tididc
Avanzarsi, e le groppe senza posa
Tempestar de' cavalli che sublimi
Divorano la via. Schizzi di polve
Incessanti percuotono l’auriga.
D’òr raggiante e di stagno si rivolve
Dietro i ratti corsier si lieve il cocchio.
Che appena vedi della ruota il solco
Nella sabbia sottil. Giunto alle mosse.
Fra le plaudenti turbe il vincitore
Fermossi. Un rivo di sudor sul collo
E dal petto scorrea degli anelanti
Corsieri; ed esso dal lucente carro
Leggier d’un salto al suol gittossi, e al giogo
Lo scudiscio appoggiò. Nè stette a bada
Sténelo, il forte suo scudier, che pronto
11 tripode si tolse e la donzella
Premio del corso; e, consegnato il tutto
Ai prodi amici , i corridor disciolse.
Secondo giunse Antiloco che avea
Non per rattezza di destrier precorso
Menelao, ma per arte; e nondimeno
Questi a tergo gli è si, che quasi il tocca.
Quanto si scosta dalla ruota il piede
Di corsier che pel campo alla distesa
Tragge sul cocchio il suo signor, lambendo
Co’ crini estremi della coda il cerchio
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5oa ILIADE fifi|.,00
Del volubile giro che diviso
Da minimo intervallo ognor si volvc
Dietro i rapidi passi ^ iva l'Àtridc
Sol di tanto discosto allor dal figlio
Di Nestore, quantunque egli da prima
Fosse rimasto un trar di disco indietro.
Ma deiragameononia Età fu tale
La prestezza e il valor, che tosto il giunse:
E Tavria pure oltrepassato, e fatta
Non dubbia la vittoria, ove più lunga
Stata si fosse d' ambedue la corsa.
Seguia l’Atride Merion, preclaro
Scudier d'Idomcnéo, distante il tiro
D'una lancia, perchè belli, ma pigri
I corridori egli ebbe, e perchè desso
Era il men destro nel guidar la biga.
Ultimo ne venia d' Admeto il figlio,
A stento il cocchio traendo, e dinanzi
Cacciandosi i destrieri. Lo compianse.
Come lo vide, Achille; e, circondato
Dagli Achei, proflcrì queste parole:
Ultimo giunge il più valente. Or via,
Diamgli il premio secondo; egli n'è degno;
Ma il primo al figlio di Tidéo si rèsti.
Lodàr tutti il decreto; e fra gli applausi
Degli Achei sull’istante egli donata
La giumenta gli avria, se, posta in campo
La sua ragione. Antiloco al Pelide
Non si volgea, dicendo: Achille, io teco
Mi corruccio davver, se il tuo disegno
Metti ad effetto. Perchè un Dio gli oficse
I cavalli ed il cocchio, e non gli valse
La sua prodezza, mi vorrai tu dunque
II mio premio rapir ? Chè non pors’ egli
Prima ai numi i suoi voti? Ei non saria
Ultimo giunto nell’illustre aringo.
Che se di lui pietà ti move, e questo
Al cor t’ è grato , nella tenda hai molte
D’auro c bronzo conserve, bai molto gregge.
Hai fanciulle c cavalli. E tu il presenta
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LIBKO XXIII
40
Di queste cose, e sian maggiori ancora,
Ma in altro tempo, o, se il vuoi, pure adesso.
Onde ten veglia degli Achei la lode.
Ma questa io non vo' darla , e dovrà meco
.Sperimentarsi ogni uom che la pretenda.
Delle franche d'Antiloco parole
Compiaciuto, sorrise il divo Achille,
Cui caro amico egli era; e gli rispose:
AnUloco, tu vuoi che s'abbia Eumelo
Di ciò, che in serbo io tengo , altro presente ;
E l’avrà. Gli darò d’Asteropco
La di bronzo lorica, a cui dintorno
Scorre un bell’orlo di fulgente stagno;
Lavoro di gran pregio. — E, cosi detto,
Al suo fedele Automedonte impose
Di recar dalla tenda la lorica.
Volò quegli, e recolla al suo signore,
Che in man la pose dell’allegro Eumelo.
Contro Antiloco allor surse, il cor pieno
Di doglia e d’ira, Menelao. L’araldo
Misegli tosto nelle man lo scettro,
E silenzio intimò. Quindi l’eroe
Cosi a dir prese; O tu, che per l’ innanzi
Grido avevi di saggio, che facesti?
Disonestasti, 0 Antiloco, la mia
Gloria, e cacciati per inganno avanti
Li tuoi corsieri assai da meno, i miei
Sconciamente offendesti. Or voi qui fate.
Prenci achivi, ragione ad ambedue
Senza rispetti; ch’io non vo’ che poi
Dica qualcuno degli Achei: L’Atride
Colle menzogne Antiloco aggravando.
Via la giumenta si menò, vincendo
Di cavalli non già, ma di possanza
E di forza. Ma che? Senza paura
Di biasmo io stesso finirò la lite,
E fia retto il giudizio. Orsù; t’accosta.
Prode alunno di Giove, e, giusta il rito,
Statti innanzi alla biga, e, d’una mano
Impugnando la sferza agitatrice,
5o4
aUDE
V. ;4i-78o
E sì coll’altra ì corrìdor toccando,
Giura a Nettunno, non aver, rolente
Nè con frode, impedito il cocchio mio.
Re Menelao, mi compatisci, accorto
L’altro rispose: giovinetto ancora
Son io: tn d’anni e di virtù mi vinci,
E dcll’etade giovanil ben sai
I difetti: cnor caldo e poco senno.
Siimi dunque benigno. Ecco, a te cedo
L’ottenuta giumenta; e s’allro brami
Del mio, darollo di cuor pronto, e tosto.
Anzi che l’amor tuo per sempre, o prence,
Perdere, e farmi ai sommi iddii spergiuro.
Sì dicendo, di Nestore il buon 6glio
La giumenta condusse, ed alle mani
La ponea dell’Atride, a cui di gioja
Intenerissi il cor. Siccome quando
Su i sitibondi culti la rugiada
Spargesi e avviva le crescenti spighe:
A te del pari, o Menelao, nel petto
Si sparse la letizia, e dolcemente
Gli rispondesti: Antiloco, a te cedo.
Deposta l’ira, io stesso. Unqna non fosti
Nè leggier nè bizzarro. Oggi fu vinto
Da sconsigliata giovinezza il senno.
Ma il ben guardarsi dagl’inganni, è bello
Co’ maggiori. Nessun m’avria placato
Sì facilmente degli Achei; ma molto
Coll’egregio tuo padre e col fratello
Per mia cagion tu soffri, e molto sudi;
Perciò m’arrendo al tuo pregare: e questa,
Cb’è mia, ti dono, a On che ognun si vegga
Che nè 6er nè superbo ho il cor nel petto.
Diè, ciò detto, d’Anliloco al compagno,
Noemón, la giumenta; indi si tolse
n fulgido lebete; e Merìone,
Che quarto giunse, i due talenti d’oro.
Restava il quinto guiderdon, la coppa.
La prese Achille; c, traversando il pieno
Circo, accostossi al buon Ncstorrc, e lieto
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8i4m Limo ZSIII
PreccntoUa all'eroe con questi accenti:
Tieni, illustre vegliardo, e questo dono
Ricordanza ti sia delle funebri
Pompe del nostro Patroclo, cui, lasso!
Non rivedrem più mai. Qnesto vogl'io
Che gratuito sia, poiché del cesto,
E dell'arco il certame e della lotta,
E del corso pedestre a te si vieta
Dalla triste vecehiezza che ti grava.
Tacque^ e la coppa fra le man gli mise.
Lieto il veglio accettolla, e sì rispose:
Ben parli, o figlio: le mie forze tutte
Sono inferme, o mio caro; il piè va lento;
Dispossato mi pende dalle spalle
L'un braccio e l'altro. Oh! giovine foss'io
E intero di vigor, siccome il giorno
Che in Buprasio gli Epéi diero al sepolcro
Il rege Amarincéo, proposti i ludi
Dai regali suoi figli! Ivi nessuno
Nè degli Epéi nè de'medesmi Pilj
Pari mi stette di valor, nè manco
De' magnanimi Etòli. Io vinsi al cesto
Il figliuolo d'Endpe Clitoméde,
Alceo Pleuronio, nella lotta, a cui
NTavea sfidato: superai nel corso
L'agile indo, e nel vibrar dell'asta
Polidoro e Filéo. Soli all'equestre
Lizza innanzi m'andàr d' Attore i figli.
Che due contr'un gelosi invid'iàrmi
Una vittoria d'infinito prezzo.
Indivisi gemelli, uno reggeva
Sempre sempre i destrier, l'altro di sferza
Li percotea. Tal fui già tempo: or lascio
Siffatte imprese ai giovinetti, e forza
M' è l' obbedire alla feral vecchiezza.
Ma tra gli eroi fui chiaro anch'io. Tu segui
Del morto amico ad onorar la tomba
Co' fùnebri certami. Il tuo bel dono
M'è caro, e il prendo. Mi gioisce il core
Al veder che di me, che t'amo, ognora
5o6
ILIADE
9. 9>i*86o
Sei memore, e sai quale al mio canato
Crine si debba dagli Achivi onore :
Di ciò ti dien gli Dei larga mercede.
Tutta udita di Nèstore la lode,
Entrò il Pelide nella calca, e il duro
Pugilato propose. Àddur si fece
Ed annodar nel circo una gagliarda
Infaticabil mula, a cui già il sesto
Anno fiorìa, non doma, ed a domarsi
Malagevole: premio al vincitore.
Pel vinto pose una ritonda coppa.
Indi sorse, e parlava: Atridi, Achei,
E^co i premj alli due che valorosi
Vorranno al cesto perigliarsi. Quegli,
Cui dóni amico la vittoria il figlio
Di Latona, e l’affermino gli Achei,
S’abbia la mula, e il perditor la coppa.
Disse; e un uom si levò forte, membruto,
Pugilatore assai perito, Epéo,
Di Panope figliuol. Stese alla mula
Costui la mano, e favellò: S’accosti
Chi vuol la coppa; chè la mula è mia.
Niun degli Achivi vincerammi , io spero.
Nel certame de’ cesto, in che mi vanto
Prestantissimo. E che? forse non basta
Che agli altri io ceda in battagliar? Non puotc
A vcrun patto un solo esser di tutte
Arti maestro. Io vel dichiaro, e il fatto
Proverà ciò che dico: al mio rivale
Spezzerò il corpo e Possa. Abbia vicino
Molti assistenti a trasportarlo pronti
Fuor della lizza da mie forze domo.
Taeque; e tutti ammutirò. Eravi un figlio
Del Taleònio Mecistèo, di quello
Cbe un di nell’alta Tebe ai sepolcrali
Ludi venuto del defunto Edippo,
Tutti vinse i Cadmei. Costui di nome
Euri'alo, e guerrier di divo aspetto,
Fu il solo che s’alzò. Molto d’ intorno
Gli si adoprava il grande Diomede ,
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S6i-9ao LIBRO XXIII
E co' detti il pungca, lui desiando
Vincitore. Figli stesso al fianco il cinto
Gli avvinse, e il ^anto gli forni di doro
Cuojo, già spoglia di selvaggio bue.
Come in punto si fùro, ambi nel mexzo
Presentarsi gli atleti; e, sollevate
L'un contra l'altro le robuste pugna,
Si mischiàr fieramente. Odesi orrendo
Sotto i colpi il crosciar delle mascelle,
E da tutte le membra il sudor piove,
n terribile Epéo con improvvisa
Furia si scaglia all'avversario; e mentre
Questi bada a mirar dove ferire,
Epéo la guancia gli tempèsta in guisa, *
Che il mcschin piìi non regge, e, balenando.
Con tutto il corpo si rovescia in terra.
Qual di Borea al soffiar l'onda sul lido
Citta il pesce talvolta, e lo risorbe;
Tale l'invitto Epèo stese al terreno
Il suo rivale, e tosto generosa
La man gli porse, e il rialzò. Pietosi
Accorsero del vinto i fidi amici.
Che fuor del circo lo menàr gittante
Atro sangue, e i ginocchi egri traente
Col capo spenzolato; ed in disparte
Condottolo, il posàr de' sensi uscito;
Ed altri intorno gli restaro, ed altri
A tor ne giro la ritonda coppa.
Tronco ogn' indugio, Achille il terzo giuoco
Propose, il giuoco della dura lotta,
E de' premj (e mostra: al vincitore
Un tripode da fuoco, a cui di dodici
Tauri il valore dagli Achei si dava;
Ed al perdente una leggiadra ancella,
Quattro tauri estimata, e che di molti
Bei lavori donneschi era perita.
Rizzossi Achille; e a quegli eroi rivolto:
Sorga, disse, chi vuole in questo ludo
Del suo valor far prova. Immantinente
Surse l'immane Telamonio Ajace,
5o8
ILIADE
90I-94<>
E il saggio mastro delle frodi Ulisse.
Nel mezzo della lizza entrambi accinti
Presentarsi ; e, stringendosi a vicenda ,
Colle man forti s'afferràr, siccome
Due travi che valente architettore
Congegna insieme a sostener d’eccelso
Edificio il colmigno, agli urti invitto
Degli aquiloni. Allo stirar de’ validi
Polsi intrecciati scricchiolar si sentono
Le spalle, il sudor gronda, e spessi appajono
Pe’ larghi dossi e per le coste i lividi
Rosseggianti di sangue. Àmbi del tripode
A tutta prova la conquista agognano;
Ma nè Ulisse può mai l’altro dismnovere
E atterrarlo, nè il puote il Telamonio;
Chè del rivale la gran forza il vieta.
Gli Achei nojando ornai la zufia, Ajace
All’emolo guerrier fe questo invito:
Nobile figlio di Laerte , in alto
Sollevami, o sollevo io te: del resto
Abbia Giove la cura. E cosi detto.
L’abbranca, e l’alza. Ma, di sue malizie
Memore Ulisse, col tallon gli sferra.
Al ginocchio di retro ove si piega.
Tale un subito colpo, che le forze
Scioglie ad Ajace, e resnpino il gitta
Con Ulisse sul petto. Alto levossi
De’ riguardanti stupefatti il grido.
Tentò secondo il sofferente Ulisse
Alzar da terra l’avversario; e alquanto
Lo mosse ei, sì, ma non alzollo. Intanto
L’altro gl’ impaccia le ginocchia in guisa.
Che sossopra ambedue si riversaro
E lordarsi di polve. E già risnrti
Sariano al terzo paragon venuti ,
Se il figlio di Peléo, levato in piedi.
Non l’impedia, dicendo: Oltre non vada
La tenzon, nè vi state, o valorosi,
A consumar le forze. Ambo vinceste,
E v’ avrete cgual premio. Itene; e rèsti
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LOSO XXIII
941-980
Agli altri AchWi libero l' aringo.
Obbedir qnegli al detto; e, dalle membra
Tersa la polve, ripigliàr le vesti.
Pose, ciò fatto, i prem) alla pedestre
Corsa: al primo un cratère ampio d’argento.
Messo a rilievi, contenea sei metri.
Nè al mondo si vedea vaso più bello.
Era d’ industri artefici sidonj
Ammirando lavoro, e per l’ azzurre
Onde ai porti di Lenno trasportato
L’avean fenic) mercatanti, e in dono
Cesso a Toante. A Pàtroclo poi diello
11 Giasònide Eunéo, prezzo del figlio
Di Priamo, Licaone: ed or l’espose
Premio il Pelide al vincitor del corso
In onor dell’amico. Un grande e pingue
Tauro, al secondo; all’ultimo, d’òr mette
Mezzo talento, e ritto alza la voce:
Sorga chi al premio delle corse aspira.
E sursero di sùbito il veloce
Ajace d’Odèo, lo scaltro Ulisse,
E il Nestóride Antiloco, il più ratto
De’ giovinetti achei. Posti in diritta
Riga alle mosse, additò lor la meta
n Pelide, e diè il segno. In un baleno
S’avvenUr dalla sbarra, e innanzi a tutti
L’Oib'de spiccossi: Ulisse a lui
Vicino si spingea quanto di snella
Tessitrice al sen candido la spola,
Quando presta dall’ una all’altra mano
La gitta, e svolge per la trama il filo,
E sull’opra gentil pende col petto.
Così l’incalza Ulisse, e col seguace
Piè ne preme i vestigi anzi che s’alzi
Il polverio d’intorno; e, sì correndo,
Gli manda il fiato nella nuca. Un grido
Sorge di plauso d’ogni parte, e tutti
Gli fan cuore alla palma, a cui sospira.
Eran del corso ornai presso alla fine;
Quando a Minerva l’itaco dal core
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5io
lUADB
V 98t*i02o
Mandò questa preghiera: Odimi, o Dea,
E soccurri al mio piè. — La Dea P intese;
Gli fe lievi le membra, i piè, le braccia;
E come Tur per avventarsi entrambi
Ad un tempo sul premio, POilide,
Da Minerva sospinto, sdrucciolò
In lubrico terren sparso del fimo
De' buoi muggbianti , dal Peb'de uccisi
Di Patroclo alla pira. Ivi il caduto
Nari e bocca insozzossi. Il precorrente
Divo Ulisse il cratere ampio si prese,
E POilide il bue. Della selvaggia
Fera il corno impugnò l'eroe doglioso,
La lordura sputando, e fra la turba
Ruppe in questo lamento: Empio destino!
Per certo i piedi mi rubò la Dea
Cbe da gran tempo va d’ Ulisse al fianco,
E qual madre sei guarda. — Accompagnaro
Tutti il suo cruccio con un dolce riso.
Ultimo giunto Antiloco, si tolse
L'ultimo premio; e, sorridendo, disse:
Amici, i numi. Io vedete, onorano
I provetti mortali. Ajace innanzi
Mi va di poca etade: Ulisse al tempo
De' nostri padri è nato ; e nondimeno
Egli è rubizzo e verde, e nullo al corso
Superarlo potria, tranne il Peb'de.
Questo sol disse; e l'esaltato Achille
Così rispose: Antiloco, non fia
Detta invan la tua lode: eccoti d'oro
Altro mezzo talento. — E, sì dicendo.
Olici porse; e quegli, giubilando, il prese.
Dopo ciò, fe recarsi, e nell'arena
Depose Achille una lunghissim' asta ,
Uno scudo ed un elmo, armi rapite
Già da Patroclo a Sarpedontc; e, ritto
Nel mezzo degli Achei: Vogliamo, ei disse.
Che per l'esposto guiderdone armali
Due guerrier de' più forti con acuto
Tagliente acciar davanti all' adunanza
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». 1011-1060 LIBRO XXIII 5 1 I
Combattano. Chi pria punga la pelle
Dell’ avversario, e, rotte Tarmi, il sangue
Ne tragga, avrassi questo brando in dono
Di tracia lama, e bello e tempestato
D’argentei chiovi. Di quest’arme io stesso
Àsteropéo spogliai. L’ altre saranno
Premio comune. Ài combattenti io poscia
Nelle tende farò lauto banchetto.
Surse subitamente al fiero invito
Lo smisurato Telamonio Ajace^
Surse del par l’invitto Diomede^
E, armatisi in disparte, ambo nel campo
Pronti alla pugna s’avanzàr gli eroi
Con terribili sguardi. Alto stupore
Tutti occupava i circostanti Achei.
L’uno all’altro appressati, a fiero assalto
Si disserràr tre volte, e tre alla vita
Impetuosi s’investir. Primiero
Ajace traforò di Diomede
11 rotondo hrocchier, ma non la pelle
Dall’usbergo difesa. Indi il Tidide
Sopra la penna dello scudo all’altro
Spinse rapido l’asta, e nella strozza
Gliel’ appuntò. D’ Ajace al fier periglio
Spaventarsi gli Àchivi, e della pugna
Gridàr la fine, e premio ugual. Ma il brando
Col bel cinto l’eroe diello al Tidide.
Grezzo, qual già dalla fornace uscio.
Un gran disco il Pelide allor nel mezzo
Collocò. Lo solea l’ immensa forza
Scagliar d’Eezione; a costui morte
Diè poscia il divo Achille, e nelle navi
Con altre spoglie si portò quel peso.
Ritto alzossi, c gridò: Sorga chi brama
Cosi bel premio meritarsi. In questo
Il vincitor s’avrà per cincpie interi
Giri di Sole di che all’uopo tutto
Provveder de’ suoi campi anche remoti :
Nè suoi bifolchi nè pastori andranno
Per bisogno di ferro alla ciltade^
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ILIADE
9. io6i«iioo
5i»
Chè quello ne darà quanto i mestiero.
Levossi il bellicoso Polipete^
Levossi Leontéo, forza divina^
Levossi Àjace Telamonio, e seco
Il mnscoloso Epéo. Locàrsi in fila;
E primo Epéo scagliò l’orbe rotato,
Ma si mal destro, che ne rise ognuno.
Il rampollo di Marte, Leontéo,
Fu secondo a lanciar; terzo, il gran figlio
Di Telamone, che con man robusta
Ogni segno passò; quarto alla fine,
Con fermo polso Polipete il disco
Àfierrò. Quanto lungi un pastorello
Citta il vincastro, che, rotato in alto,
Vola sopra l’armento; andò di tanto
Fuor del circo il suo tiro. Àppiause tutto
Il consesso: affollàrsi i fidi amici
Del forte Polipete, e alla sua nave
Portar del disco la pesante massa.
Invitò quindi i saettieri, e in mezzo
Dieci bipenni espose e dieci accette:
E piantato lontano nell’arena
Un albero navale, avvinse a questo
Con sottil fune al piede una colomba.
Segno alle frecce. Le bipenni prenda
Chi l’augel coglie, e le si porti. Quello
Che il fallisca, e a toccar vada la fune,
Essendo inferior, s’abbia l’ accette.
Ciò detto appena , presentossi il forte
Re Teucro, e Meii'on, d’Idomenéo
Prode sergente; e, in un sonoro elmetto
Agitate le sorti, usci primiero
Teucro, e tosto lo strai tirò di forza.
Ma perchè non avea votata a Febo
Di primo-nati agnelli un’ecatombe.
Sfalli l’augello (chè tal lode il Dio
Gl’ invidiò); sol colse al piè la fune,
Che legato il tenca. Tagliolla il dardo;
Libera la colomba a volo alzossi
Per lo ciclo, e fuggi; cadde la fune,
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¥. iioi*ii3a
LIBRO XXlll
5i3
E di plausi sonar s’udi'a l’arena.
Ratto allora di mano a Teucro tolse
Mer!on l’arco; e ben presa la mira
Colla cocca sul nenro, al saettante
Nume promise un’ecatombe; e in alto
Adocchiata la timida colomba,
Che in vario giro s’avvolgea , la colse
Sotto l’ala. Passolla il dardo acuto,
E ricadde, e s’infisse alto nel suolo
Di Merione al piè. Ma la ferita
Colomba si posò sovra l’antenna;
Stese il collo, abbassò l’ali diffiise;
E dal corpo volata la veloce
Alma, dal tronco piombò. Stupefatte
Guardavano le turbe. Allor si tolse
Le scuri Merion, Teucro l’ accette.
Produsse Achille all’ultimo nel mezzo
Una lunga lunga asta, ed un lebete
Non violato dalle fiamme ancora.
Del valore d’un tauro, e sculto a fiori.
Premio alla prova delle lance. Alzossi
L’ampio-regnante Atride Agamennone
E il compagno fcdel del re cretese
Merion. Ma levatosi il Pelide,
Trasse innanzi, e parlò: Figlio d’Atrèo,
Sappiam noi tutti come tutti avanzi
E nel vibrar dell’asta e nella possa.
Prenditi dunque questo premio, c il manda
Alla tua nave. A Merion daremo.
Se il consenti, la lancia: ed io tcn prego.
Acconsenti l’ Atride. A Merione
Diede Achille la lancia, ed all’araldo
D'Agamennón lo splendido lebete.
Mosti. liùtilc.
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LIBRO VENTESIMOQUARTO
ARGOMENTO
ArkìOf» pfo>*|ue • (art itratio del corpn di Eitort. Parole dei Numi. Teti ^ mandata da
Giore, perché ùnpooga aireroe di acromcntire la rcsliluaiooe del eadavirr*. Iride, ipediU da
Giort madeaimo, aceode in Tnija e comanda a Pruimo che fi rechi alle navi de* Greci a ri*
acalli da Achille coi doni il corpo del fi(|lio. Pnamo, non curaiado le rìmmtranae della tno||]ief
ti acnoge alla partesaa. Mercurio, prete la figura di un giovaftetlo, gli lì (a iocoolro fnori dì
Trnja, e lalilo tul tuo carro gli è di teoria fioo airaUoggiamrato d'Achille. Priamo c al coapetto
dell* eroe. Loro colloqaio II corpo di Ettore è con legnato al padre. Riltmo dì Priamo. La*
menti di Aodniroara, di Ectilta e di Elena. Funerali di Ettore.
Finiti i ludi, s’ avviar le sciolte
Turbe alle navi per diverse vie^
E, preso il cibo, a placido riposo
S'abbandonar. Ma memore il Pelidc
Dell'amato compagno, in nuovo pianto
Scioglieasi, nè serrar poteagli il sonno.
Di tutte cure domator, le ciglia.
Di qua, di là si rivolgca, membrando
Il valor di Patroclo, e la grand'alma,
E le comuni imprese, c i tollerati
Guerrieri alTanni insieme, e i perigliosi
Trascorsi flutti. E in queste ricordanze
Dirottamente lagrimava , ed ora
Giacca su i fianchi, or prono, ora supino;
Poi di repente in piè balzato errava
Mesto sul lido. E quando i campi c Tonde
Illumina l' Aurora, egli di nuovo.
Aggiogati i corsicr, di retro al cocchio
Ettore avvince; e, trattolo tre volte
Di Patroclo dintorno al monumento.
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¥. Il-Co
ILIADE, LIBHO XXIV 5 I 5
A riposar si torna entro la tenda,
Boccon lasciando nella polve steso
L’esangue corpo. Ma del morto eroe
Impietosito Apollo, ogni bruttura
Ne tien rimossa, c tutto coll’aurata
Eigida il copre ^ perchè nulla offesa
Lo strascinato corpo ne riceva.
Visto del divo Ettór lo strazio indegno.
Pietà ne venne ai fortunati Eterni,
E il vegliante Argicida ad involarlo
Incitando venian. Questo di tutti
Era il vivo desio, ma non di Giuno,
Nè di Nettunno, nè dell’aspra vergine
Dall’ azzurre pupille. Alto riposta
Nella mente sedea di queste Dive
Di Paride l’ingiuria, e la sprezzata
Lor beltade quel dì che a lui venute
Nel suo tugurio, ei preferì lor quella
Che di funesto amor contento il fece.
Quindi l’odio immortai delle superbe
Contro le sacre iliache mura, e Priamo ,
E tutta insieme la dardania gente.
Ma il duodecimo Sole apparso al mondo,
Febo agli Eterni così prese a dire:
Numi crudeli, che vi fece Ettorre?
Forse che su gli altari a voi non àrse
E di mugghianti e di lanosi armenti
Vittime elette ei sempre? Ed or che fiera
Morte lo spense, che furor s’ è questo
Di non renderne il colpo alla consorte.
Alla madre, al figliuolo, al genitore.
Al